«Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare». Così scrive Maurice Blanchot in Lo spazio letterario, specificando tuttavia che la solitudine «essenziale», nella quale si addentra nel suo saggio, non è quella esistenziale né quella tipica dell’artista che «gli sarebbe necessaria, si dice, ad esercitare la sua arte [...]. Quando Rilke scrive [...]: “la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto”, la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento» (Rilke 1967, p. 9).

È invece proprio di solitudine intesa come raccoglimento e come sospensione dal mondo che tenterò di occuparmi in questa breve analisi. Esplorando lo spazio letterario «divagrafico» (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021), cercherò di tracciare i punti di congiunzione tra la dimensione dell’arte e quella riservata alla capacità di attivare una relazione con la realtà di tipo performativo, in cui la concentrazione e l’attenzione acquistano un ruolo di primo piano.

Scriveva Cristina Campo nel saggio Attenzione e poesia: «l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero» (Campo 2019 [1961, 1987], p. 167).

Nella parola autobiografica delle attrici l’arte si pone spesso come istanza di libertà, di autonomia, di uscita dallo stereotipo divistico, di accesso a quella creatività accordata tradizionalmente al mondo maschile e a cui molte, seppure con esperienze e linguaggio differenti, dimostrano di aver desiderio di partecipare come soggetti attivi (in alcuni casi, divenendo esse stesse autrici di opere, come nel caso di Elsa De’ Giorgi, recentemente analizzato da Corinne Pontillo, 2020). Allo stesso tempo, è nel rapporto con la dimensione dell’arte in cui le attrici esprimono l’abilità di un radicarsi nell’attenzione, la stessa necessaria all’atto performativo.

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1. Donne e scrittura

È ormai noto che, lungo la storia della letteratura, la scrittura delle donne è stata sistematicamente marginalizzata. Escluse dal canone, o accolte con riserva grazie a una singola e ‘fortunata’ opera, le scrittrici sono state per secoli screditate o messe a tacere. Le tecniche, spesso subdole, impiegate a favore della loro esclusione sono ampiamente descritte nell’ormai classico saggio di Joanna Russ, How to Suppress Women’s Writing (Russ 1983), pubblicato solo recentemente in Italia. I metodi di isolamento sono numerosi: dalla «negazione dell’agency» (non può averlo scritto una donna, deve esserci stato l’intervento di un uomo) alla sua «contaminazione» (l’ha scritto una donna ma è sconveniente, non avrebbe dovuto); dall’utilizzo di «due pesi e due misure» (l’ha scritto una donna ma la materia è poco rilevante o interessante) alla «falsa categorizzazione» (l’ha scritto una donna ma non ha alcun valore artistico) (Russ 1983).

Eppure, nonostante tutto, le donne hanno sempre scritto. E, nella contemporaneità, a farlo sono sempre più numerose, come se l’esortazione a scrivere lanciata da Hélène Cixous quarant’anni fa (Cixous 1975a) fosse stata pienamente accolta. Se il pensiero filosofico necessita di numerosi sforzi per riuscire a smarcarsi dal linguaggio fallocentrico da cui per secoli è stato alimentato (Cixous 1975b), per la letteratura la strada si profila come meno ardua: «il discorso poetico o narrante ha strumenti più duttili e raffinati per evocare attraverso la lingua straniera i sensi possibili della lingua mancante» (Cavarero 1987, p. 55).

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