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1. L’opera di Calvino è sempre stata caratterizzata dallo sguardo sugli ambienti e sui paesaggi, osservati non solo dal punto di vista dei personaggi umani ma anche attraverso gli occhi delle altre creature. Queste sono spesso al centro della narrazione: possono rappresentarne il motivo centrale (come nella Formica argentina); oppure assumere la funzione di punctum nella storia (come il camoscio che osserva gli uomini e la natura nel finale di Mai nessuno degli uomini lo seppe, 1950), se non proprio di protagonisti o deuteragonisti (dall’ibrido proteiforme Qwfwq delle Cosmicomiche ai vari personaggi del ‘bestiario’ di Palomar, come il geco o il gorilla albino). È proprio in Palomar che viene illustrata la ragione fondamentale dell’interesse calviniano nei confronti del mondo animale: «per il signor Palomar […] la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia. Il fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso» (Calvino 1994, p. 895). Non è un caso perciò che Calvino sia, con molta probabilità, lo scrittore italiano più studiato e interpretato alla luce dell’ecologia letteraria; il rapporto tra l’umano e la storia in relazione all’ambiente e alla natura è infatti un elemento strutturale costante e centrale nell’invenzione e nella riflessione calviniane (mi limito a citare, per l’attinenza con il tema di Teodora, Iovino 2023; per un inquadramento generale, mi permetto di rimandare a Scaffai 2017 e 2023).

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L’undici ottobre del 2022 la redazione di Arabeschi ha incontrato on line l’artista Milo Rau, al quale è dedicata la rubrica Incontro con del numero 21. La conversazione è stata curata da Giorgia Coco con il supporto tecnico di Giovanna Santaera.

L’incontro ha toccato i punti cruciali della formazione poetica e civile dell’artista, la sua attitudine drammaturgica e performativa, la consapevolezza in ordine al pensiero e alla pratica del re-enactment, il peculiare istinto verso il cinema e i linguaggi della visione, la capacità di coniugare originalità espressiva e utilizzo di materiali ‘storici’. Il suo sguardo sul e nel presente rappresenta una delle esperienze più radicali della scena contemporanea.

La redazione di Arabeschi esprime un sentito ringraziamento a Elizabeth Pagone per aver accompagnato l’intervista con il suo prezioso ruolo di traduttrice e a Giacomo Bisordi per la preziosa mediazione.

 

 

 

Giorgia Coco: Sociologist, activist, reporter and then theater maker.

Although your biography is already known to most people, I would still like to ask you about your training and, if you have any, your role models, your teachers/mentors.

 

Milo Rau: Mentor? I mean… My grandfather. I was living with my grandfather and my grandmother when my parents divorced, I was one year old. Sometimes I spent a lot of time with my grandfather. Strangely he was an immigrant from Italy, but as many immigrants he tried to be more Swiss or more German than the Swiss and the German themselves. You know? And that's how he became a very important curator, organizer in the 70s and 80s and 90s for intellectual debates. He was a friend of Martin Heidegger in the 40s already and in the 50s of Thomas Mann, invited him in the 50s and then in the 90s he would invite all the known writers to Switzerland. And he wrote biographies on them, and he wrote down the fairy tales of Switzerland. It's written down by him, by my Italian maintaining grandfathers. So, he was a big mentor for me when I was very young. And then, later, of course Bourdieu, the professor, the French sociologist became super important to me, with his method which is a method of deep research, of living together with the people you would write about. So, he was an academic without any distance and an activist. He was very good to me. So, I could say that these two very different figures they’re my mentors.

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Si tende, di solito e spesso ingiustamente, ad associare l’opera all’artista.

Nell’immaginario collettivo – arricchito da letteratura, film, spettacoli, leggende – il tormento dell’artista è l’humus da cui scaturisce, quasi per benedizione divina, per quel talento unico e raro che solo il ‘creatore’ possiede, l’opera perfetta. Insomma, l’ideale del ‘genio e sregolatezza’ ancora accende l’immaginazione del pubblico. Pubblico che non pensa, invece, che quel binomio è in realtà un ossimoro: il genio necessita di regola, di applicazione, di studio, di lavoro, altrimenti non è. L’opera non nasce dall’impeto sturm und drang, ma dal lavorio quotidiano, dalla ricerca, dal metodo. Certo, ci vuole talento ma senza studio si può ardere della passione di un momento ma si va poco lontano.

Milo Rau è un artista di grandissimo, adamantino, talento: un ‘geniaccio’ certo – si potrebbe dire usando un’espressione popolare – che ha lavorato assai, e continua a farlo, coltivando quel suo dono con sopraffina intelligenza. Nulla di ‘sregolato’, anzi: letture, ascolto, applicazione, studio sistematico, esercizio fomentano la sua arte che si declina in modo ampio con media diversi, spostando ogni volta più avanti il limite delle sue conquiste intellettuali e artistiche.

In questa sede – mi è stato proposto di scrivere quella che si potrebbe definire una bio-teatrografia del regista svizzero – mi piace, al contrario, provare a dar retta a quel pensiero comune e associare, come accennavo, l’artista alla sua opera, mettendo in evidenza qualche possibile liaison tra il suo modo di essere, di stare al mondo, e le sue creazioni teatrali. Mi permetto di farlo anche grazie a quella che potrei definire amicizia, nata da una certa serie di incontri, interviste, scambi di opinioni, folgoranti chat, viaggi: elementi che hanno reso possibile una frequentazione capace di reggere anche negli anni della pandemia.[1]

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L'Antropocene è un'ipotesi scientifica che dà il nome al nuovo periodo geologico in cui la Terra e la sua atmosfera sono state trasformate dalle attività umane (in particolare dallo sfruttamento dei combustibili fossili), e che di fatto ha spinto il clima terrestre sull'orlo del collasso. Reso popolare nel 2000 durante il convegno dell’International Geosphere-Biosphere Programme,[1] grazie all’accordo tra il biologo naturalista Eugene F. Stoermer, che lo aveva proposto fin dagli anni Ottanta, e il premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, il termine Ê»antropoceneʼ è ormai oggi entrato nell’uso e si è molto diffuso, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più presenti e tangibili. Spesso abusato e di recente messo in discussione e sostituito da altri – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene,[2]Chtulocene[3], Capitalocene[4]… – è innegabile che viviamo in un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell'attività umana sull'ecosistema. Alla luce di quanto sta accadendo intorno a noi risulta chiaro, infatti, quanto sia impellente e necessario acquisire consapevolezza sul valore Ê»politicoʼ delle decisioni assunte nell’ambito, ad esempio, della pianificazione territoriale, del funzionamento economico e dell’organizzazione industriale o sociale per garantirne la sostenibilità.

In tal senso, una nuova consapevolezza ecologica si sta facendo strada all’interno di una massa critica mondiale sempre più consistente e numerosa. Essa ha preso coscienza della complessità del problema: preservare l’ambiente, limitare i danni dell’impatto antropico significa prendere in considerazione, ad esempio, la demografia e gli effetti perversi della mondializzazione, della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza con il conseguente aumento dei flussi migratori. In altre parole: si può leggere e comprendere il contemporaneo solo attraverso il prisma della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali.

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John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957), uno dei principali artisti britannici del nostro tempo, adotta una ‘estetica del riciclo’ per realizzare opere video basate su fonti testuali e visive eterogenee. Intrecciando filmati d’archivio a riprese originali, Purple (2017), videoinstallazione a sei schermi, si avvale delle potenzialità insite in una narrazione non lineare per far convergere ricordi autobiografici e questioni eco-filosofiche e per evocare l'interconnessione tra gli esseri umani e il mondo naturale. Purple è il secondo capitolo di una trilogia di progetti che si concentrano sulla vitalità e la precarietà della natura: il primo, Vertigo Sea (2015) presenta l'oceano come un luogo di terrore e di bellezza in cui si condensano storie legate alla colonizzazione, alla schiavitù, alle migrazioni, alle guerre e alle attuali problematiche ecologiche; l’ultimo, Four Nocturnes (2019) si interroga sulla mortalità, sulla perdita, sull'identità frammentata, sulla mitologia e sulla memoria, utilizzando come ossatura narrativa il declino delle popolazioni di elefanti in Africa. Analizzando questa trilogia, il saggio si propone di riflettere sullo spostamento del fulcro tematico che si delinea nelle più recenti opere di Akomfrah: l’essere umano perde progressivamente centralità nella narrazione per fare posto ad altre specie e agli elementi naturali – il vento, la pioggia, la neve, l'aria – che diventano attori di un dialogo post-antropocenico sul nostro presente culturale e geologico, dal quale emergono i rapporti di causalità tra le logiche imperialiste e capitaliste della modernità e l’attuale condizione di precarietà sociale e climatica.

One of Britain’s leading contemporary artists, John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957) mixes a broad spectrum of images and sources into evocative video works according to his commitment to the idea of a “recycling aesthetic”. Weaving together historical and original footage, Purple (2017), his largest installation to date, concentrates on the human impact on the environment. The video’s nonlinear structure weaves together autobiographical memories and ecological and philosophical issues, resulting in an impressive collage of ideas, images and sounds that evokes the interconnectedness of humans and the natural world. Purple is the second in the trilogy of projects that focus on the vitality and volatility of the natural world: Vertigo Sea (2015) portrays the ocean as a site of both terror and beauty in which diverse narratives interact, touching upon migration, the history of slavery and colonisation, war and conflict and current ecological concerns; Four Nocturnes (2019) questions mortality, loss, fragmented identity, mythology, and memory using Africa’s declining elephant populations as its narrative spine. Analyzing this trilogy, the essay aims to reflect on the shift in focus in Akomfrah’s works: Instead of privileging humans in the narrative, the artist assigns an equal, or even greater, importance to other species and elemental components –  the wind, the rain, the snow, the air we breathe –  that became the actors in a post-Anthropocenic dialogue on our own cultural-geological present, where modern society has become, in the course of centuries of capitalist industry, a driver of social injustice and climate change.

«Welcome to Battersea Power Station»: questo messaggio di benvenuto, reso effervescente dal dinamico sfondo di sequenze video in cui tutti sorridono, inebriati da cibo e bevande, musica, yoga e shopping, accoglie l’internauta che si appresta a fare una ricerca sulla omonima centrale elettrica londinese.

Nell’homepage del suo sito si celebra, infatti, l’apertura di una delle «London’s most exciting new shopping and leisure destinations», frutto della riconversione della centrale a carbone di Battersea, dal 1980 inserita nella National Heritage List come Grade II* Building a ragione del suo interesse architettonico e storico.[1]

Bisogna addentrarsi nella piattaforma web per scovare qualche cenno alla storia dell’edificio, che si apprende essere opera di Sir Giles Gilbert Scott, famoso architetto attivo agli inizi del secolo scorso, noto soprattutto per avere progettato le cabine telefoniche rosse, uno dei simboli dell'Inghilterra: scarni sono i riferimenti alle qualità strutturali e agli elementi in stile Art Deco, e solo una sintetica timeline riassume i principali eventi, dal 1929, con l’inizio dei lavori, al 1983, anno della cessazione dell’attività, e poi ancora fino al 2012, quando avviene l’acquisto da parte degli attuali shareholders. Questi ultimi, evidentemente, preferiscono gli slogan a una contestualizzazione, seppur sommaria, della centrale e delle sue attività nelle vicende socioeconomiche e culturali del paese:

Anche sul sito di WilkinsonEyre, lo studio di architetti che ne ha progettato e curato il restauro e la riconversione, la storia della centrale è limitata a sei righe, tre delle quali dedicate a ricordare, come un glorioso aneddoto, l’apparizione dell’edificio sulla copertina dell’album dei Pink Floyd Animals, uscito nel 1977. Questo cenno, con tutta probabilità inserito con l’intento di accrescere il prestigio del complesso, fornisce a chiunque abbia in mente quel disco e, soprattutto, quell’immagine, un indizio che rimanda a un’altra storia, assai più amara e cupa di quella di un’innocua e prodiga centrale elettrica che ha permesso alle generazioni passate di «mangiare, bere, comprare e giocare».

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Lo studio si concentra su Le fleuve qui voulait écrire, volume pubblicato nel 2021 a cura di Camille de Toledo, scrittore, giurista e attivista francese. Esso si fa portavoce di una rinnovata coscienza ecologica che, sulla scia delle scelte operate da altri paesi europei ed extra-europei, espressioni delle nuove frontiere varcate dal diritto ambientale, ha tentato di dare voce e scrittura al fiume Loira. De Toledo racconta le audizioni del Parlamento della Loira che si sono svolte tra il 2019 e il 2021 e realizza così un vero e proprio dispositivo inter e transmediale. Esso, infatti, sfruttando le potenzialità di altri media in una prospettiva anche ‘fuori dal libro’ (fotografia, disegno, video, registrazioni audio), diventa espressione della volontà di rinnovamento della giurisprudenza in un’ottica di decostruzione dell’approccio antropocentrico, in vista del riconoscimento del principio di interdipendenza dei viventi e della necessità di creare istituzioni interspecie che favoriscano il riconoscimento dei diritti di tutte le soggettività viventi.

The study focuses on Le fleuve qui voulait écrire, a volume published in 2021 by Camille de Toledo, a French writer, jurist and activist. The book is a spokesman for a renewed ecological conscience that, in the wake of the choices made by other European and non-European countries, expressions of the new frontiers crossed by environmental law, has attempted to give voice and writing to the Loire river. De Toledo recounts the hearings of the Parlement de Loire that took place between 2019 and 2021 and thus creates a true inter- and trans-media device. In fact, by exploiting the potential of other media in a perspective that is also ‘outside the book’ (photography, drawing, video, audio recordings), it becomes an expression of the will to renew jurisprudence with a view to deconstructing the anthropocentric approach, to recognising the principle of interdependence of living beings and the need to create inter-species institutions that favour the recognition of the rights of all living subjectivities.

 

Il volume sul quale si concentra questo studio in realtà non è solo un libro, ma un vero e proprio oggetto inter- e transmediale. Infatti, se con l’espressione Ê»narrazione transmedialeʼ si intende «una storia raccontata su diversi media, per la quale ogni singolo testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo»,[1] allora il volume Le fleuve qui voulait écrire[2] ne rappresenta un esempio. Il testo è il primo prodotto di un progetto di ampio respiro coordinato da Camille de Toledo, scrittore, giurista e attivista francese. Esso si muove attraverso diversi tipi di media: testo scritto, fotografie, disegni e stampe, ma anche, in una prospettiva hors du livre, attraverso le registrazioni audio e video delle Auditions du Parlement de Loire[3] fruibili liberamente[4] su alcuni siti istituzionali partner del progetto. Questa complessità narrativa contribuisce a perfezionare, integrare e arricchire l’esperienza del fruitore grazie all’intersecarsi di molteplici e distinte informazioni. In questo modo il pubblico è chiamato a ricostruire il significato complessivo e complesso dell’opera integrando i diversi media coinvolti. Ogni medium, infatti, veicolando nuove e distinte informazioni, contribuisce allo sviluppo e alla comprensione del mondo narrato.

Tuttavia, il verbo ‘narrare’ e il sostantivo ‘narrazione’ non sembrano i termini più corretti per descrivere questa esperienza artistica, per la quale, in verità, le espressioni fiction o récit fictionnel appaiono poco appropriate. La stessa casa editrice nel presentare il volume lo definisce Ê»un ouvrage historiqueʼ, un’opera storica pertanto che, sulla scia delle iniziative lanciate fin dal 1998 dall’International Secretariat for Water (ISW) e dal Solidarity Water Europe (SWE), testimonia la possibilità da parte di un corso d’acqua

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Lo studio avanza una rilettura del genere artistico relativo ai confini geo-politici e concettuali (Border Art) nel contesto dell’Antropocene. Attraverso una metodologia interdisciplinare articolata tra geografia e arte contemporanea, si ripercorre un doppio binario, concreto ed epistemico. Lo studio sviscera, dunque, l’annoso dibattito attorno alla più adeguata (e decolonizzata) denominazione per la nuova era geologica e analizza una selezione di opere provenienti da diversi contesti frontalieri. Da quest’ultima, emergono due nodi principali — la “traccia” e la “mobilità” — attraverso cui la Border Art si rende un utile strumento per orientarsi all’interno delle dinamiche antropoceniche. Se la prima si presenta come un simbolo della forma mentis d’epoca moderna e coloniale, il secondo manifesta la necessità di concentrare l’attenzione verso l’idea di movimento, sostenendo così le tesi sulle kinopolitiche e sul Kinocene di Thomas Nail.

The study proposes a re-reading of the artistic genre concerning geo-political and conceptual borders (Border Art) in the Anthropocene context. The research moves through a concrete and epistemic double track, by following an interdisciplinary methodology between contemporary art and geography. By tracing the long-standing debate on the most adequate (and decolonized) denomination for the new geological era, the text analyzes a diversified selection of art pieces belonging to different border contexts. Two main concepts emerge from the latter: the idea of ‘trace” and the one of “movement”. They correspond to the main contribution that Border Art provides to grasp the anthropocenic dynamics. The first one represents a symbol of the modern and colonial thought, while the second one expresses the needs for a deeper attention towards the idea of movement and, by doing so, it sustains the thesis on kinopolitics and Kinocene proposed by Thomas Nail.

 

 

1. Introduzione, obiettivi e metodi

 

From up here the Earth is beautiful,

without borders or boundaries.

Jurij Gagarin 

 

Per via di un radicale allontanamento del punto di osservazione sulla Terra,[1] la celebre frase di Jurij Gagarin sull’impossibilità di vedere i confini territoriali dallo spazio ha fin da subito generato una collettiva, e non priva di invidia, fascinazione per quell'inedito belvedere e per l’illusione, da esso suscitata, di un mondo senza frontiere. Nonostante questa prima testimonianza, si è comunque diffusa nel tempo la diceria secondo la quale da una tale distanza sarebbe comunque ancora possibile osservare a occhio nudo la Grande Muraglia Cinese. Nel 2003, è intervenuto l’astronauta cinese Yang Liwei a sostenere[2], pur non senza persistenti difficoltà, l’irrealtà di tale radicata credenza, a sua volta confutata da spiegazioni sul funzionamento dell’occhio umano.[3] Nonostante ciò, la persistenza di questa leggenda pare suggerire un’ossessione del genere umano per i confini, se non addirittura l’incapacità stessa di immaginare il suolo terrestre completamente privo di demarcazioni territoriali. Oggi, sempre più artisti e studiosi, muovendo figurativamente dallo stesso punto di vista di Gagarin e Liwei, ci invitano a «re-imparare ad atterrare sulla Terra»[4] come reazione a un epocale disorientamento politico-sociale, di portata simile a quello post-copernicano e kepleriano. Si tratta dello sconvolgimento suscitato dalla consapevolezza di essere, ormai da tempo, dentro l’Antropocene.

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Partendo dall’assunto del botanico Humboldt che solo un legame intatto tra uomo e natura – legato da conoscenza ed esperienza, empatia ed emozione – può essere la base di una civiltà sostenibile (Wulf 2017), possiamo constatare come la drammaturgia contemporanea si sia mostrata particolarmente adatta ad accogliere e rileggere le tematiche legate all’Antropocene. Nel presente saggio verranno analizzati diversi approcci teatrali alla tematica, strutturalmente accomunati per i propri formati drammaturgici ibridi, che confermano l’hypermedium teatrale (Auslander 2008) come efficace strumento di divulgazione e sensibilizzazione della società. Strumento critico che attraverso una relazione incarnata e un’esperienza diretta (Sofia 2015) –  anche quando mediata – stimola lo spettatore a una riflessione, il teatro dell’Antropocene viene rappresentato paradossalmente dal non-umano in scena. È infatti attraverso un teatro post-umano (Corvin 2014) che si offre allo spettatore quella visione/soluzione non antropocentrica, salvifica e alternativa all’Antropocene. Nelle performance scelte il dibattito attuale sulle questioni antropoceniche, come le emissioni di CO2 e l’atmosfera, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità (Granata 2016), così come le questioni di diritto e giustizia, i diritti degli animali e della natura sono teatralmente esposte, divengono ‘materia narrante’.

Following up on botanist Humboldt’s assumption that only an intact bond between man and nature – connected by knowledge and experience, empathy and emotion – can be the basis for a sustainable civilization (Wulf 2017), we can see how contemporary dramaturgy has proved itself to be particularly well suited to accepting and reinterpreting issues related to the Anthropocene. This essay will analyze different theatrical approaches, structurally associated by their hybrid dramaturgical formats, which confirm the theatrical hypermedium (Auslander 2008) as an effective means of dissemination and awareness of society. As a critical tool that through an embodied relationship and direct experience (Sofia 2015) – even when mediated – stimulates the spectator to reflect, the theatre of the Anthropocene is paradoxically represented by the non-human on stage. A non-anthropocentric and alternative vision/solution to the Anthropocene is offered to the spectator through a post-human theatre (Corvin 2014). The current debate on Anthropocene issues such as CO2 emissions and the atmosphere, ocean acidification and biodiversity loss (Granata 2016), as well as issues of law and justice, animal rights and nature are theatrically exposed through the chosen performances, as ‘narrative matter’.

 

 

1. Introduzione

Gli strumenti di costruzione di una coscienza globale sull’attuale condizione di sfruttamento del pianeta – e sulle relative conseguenze ambientali – sono sovente frutto di un’ampia campagna di informazione pubblica condotta attraverso i media e i nuovi canali dell’informazione digitale. Eppure, il teatro può essere considerato un efficace strumento, non solo divulgativo ma anche persuasivo, per ciò che concerne le urgenti tematiche ecologiche e ambientali contemporanee.

 

 

Come temi drammatici, il cambiamento climatico e la crisi ecologica sfuggono al modello di una rappresentazione drammaturgica statica. È pertanto più opportuno approcciarsi ad essi pensandoli come degli hyperobjects, un termine coniato da Timothy Morton[2] per descrivere fenomeni che presentano, rispetto agli esseri umani, una tale dimensione/entità temporale e spaziale da poter essere visti solo in piccole parti – in singoli momenti – e la cui comprensione resta pertanto intrinsecamente difficile. Possiamo sperimentare direttamente il tempo atmosferico, ad esempio, ma il clima come sistema espanso e disperso rimane inaccessibile ai singoli individui, per quanto i potenti mezzi tecnologici attuali possano modellarlo bene. L’esempio di iperoggetto di nostro interesse è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che la sua esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti, che non esiste ‘un fuori’.

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Per mezzo di quali metafore visuali è possibile comprendere la logica culturale del Capitalocene all’interno del sistema dell’arte contemporanea? Possiamo intendere l’estrattivismo come rappresentazione simbolica di tale ‘nuova’ era geologica? Intento di questo paper è fornire una risposta a tali domande considerando vari casi studio legati all’arte contemporanea utili a stabilire una traiettoria narrativa che insista sul rapporto tra paesaggio, cambiamenti ambientali e infrastrutture tecnologiche. Dal punto di vista strutturale, dopo una breve riflessione sul termine Capitalocene e sulle sue specifiche occorrenze nella critica artistica contemporanea, l’articolo si compone di due sezioni tematiche finalizzate a tracciare un parallelismo concettuale tra i vecchi metodi di estrazione mineraria – e più in generale di risorse naturali – e le attuali pratiche legate al mining contemporaneo – attività, al pari della precedente, estremamente impattante sul piano ambientale e foriera di alcune contraddizioni etico-politiche sul piano della produzione artistica contemporanea.

Which metaphors can be used to understand the agency of the cultural logic of the Capitalocene within contemporary art? Can we consider the extractivism as a symbolic representation of this new kind of geological era? The aim of this paper is to answer these questions by tackling several contemporary art case studies useful to define a trajectory that focuses on the interplay between the landscape, environmental disasters and technological infrastructures. After a short introduction on the term Capitalocene and its success within contemporary art criticism, the article is made up by two thematic chapters devoted to establish a dialectic between the old minerary extractive methods and the current practices linked to the contemporary mining.

 

1. Presupposti terminologici: Antropocene versus Capitalocene

La frase riportata nel titolo è tratta da una dichiarazione di uno speaker della conferenza Ways Beyond Internet organizzata all’interno del Digital Life Design Festival del 2012, una delle rassegne più importanti al mondo dedicata al tema della creatività futura e all’impiego di nuove strategie commerciali per le grandi aziende e multinazionali. In quella cornice, durante una tavola rotonda moderata da Hans Ulrich Obrist – con vari artisti tra cui Rafaël Rozendaal, Oliver Laric, Cory Arcangel – Daniel Keller, fondatore del duo artistico AIDS-3D, ha preso la parola e, prima di intavolare un discorso sulla post-internet art, ha annunciato, con un misto di ironia e sarcasmo, che, per quanto possa essere sostenibile ed environmental-friendly, l’arte contemporanea – e più in generale la produzione culturale della contemporaneità – grava su un ineludibile paradosso; le GIF animate, le opere di net-art, per quanto sperimentali e all’avanguardia siano, esistono unicamente grazie a combustibili fossili e i computer, con cui in genere queste opere sono realizzate, sono stati assemblati da lavoratori schiavizzati dall’attuale sistema economico.[1] In altri termini: la produzione artistica contemporanea legata ai nuovi media e alle tecnologie, che talvolta fa affidamento alle criptovalute e ai processi di mining, benché spesso animata da un forte sostegno alla salvaguardia e alla tutela dell’ambiente, ha, e avrà sempre, un impatto non trascurabile in termini di etica, ecologia e coerenza produttiva.

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