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Il contributo si concentra su alcune delle ultime creazioni di Milo Rau e sul suo tentativo di creare i presupposti per una nuova global art. L’analisi prende in considerazione, in particolare, The New Gospel e Antigone in the Amazon, entrambi caratterizzati dalla volontà di riscrivere e riattraversare narrazioni antiche (il Vangelo secondo Matteo e l’Antigone di Sofocle) alla luce di nuove urgenze politiche, adottando una prospettiva non eurocentrica. L’articolo mette in luce le strategie utilizzate da Rau come strumento per il cambiamento sociale e per porre domande critiche sui rapporti di potere e le disuguaglianze globali, e prova a riflettere sulle contraddizioni che si generano nelle intersezioni tra arte e attivismo.

The article focuses on Milo Rau's most recent creations and his efforts to lay the foundations for a ‘new global art’. The analysis examines in particular The New Gospel and Antigone in the Amazon, both of which are characterized by the intention to rewrite and recontextualise ancient narratives (the Gospel of Matthew and Sophocles’ Antigone) in the light of new political urgencies, adopting a non-Eurocentric perspective. The article highlights the strategies used by Rau as tools for social change and for raising critical questions about power relations and global inequalities, while reflecting on the contradictions that arise at the intersections between art and activism

 

Nel febbraio 2021 Milo Rau ha convocato presso la Akademie der Künste di Berlino alcuni interlocutori a discutere della possibilità di una autentica global art sulla scena mondiale (Can There Be Global Art? è il titolo delle giornate di riflessione);[1] tra loro, Rabih Mroué, Lia Rodrigues, Wajdi Mouawad. Uno dei temi emersi con maggior vigore dalla discussione è la poca visibilità degli artisti non occidentali e la loro conseguente necessità di approdare a centri europei per poter lavorare e farsi conoscere, perdendo così il pubblico di riferimento, e trovandosi a modulare di conseguenza gusti e linguaggi.[2]

Queste e altre riflessioni attraversano da diversi anni la più avanzata scena europea, orientando le proposte artistiche non solo verso un generico impegno a raccontare il presente, ma verso territori ibridi tra arte e attivismo: cioè verso atti – artistici, curatoriali o produttivi – volti a cambiare concretamente qualche aspetto della realtà.

 

 

La volontà di agire sul mondo è del resto da tempo al centro degli interessi di Milo Rau come artista, direttore artistico NT Gent, intellettuale impegnato, come ben emerge dalla lettura complessiva di Realismo Globale[3] e dal primo punto del suo Manifesto (pubblicato all’interno dello stesso volume). In particolare, l’indagine di Rau si focalizza con sempre maggior vigore sullo scardinamento dei rapporti di potere (anche in termini di narrazioni) tra Europa ed extra-Europa, promuovendo una riflessione critica su i non pochi aspetti ancora irrisolti di questa relazione. Si prenderanno in considerazione, in questa prospettiva, due progetti significativi: The New Gospel (2019-2020) e Antigone in the Amazon (2020-2023). In entrambi i casi, Rau manifesta la volontà di riscrivere e riattraversare narrazioni antiche (il Vangelo secondo Matteo e l’Antigone di Sofocle) alla luce di nuove urgenze politiche, e provando a guardarle in prospettiva non eurocentrica.

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Il saggio ha come focus l’operato di Milo Rau all’interno di un contesto ampio di relazioni tra teatro, semiologia e antropologia. Evidenziando il carattere fortemente intertestuale dell’opera dell’artista svizzero, si propone una lettura della sua vasta produzione attraverso la teoria delle scienze sociali di Bruno Latour. In questo senso il corpus delle opere del regista è proposto come un sistema metamorfico. Si procederà, quindi, ad un’analisi degli spettacoli Family e Grief and Beauty (primi due capitoli della Trilogia della vita privata), allo scopo di mettere in relazione dialettica non solo le due opere con gli esiti precedenti, ma piuttosto la dimensione privata con la Storia, con l’Antropocene.

The essay focuses on Milo Rau's work within a broad context of relations between theatre, semiology and anthropology. Highlighting the strongly intertextual character of the Swiss artist's work, an interpretation of his vast production through Bruno Latour's social science theory is proposed. In this sense, the corpus of the director's works is proposed as a metamorphic system. We will therefore proceed to an analysis of the plays Family and Grief and Beauty (the two chapters of the Private Life Trilogy), in order to dialectically relate not only the two works with their previous outcomes, but rather the private dimension with History and with the Anthropocene.

 

1. Costellazioni ibride e zone metamorfiche

 

La prolifica attività produttiva di Milo Rau è espressione diretta di un metodo che all’istinto per la sperimentazione di forme unisce l’attenzione del sociologo. Sintetizzando si potrebbe affermare che la sua prassi metodologica sia la ricerca antropologica e il modo migliore per rappresentarne gli esiti. Rubando da Bossart e dalla sua intervista al regista bernese il riferimento all'etnologo Clifford Geertz, potremmo indicare, in una proficua fluidità tra teatro e antropologia, la sua come una prassi di «descrizione densa», in cui «le forme di vita»[1] acquisiscono corpo perché inscritte in un con-testo di cui ci si appropria solo attraverso partecipazione attiva e analisi interpretativa. La sua formazione come sociologo, il suo passato da attivista lo caratterizzano nel metodo e nella forma. Difatti il suo metodo investigativo-creativo, quand’anche persegua modalità tecniche di tipo documentaristico, non strumentalizza il materiale acquisito per una narrazione da reportage, piuttosto rappresenta «una sorta di guida alla lettura in senso politico dei racconti biografici degli attori. In tal modo gli aspetti più privati sono apparsi come metafora, come allegoria del sublime».[2]

Sia chiaro però che l'attributo di regista sociale non si addice all'autore di Hate Radio. Infatti, se il dramma sociale per Szondi manifesta, nella sua costruzione scenica, non il microcosmo per il macrocosmo (principio simbolico afferente al dramma) ma la pars pro toto,[3] tanto da «rappresentare drammaticamente le condizioni economico-politiche sotto il cui impero è caduta la vita individuale»,[4] e se il compito dei suoi autori è «mostrare i fattori che hanno le loro radici al di là della situazione singola e del singolo fatto, e che pure li determinano»,[5] ciò non può dirsi affine all’operato di Rau, il quale cerca di essere contemporaneamente «cronista e portatore di utopie».[6] Non c’è determinismo illuministico nelle sue opere, né alcuna necessità di restituire una mimetica riproduzione del reale o di esporre teatralmente dinamiche sociali. Difatti non tratteggia mondi esemplari da cui trarre norme comportamentali, ma recupera dal panorama storico un evento[7] per dedurne la sua caratteristica allegorica.[8] Per questa ragione, quand’anche lavori ad opere di re-enactment si tratta pur sempre di una forma d’arte la cui realizzazione pone l'obiettivo di un disvelamento mai concluso nella riproposizione dell'atto in forma mimetico-documentaristica. The last days of Ceauçescus o Hate radio sono «re-enactment artistici»,[9] opere d'intelletto in cui gli eventi si mostrano secondo una realtà fittizia, una fantasmagoria sociale non per questo non reale; così come i suoi Trial (The Congo Tribunal, The Moscow trial o The Zurich trial) sono al contempo procedimenti fittizi e accadimenti. È nell'attenzione al dettaglio che si restituisce l'effetto di realtà. «Ma la modernità, a cui io aderisco, ricerca la precisione matematica, la costruzione della presenza: l'arricchimento quasi smisurato unito all’umile semplicità di una struttura sobria; la sostituzione dell'autentico con l'intelligenza di una forma emotiva creata ad hoc».[10] Non si tratta mai di verità fattuale, ma esclusivamente di verità artistica, in cui la finzione non rende meno credibile la rappresentazione. «Questa è la ragione per cui il teatro si è sviluppato come forma d’arte: per mettere in opera la più naturale e la più fantasiosa delle abilità umane, quella di ricreare la realtà a partire da un immaginario sociale».[11] Si parla sempre, dunque, di un’opera che punta, in una dialettica laboriosa tra l’immaginazione e la comprensione, tra le idee e la loro trasposizione, a realizzare qualcosa che sia vero, che diventi reale laddove per reale si intenda una struttura aperta. «Realismo non significa che si rappresenta qualcosa di reale, ma che la rappresentazione è essa stessa reale; significa produrre una situazione che porti in sé tutte le conseguenze del reale per i partecipanti, una situazione che sia moralmente, politicamente ed esistenzialmente aperta».[12] Perché «il teatro non è altro che un ritorno molto concreto a questa semplice lezione aristotelica: tutto ciò che consideriamo come reale non è che una convenzione sociale».[13] In linea di continuità con gli studi di Turner, il teatro è qui esperienza liminale, tra realtà e rappresentazione.

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L’undici ottobre del 2022 la redazione di Arabeschi ha incontrato on line l’artista Milo Rau, al quale è dedicata la rubrica Incontro con del numero 21. La conversazione è stata curata da Giorgia Coco con il supporto tecnico di Giovanna Santaera.

L’incontro ha toccato i punti cruciali della formazione poetica e civile dell’artista, la sua attitudine drammaturgica e performativa, la consapevolezza in ordine al pensiero e alla pratica del re-enactment, il peculiare istinto verso il cinema e i linguaggi della visione, la capacità di coniugare originalità espressiva e utilizzo di materiali ‘storici’. Il suo sguardo sul e nel presente rappresenta una delle esperienze più radicali della scena contemporanea.

La redazione di Arabeschi esprime un sentito ringraziamento a Elizabeth Pagone per aver accompagnato l’intervista con il suo prezioso ruolo di traduttrice e a Giacomo Bisordi per la preziosa mediazione.

 

 

 

Giorgia Coco: Sociologist, activist, reporter and then theater maker.

Although your biography is already known to most people, I would still like to ask you about your training and, if you have any, your role models, your teachers/mentors.

 

Milo Rau: Mentor? I mean… My grandfather. I was living with my grandfather and my grandmother when my parents divorced, I was one year old. Sometimes I spent a lot of time with my grandfather. Strangely he was an immigrant from Italy, but as many immigrants he tried to be more Swiss or more German than the Swiss and the German themselves. You know? And that's how he became a very important curator, organizer in the 70s and 80s and 90s for intellectual debates. He was a friend of Martin Heidegger in the 40s already and in the 50s of Thomas Mann, invited him in the 50s and then in the 90s he would invite all the known writers to Switzerland. And he wrote biographies on them, and he wrote down the fairy tales of Switzerland. It's written down by him, by my Italian maintaining grandfathers. So, he was a big mentor for me when I was very young. And then, later, of course Bourdieu, the professor, the French sociologist became super important to me, with his method which is a method of deep research, of living together with the people you would write about. So, he was an academic without any distance and an activist. He was very good to me. So, I could say that these two very different figures they’re my mentors.

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Si tende, di solito e spesso ingiustamente, ad associare l’opera all’artista.

Nell’immaginario collettivo – arricchito da letteratura, film, spettacoli, leggende – il tormento dell’artista è l’humus da cui scaturisce, quasi per benedizione divina, per quel talento unico e raro che solo il ‘creatore’ possiede, l’opera perfetta. Insomma, l’ideale del ‘genio e sregolatezza’ ancora accende l’immaginazione del pubblico. Pubblico che non pensa, invece, che quel binomio è in realtà un ossimoro: il genio necessita di regola, di applicazione, di studio, di lavoro, altrimenti non è. L’opera non nasce dall’impeto sturm und drang, ma dal lavorio quotidiano, dalla ricerca, dal metodo. Certo, ci vuole talento ma senza studio si può ardere della passione di un momento ma si va poco lontano.

Milo Rau è un artista di grandissimo, adamantino, talento: un ‘geniaccio’ certo – si potrebbe dire usando un’espressione popolare – che ha lavorato assai, e continua a farlo, coltivando quel suo dono con sopraffina intelligenza. Nulla di ‘sregolato’, anzi: letture, ascolto, applicazione, studio sistematico, esercizio fomentano la sua arte che si declina in modo ampio con media diversi, spostando ogni volta più avanti il limite delle sue conquiste intellettuali e artistiche.

In questa sede – mi è stato proposto di scrivere quella che si potrebbe definire una bio-teatrografia del regista svizzero – mi piace, al contrario, provare a dar retta a quel pensiero comune e associare, come accennavo, l’artista alla sua opera, mettendo in evidenza qualche possibile liaison tra il suo modo di essere, di stare al mondo, e le sue creazioni teatrali. Mi permetto di farlo anche grazie a quella che potrei definire amicizia, nata da una certa serie di incontri, interviste, scambi di opinioni, folgoranti chat, viaggi: elementi che hanno reso possibile una frequentazione capace di reggere anche negli anni della pandemia.[1]

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