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Il saggio ha come focus l’operato di Milo Rau all’interno di un contesto ampio di relazioni tra teatro, semiologia e antropologia. Evidenziando il carattere fortemente intertestuale dell’opera dell’artista svizzero, si propone una lettura della sua vasta produzione attraverso la teoria delle scienze sociali di Bruno Latour. In questo senso il corpus delle opere del regista è proposto come un sistema metamorfico. Si procederà, quindi, ad un’analisi degli spettacoli Family e Grief and Beauty (primi due capitoli della Trilogia della vita privata), allo scopo di mettere in relazione dialettica non solo le due opere con gli esiti precedenti, ma piuttosto la dimensione privata con la Storia, con l’Antropocene.

The essay focuses on Milo Rau's work within a broad context of relations between theatre, semiology and anthropology. Highlighting the strongly intertextual character of the Swiss artist's work, an interpretation of his vast production through Bruno Latour's social science theory is proposed. In this sense, the corpus of the director's works is proposed as a metamorphic system. We will therefore proceed to an analysis of the plays Family and Grief and Beauty (the two chapters of the Private Life Trilogy), in order to dialectically relate not only the two works with their previous outcomes, but rather the private dimension with History and with the Anthropocene.

 

1. Costellazioni ibride e zone metamorfiche

 

La prolifica attività produttiva di Milo Rau è espressione diretta di un metodo che all’istinto per la sperimentazione di forme unisce l’attenzione del sociologo. Sintetizzando si potrebbe affermare che la sua prassi metodologica sia la ricerca antropologica e il modo migliore per rappresentarne gli esiti. Rubando da Bossart e dalla sua intervista al regista bernese il riferimento all'etnologo Clifford Geertz, potremmo indicare, in una proficua fluidità tra teatro e antropologia, la sua come una prassi di «descrizione densa», in cui «le forme di vita»[1] acquisiscono corpo perché inscritte in un con-testo di cui ci si appropria solo attraverso partecipazione attiva e analisi interpretativa. La sua formazione come sociologo, il suo passato da attivista lo caratterizzano nel metodo e nella forma. Difatti il suo metodo investigativo-creativo, quand’anche persegua modalità tecniche di tipo documentaristico, non strumentalizza il materiale acquisito per una narrazione da reportage, piuttosto rappresenta «una sorta di guida alla lettura in senso politico dei racconti biografici degli attori. In tal modo gli aspetti più privati sono apparsi come metafora, come allegoria del sublime».[2]

Sia chiaro però che l'attributo di regista sociale non si addice all'autore di Hate Radio. Infatti, se il dramma sociale per Szondi manifesta, nella sua costruzione scenica, non il microcosmo per il macrocosmo (principio simbolico afferente al dramma) ma la pars pro toto,[3] tanto da «rappresentare drammaticamente le condizioni economico-politiche sotto il cui impero è caduta la vita individuale»,[4] e se il compito dei suoi autori è «mostrare i fattori che hanno le loro radici al di là della situazione singola e del singolo fatto, e che pure li determinano»,[5] ciò non può dirsi affine all’operato di Rau, il quale cerca di essere contemporaneamente «cronista e portatore di utopie».[6] Non c’è determinismo illuministico nelle sue opere, né alcuna necessità di restituire una mimetica riproduzione del reale o di esporre teatralmente dinamiche sociali. Difatti non tratteggia mondi esemplari da cui trarre norme comportamentali, ma recupera dal panorama storico un evento[7] per dedurne la sua caratteristica allegorica.[8] Per questa ragione, quand’anche lavori ad opere di re-enactment si tratta pur sempre di una forma d’arte la cui realizzazione pone l'obiettivo di un disvelamento mai concluso nella riproposizione dell'atto in forma mimetico-documentaristica. The last days of Ceauçescus o Hate radio sono «re-enactment artistici»,[9] opere d'intelletto in cui gli eventi si mostrano secondo una realtà fittizia, una fantasmagoria sociale non per questo non reale; così come i suoi Trial (The Congo Tribunal, The Moscow trial o The Zurich trial) sono al contempo procedimenti fittizi e accadimenti. È nell'attenzione al dettaglio che si restituisce l'effetto di realtà. «Ma la modernità, a cui io aderisco, ricerca la precisione matematica, la costruzione della presenza: l'arricchimento quasi smisurato unito all’umile semplicità di una struttura sobria; la sostituzione dell'autentico con l'intelligenza di una forma emotiva creata ad hoc».[10] Non si tratta mai di verità fattuale, ma esclusivamente di verità artistica, in cui la finzione non rende meno credibile la rappresentazione. «Questa è la ragione per cui il teatro si è sviluppato come forma d’arte: per mettere in opera la più naturale e la più fantasiosa delle abilità umane, quella di ricreare la realtà a partire da un immaginario sociale».[11] Si parla sempre, dunque, di un’opera che punta, in una dialettica laboriosa tra l’immaginazione e la comprensione, tra le idee e la loro trasposizione, a realizzare qualcosa che sia vero, che diventi reale laddove per reale si intenda una struttura aperta. «Realismo non significa che si rappresenta qualcosa di reale, ma che la rappresentazione è essa stessa reale; significa produrre una situazione che porti in sé tutte le conseguenze del reale per i partecipanti, una situazione che sia moralmente, politicamente ed esistenzialmente aperta».[12] Perché «il teatro non è altro che un ritorno molto concreto a questa semplice lezione aristotelica: tutto ciò che consideriamo come reale non è che una convenzione sociale».[13] In linea di continuità con gli studi di Turner, il teatro è qui esperienza liminale, tra realtà e rappresentazione.

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«Se sono bravi vivono» dice Matteo Garrone sul set di Gomorra durante una pausa delle riprese. Sta cercando di frenare l’ ‘entusiasmo’ di Giovanni Venosa, interprete del capo del clan di Pineta Mare, talmente immedesimato nella parte e coinvolto nel progetto del film da suggerire con grande insistenza al regista di concludere la storia con la morte, per mano sua, di Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone), protagonisti della quinta sezione dell’opera [fig. 1].

È uno dei passaggi chiave dell’ultima parte del documentario realizzato da Melania Cacucci e intitolato Gomorra. Cinque storie brevi che, come il film di Matteo Garrone, si struttura in segmenti non tuttavia intrecciati ma corrispondenti a capitoli separati incentrati sui personaggi principali del film.

Il materiale, girato con tecnologia digitale agile e ‘leggera’, viene montato da Elisa Santelli con sequenze del film, registrazioni dei ciak (tramite video assist) e brani audio di presa diretta al fine di costituire quello che originariamente doveva essere il backstage del film da inserire nei contenuti extra del DVD. Le figure umane e le dinamiche che tra esse si stabiliscono, prontamente colte dalla videocamera della regista, fanno sì tuttavia che il progetto iniziale, da semplice ‘dietro le quinte’ di Gomorra, si trasformi in un documento più articolato che approfondisce i temi presenti nel film e il contesto in cui si è svolta la lavorazione.

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La prima sequenza di Gomorra di Matteo Garrone si svolge in un centro estetico. Gli spazi angusti delle cabine abbronzanti e di una toilette invadono le inquadrature ravvicinate. Tutta l’immagine è bagnata in una luce blu intensissima [fig. 1]. Per qualche secondo la sensazione è di trovarsi in un altro mondo, uno spazio futuristico e sospeso: poi subentra la tensione, e sarà l’irruzione della lingua napoletana e soprattutto l’esplosione di violenza a precipitare bruscamente lo spettatore nelle precise coordinate spazio-temporali che rispondono al nome di Gomorra.

La prima inquadratura del primo episodio di Gomorra - La serie è una strada notturna, sovrastata da un cavalcavia, su cui incombe a sua volta un cielo nuvoloso blu cupo [fig. 2]. È un esterno gravato da una banda orizzontale scura, che ne abbatte il potenziale spaziale. Nel corso della serie il blu appare come un colore ricorrente, presente in modulazioni diverse nelle scene notturne o nelle location interne: un blu innaturale, come le stranianti prime inquadrature del film del 2008, riaffiora nell’uso di neon, luci pop, fluo, nei locali e nelle stanze che hanno il ruolo di luoghi del potere. L’illuminazione artificiale è uno dei principali strumenti visivi usati dalla serie per controbilanciare la cifra realistica che emerge ad esempio nella rappresentazione cruda della violenza.

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Su cosa sia successo al cinema italiano per diventare così marginale per la vita delle persone (e di conseguenza in un più ampio panorama internazionale) si possono avanzare diverse ipotesi. Una potrebbe essere quella riportata dalle parole di una vecchia conversazione tra Ciprì e Maresco e Tatti Sanguineti, nella trasmissione Il club del 1997: il cinema italiano ha dimenticato i volti delle persone e li ha sostituiti con un mondo posticcio, spesso creato dalle scuole di recitazione, luogo ideale in cui registi provenienti dai corsi di regia possono soddisfare le esigenze di produttori ligi ai criteri stabiliti dalle film commission sparse per il territorio o da altri finanziatori pubblici. Cartina di tornasole di questo panorama non sono tanto i cosiddetti film d’autore ma soprattutto la produzione media, il cinema ‘commerciale’, dal momento che con sempre maggiore difficoltà il cinema italiano riesce a portare avanti un discorso autoriale che non parli soltanto al suo mondo e a quello della critica e dei festival ma riesca a sporgersi un po’ più in là, verso il mondo reale. I film di molti dei più coraggiosi registi italiani non riescono, loro malgrado, a toccare una cerchia più ampia di quella costituita da competentissimi spettatori o lungimiranti estimatori, e se anche hanno l’impressione di contribuire a ridisegnare il panorama del cinema contemporaneo è ancora troppo poco. Il risultato è quello di una partizione netta tra un cinema magari audace e apprezzato nei circuiti d’essai, ma poco o per nulla visto, e un cinema popolare artefatto, che parla alle masse mettendo in primo piano l’intrattenimento o i suoi alter ego più ricattatori (le tematiche sociali, le ‘finzioni di sinistra’). Più difficile è trovare nel panorama italiano contemporaneo un cinema d’autore e da grande pubblico come lo erano innumerevoli esempi del grande e meno grande cinema italiano fino a non molto tempo fa – e come lo sono ancora oggi molti film, ad esempio in Francia o negli Stati Uniti. Più difficile è trovare in Italia un cinema non compiaciuto che provi a ragionare sul mondo contemporaneo assumendosi il rischio di prendere le distanze da una certa standardizzazione delle immagini e della narrazione senza rinchiudersi immediatamente in nicchie protette. Si salvano solo poche eccezioni, e ognuno farà i nomi che più ritiene opportuni: Moretti, Maresco, Garrone, Bellocchio, Bertolucci…

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Il saggio ricostruisce i rapporti di collaborazione e intenso confronto tra Ennio Morlotti, Giovanni Testori e Francesco Arcangeli nei primi anni del secondo dopoguerra, quando la pittura informale comincia a farsi spazio anche in Italia. L’analisi dell’esperienza artistica di Morlotti attraverso le interpretazioni critiche di Arcangeli e Testori risulta fondamentale per delineare il dibattito tra realismo e astrattismo sulla possibilità di rappresentazione della figura umana che sfocia – passando attraverso la scomposizione cubista di Picasso e le dense pennellate di Cézanne – nell’ampia gamma dell’arte informel italiana. In particolare i due critici d’arte hanno sostenuto, in prospettive diverse, la validità della corrente del ‘naturalismo informale’, caratterizzata da un rinnovato rapporto con la natura a partire da una matrice ‘romantica’ e sentimentale. I loro studi sull’opera di Morlotti e degli «ultimi naturalisti» forniscono un punto di partenza fondamentale per analizzare gli sviluppi dell’estetica informel sia in campo artistico che letterario. Si possono rintracciare notevoli corrispondenze tra le figure ‘informali’ dipinte da Morlotti negli anni ‘50 e i corpi dei personaggi descritti da Testori nel ciclo I segreti di Milano (1954-1962). Tali rapporti sono avvalorati anche dalla triangolazione della corrispondenza tra il critico d’arte bolognese e i due autori lombardi, conservata nell'archivio Arcangeli presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna.

This paper reconstructs the relations of collaboration and intense discussion between Ennio Morlotti, Giovanni Testori and Francesco Arcangeli in the early years after World War II, when the informal art start to be prominently in the cultural dibate in Italy. The analysis of Morlotti’s artistic experience throught the critical interpretation of Arcangeli and Testori is essential  to outline the dialectic between Realism and Abstract art, about the possibility of representation of human figure which leads - passing throught deconstruction of Picasso's works and Cézanneìs firm brush strokes – to the wide range of italian informal art. In particular, both of the art critics have supported, in different perspectives, the validity of the trend named ‘informal naturalism’, characterized by a renewed relationship with Nature, starting from a ‘romantic’ and sentimental origin. Their studies on works of Morlotti and «last naturalists» provide an essential starting point for analyzing the developments of informal aesthetic in arts and literature. It is possible to trace significant corrispondences between the "informal" figures painted by Morlotti in the 50s and the characteristics of the bodies described by Testori in I segreti di Milano (1954-1962). These relations are corroborated by the ‘triangulation’ of the corrispondence between the art critic from Bologna and the two authors from Lombardia, preserved in the Arcangeli archive inside the  Archiginnasio Library in Bologna.

Nelle drammatiche fasi che seguono la fine del secondo conflitto mondiale, entrano in profonda crisi sia la possibilità di narrare quegli eventi sia la possibilità di rappresentare la figura umana in un contesto disintegrato. Da questa evidenza prende avvio il dibattito tra astrattismo e realismo, a partire dalle diverse interpretazioni del capolavoro antimilitarista Guernica (1937), in cui Picasso riuscì ad unire l’elemento astratto della scomposizione cubista dei piani d'osservazione e il crudo realismo della distruzione dei bombardamenti.

Nel 1948, durante la XXIV Biennale di Venezia (la prima del dopoguerra), Francesco Arcangeli, curatore della mostra sui pittori metafisici italiani (Carrà, Morandi, De Chirico), in polemica con le tesi di Mario De Michieli esposte in Realismo e poesia (1946)[1] delinea con precisione il nodo del dibattito artistico:

Picasso si colloca sul crinale tra due diversi modi di rappresentare le macerie di un mondo che non c’è più. Si nota qui una esplicita polemica sia nei confronti del Fronte Nuovo delle Arti, di cui faceva parte Guttuso, sia del Manifesto Realista Oltre Guernica (1946), sottoscritto da Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, le cui linee guida erano:

In base ai principi del manifesto, firmato anche da Morlotti, la pittura realista si propone come atto politico in opposizione all’astrattismo, in quanto assenza di impegno sociale e di presa sulla realtà. In questa prospettiva estetica vengono presi a modello sia Picasso che Cézanne, per la loro capacità di scomposizione e ricomposizione della realtà attraverso la «cosciente emozione del reale», rifiutando nettamente le tradizionali categorie di naturalismo, verismo ed espressionismo.

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The story Lichen by Alice Munro revolves around the description of a photograph. The revelation of the photographed subject is prepared with great suspense: a women’s torso with open legs and genitals in view, which recalls the famous painting, L’origine du Monde, made by Gustave Courbet in 1866 for the Turkish ambassador Khalil Bey and lately owned by Jacques Lacan. The photograph is the fetish object which David, a mature man reluctant to accept ageing, shows to his ex wife Stella, in search for provocation and perhaps a liberation from his obsession with young lovers that he keeps on changing. Stella does not see in the picture the body fragment of a provocative young woman but the fur of a poor animal without its head, or more poignantly a bush of lichen. The photograph left in Stella’s house fades because of the sunlight coming through the window and when she later finds it again a full metamorphosis seems to have occurred: it has become a grey spot, with no recognizable outlines, a bush of lichen. Her words have come true. The photograph works as the trigger of the plot and reflects the desire dynamics between women and men, but it conveys also the faith in writing as a way of seeing through, of seeing more. Perfectly disguised in the plot of the novel, L’origine du Monde is the core of the narrative interplay Munro builds up between desire, words, imagination, reality and the essence of a work of art.

Tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto

Margaret Laurence, I rabdomanti

Nel racconto Lichen, incluso nella raccolta The Progress of Love,[1] Alice Munro mette in scena un repertorio di personaggi e di dinamiche relazionali piuttosto tipico della sua produzione narrativa: una coppia di ex coniugi, Stella e David, lei vitale anche se non più attraente d’aspetto, lui impegnato a ricacciare lo scorrere degli anni con fidanzate effimere e sempre più giovani; un vecchio padre ricoverato in una casa di cura; Catherine, una delle vittime dell’insaziabile quanto disperato istinto predatorio di David; sullo sfondo, chiamata in causa attraverso una fotografia, che ne ritrae solo il pube, e una telefonata alla quale non risponde, Dina, la studentessa con cui David vorrebbe sostituire la non più giovanissima Catherine.[2]

L’ambientazione rurale, lungo le rive di un lago, completa il quadro di questa middle station of life canadese con la quale Alice Munro ci ha da tempo familiarizzato, attraverso una produzione di racconti che costituisce un vasto insieme di variazioni sui temi del rapporto femminile/maschile, dell’autodeterminazione verso l’ethos comunitario, delle apparenze rispetto alle verità individuali, delle mistificazioni-rivelazioni della memoria.[3] I personaggi e le situazioni raccontate da Munro nel loro essere ordinarie, nel loro essere scelte non perché eccezionali ma comuni, in che cosa ripongono la capacità di attrazione e di coinvolgimento per il lettore, al di là di una generica immedesimazione in vite caratterizzate, come quelle di molte donne del ceto medio occidentale da almeno due secoli a questa parte da un matrimonio o da un mancato matrimonio, da una parabola di emancipazione, da un tradimento, da un segreto legato a un’eredità, a un torto fatto o subito? Con quali mezzi, di trama e di stile, la scrittrice riesce a sviluppare empatia e interesse?

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