La prima sequenza di Gomorra di Matteo Garrone si svolge in un centro estetico. Gli spazi angusti delle cabine abbronzanti e di una toilette invadono le inquadrature ravvicinate. Tutta l’immagine è bagnata in una luce blu intensissima [fig. 1]. Per qualche secondo la sensazione è di trovarsi in un altro mondo, uno spazio futuristico e sospeso: poi subentra la tensione, e sarà l’irruzione della lingua napoletana e soprattutto l’esplosione di violenza a precipitare bruscamente lo spettatore nelle precise coordinate spazio-temporali che rispondono al nome di Gomorra.

La prima inquadratura del primo episodio di Gomorra - La serie è una strada notturna, sovrastata da un cavalcavia, su cui incombe a sua volta un cielo nuvoloso blu cupo [fig. 2]. È un esterno gravato da una banda orizzontale scura, che ne abbatte il potenziale spaziale. Nel corso della serie il blu appare come un colore ricorrente, presente in modulazioni diverse nelle scene notturne o nelle location interne: un blu innaturale, come le stranianti prime inquadrature del film del 2008, riaffiora nell’uso di neon, luci pop, fluo, nei locali e nelle stanze che hanno il ruolo di luoghi del potere. L’illuminazione artificiale è uno dei principali strumenti visivi usati dalla serie per controbilanciare la cifra realistica che emerge ad esempio nella rappresentazione cruda della violenza.

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Stagione 1, episodio 1. Entriamo nell’universo di Gomorra - La serie in auto, seguendo Ciro e Attilio percorrere le strade della periferia, procedere lungo tunnel spettralmente deserti per raggiungere uno dei tanti palazzoni tetri e fatiscenti che disegnano il profilo dei rioni napoletani. Il loro spostamento si incrocia con quello dell’inconsapevole Salvatore Conte, boss di un clan rivale, che attraversa quel reticolo di strade protetto da una scorta.

Fin dall’incipit della serie si impone allo sguardo il degradato paesaggio urbano che ne è lo scenario, disgregato in tentacolari brandelli i cui contorni si ridefiniscono costantemente secondo le esigenze dei traffici illegali: si aprono uno nell’altro, si serrano in barricate, si trasformano in rifugi o palesano impietosamente nascondigli in apparenza sicuri. Ben presto tuttavia il procedere della narrazione rivela come questa ambientazione sia solo il polo di una dialettica tra interno ed esterno. Punto di convergenza del movimento dei personaggi è, infatti, la casa della madre di Conte, dove egli si reca in visita: qui la facciata disseminata di graffiti e il livido grigiore dell’androne del palazzo si aprono su uno spazio domestico inaspettatamente barocco, con tappezzerie e tessuti damascati, finti vasi antichi, brocche di cristallo, cornici decorate con motivi vistosi, vetrinette con ceramiche, fiori e fotografie [fig. 1]. Uno stile che accomuna le abitazioni dei protagonisti della serie, in un contesto in cui il loro ruolo nei giochi di potere dei clan camorristici è direttamente proporzionale alla pacchiana sontuosità della casa in cui risiedono.

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Nel bel mezzo dell’inverno

vi era in me un’invincibile estate

Albert Camus

 

 

L’esposizione Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matiz (in mostra alla galleria ONO Arte Contemporanea di Bologna dal 14 gennaio al 28 febbraio 2016) sorprende per intensità ed efficacia comunicativa. Le immagini dicono sempre qualcosa, sono concepite per comunicare, spesso però nella fotografia la forza dell’evidenza satura la percezione generando un surplus nozionale che riempie la vista ma indebolisce la riflessione: quando la foto Ê»parla troppoʼ, secondo Barthes, non è pensosa, non suggerisce un senso, non induce a meditare. Qui, invece, gli scatti quasi solo in bianco e nero del fotoreporter colombiano Matiz, amico di Frida e del marito Diego Rivera, prendono la via di una comunicazione intima, evocativa, che non rivela, e tuttavia illumina la complessa interiorità della grande artista messicana.

Il percorso espositivo della mostra, articolato in 27 fotografie di diversi formati, alcune ai sali d’argento e altre al platino, non è quindi un vortice di suggestioni visive, ma piuttosto un intenso, quanto riflessivo, itinerario estetico, che consegna allo sguardo dello spectator l’immagine di una Frida inedita, ritratta dal fotoreporter dal punto di vista privilegiato dell’amicizia e della lunga frequentazione, all’interno dell’amata Casa Azul (casa azzurra) nel quartiere natale di Coyoacán a Città del Messico.

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Prima di essere incluso nel cartellone di quest’anno dello Stabile torinese, L’Arialda di Malosti è stato visto, nel maggio 2015, come saggio finale di diploma della scuola del TST. Il titolo era I segreti di Milano e anche la struttura era un po’ diversa, trattandosi di un montaggio di L’Arialda e di alcuni duetti di La Maria Brasca (1960), la commedia scritta per Franca Valeri. Entrambe le opere appartengono al grande ciclo dei Segreti di Milano (1958-1961), composto anche da romanzi e da racconti, ciclo molto ampio che ha avuto, fra i suoi estimatori, Pier Paolo Pasolini (che voleva fare un film dal racconto Il dio di Roserio) e Visconti che vi attinge a piene mani per il film Rocco e i suoi fratelli (1960).

I saggi finali, si sa, passano spesso inosservati, forse ritenuti spettacoli fatti un po’ con la mano sinistra, tra un impegno e l’altro. Invece, questo progetto è stato diverso già dalle sue premesse. La compagnia ha dedicato molti mesi tanto allo studio delle opere, quanto ad approfondire il contesto storico, culturale ed espressivo in cui si è mosso Testori, anche coinvolgendo, secondo una consolidata metodologia di Malosti, studiosi di varie discipline (fra i quali Giovanni Agosti, curatore della nuova edizione di quello che è, forse, il più bel libro del Testori storico dell’arte, cioè Il gran teatro montano sul Sacro Monte di Varallo, che molto ha influenzato la scrittura di L’Arialda e di tutti i Segreti; Mauro Giori, che si è occupato dei rapporti tra Testori e Visconti dal punto di vista del cinema con le sue ricerche su Rocco e i suoi fratelli; io stessa, che proprio in quei mesi lavoravo alle bozze del mio libro sull’Arialda viscontiana).

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Catania/Napoli, luglio 2015

Mario Spada, nato a Napoli, classe 1971, entra nel mondo della fotografia nel 1986. È un reporter che ama la sua terra e la sa raccontare. Nel 2007 lavora come fotografo di scena al film Gomorra di Matteo Garrone e nel 2009 pubblica il suo primo libro personale Gomorra on set. Mario Martone lo chiama quando decide di far rivivere sul grande schermo, con Il giovane favoloso, l’immensa anima del poeta di Recanati, Giacomo Leopardi. Il 3 luglio di quest’anno, in occasione del compleanno di Giacomo Leopardi, gli scatti inediti del set del film sono stati esposti a Recanati in occasione della mostra Il giovane favoloso outdoor. Ecco cosa ci ha raccontato Mario Spada di entrambe le esperienze.

 

D: In che modo la fotografia è intervenuta nella ri-costruzione degli ambienti de Il giovane favoloso?

R: La ricostruzione degli ambienti del film è dovuta allo studio dello scenografo e di Mario Martone. Quello che deve fare il fotografo di scena, cioè io, è scattare delle fotografie che possano servire all’ufficio stampa che però, il più delle volte, ha un’idea della fotografia molto ‘classica’ (per esempio i posati fuori dalla scena), e quindi spesso le foto pubblicate o quelle scelte dall’ufficio stampa non corrispondono sempre a quello che avrei scelto io. Il fotografo di scena, nel mondo del cinema, è considerato ‘superato’, inutile alla produzione del film, perché non fa di certo IL FILM. Quando però il fotografo di scena ha un occhio particolare, tutto suo, può creare una storia all’interno del film che può essere d’aiuto per la distribuzione dell’opera, per la sua pubblicità. La cosa buona che qui è successa è che le foto de Il giovane favoloso le ho scelte insieme a Martone. Mario ha voluto che partecipassi a questo film dopo una prima collaborazione per lo spettacolo teatrale La serata a Colono tratto da Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, con Carlo Cecchi e le musiche di Nicola Piovani. Non voleva il classico fotografo di scena e con lui abbiamo fatto una selezione di foto interessanti che poi ha anche utilizzato nel libro sulla sceneggiatura pubblicato per Mondadori. In più il manifesto del film, realizzato da Patrizio Esposito, è costruito a partire da una mia foto: rovesciando l’immagine Esposito rafforza l’idea di un Leopardi ribelle, non più triste e pessimista. In questo caso l’idea-guida del film nasce da un corto circuito di sguardi.

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