Stagione 1, episodio 1. Entriamo nell’universo di Gomorra - La serie in auto, seguendo Ciro e Attilio percorrere le strade della periferia, procedere lungo tunnel spettralmente deserti per raggiungere uno dei tanti palazzoni tetri e fatiscenti che disegnano il profilo dei rioni napoletani. Il loro spostamento si incrocia con quello dell’inconsapevole Salvatore Conte, boss di un clan rivale, che attraversa quel reticolo di strade protetto da una scorta.

Fin dall’incipit della serie si impone allo sguardo il degradato paesaggio urbano che ne è lo scenario, disgregato in tentacolari brandelli i cui contorni si ridefiniscono costantemente secondo le esigenze dei traffici illegali: si aprono uno nell’altro, si serrano in barricate, si trasformano in rifugi o palesano impietosamente nascondigli in apparenza sicuri. Ben presto tuttavia il procedere della narrazione rivela come questa ambientazione sia solo il polo di una dialettica tra interno ed esterno. Punto di convergenza del movimento dei personaggi è, infatti, la casa della madre di Conte, dove egli si reca in visita: qui la facciata disseminata di graffiti e il livido grigiore dell’androne del palazzo si aprono su uno spazio domestico inaspettatamente barocco, con tappezzerie e tessuti damascati, finti vasi antichi, brocche di cristallo, cornici decorate con motivi vistosi, vetrinette con ceramiche, fiori e fotografie [fig. 1]. Uno stile che accomuna le abitazioni dei protagonisti della serie, in un contesto in cui il loro ruolo nei giochi di potere dei clan camorristici è direttamente proporzionale alla pacchiana sontuosità della casa in cui risiedono.

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La solitudine e l’inquietudine sono tratti peculiari delle figure femminili nel cinema di Silvio Soldini. Le acrobate (1997) è l’opera in cui è manifestamente mostrato come l’inatteso incrocio tra singole vite attivi uno stretto rapporto tra personaggi femminili e in qual modo l’intima corrispondenza venutasi a creare sia anche generata, in una sorta di prolungamento metaforico, da spazi, paesaggi e cose.

Il film narra l’incontro e l’intenso legame che, in maniera repentina e inattesa, si instaura tra donne di età diverse, accomunate da un senso di solitudine, inaspettatamente interrotto dall’incrocio casuale delle loro vite. Elena, elegante quarantenne, chimica con funzioni di dirigenza in un'industria di Treviso, trascorre le proprie giornate immersa nel lavoro. Una transitoria relazione con un uomo sposato è l’unica traccia di affettività che alimenta una dimensione esistenziale insoddisfacente. Anita, anziana donna di origine bulgara, che vive totalmente isolata nel proprio appartamento, viene incidentalmente investita da Elena nell’oscurità di una sera piovosa. La sua figura, dopo la morte, fungerà da vettore narrativo, affinché la donna conosca l’altra protagonista: Maria, che trascorre a Taranto la propria esistenza in una precaria situazione economica. Imprigionata in una condizione familiare che l’ha costretta a rinunciare a progetti e aspirazioni, Maria, in una improvvisa fuga, raggiunge Elena a Treviso insieme alla propria figlia, Teresa, ragazzina attratta da esperimenti chimici. Le tre figure femminili, una volta riunite, si recano sul Monte Bianco in un viaggio che, oltre a rappresentare una temporanea apertura, rafforza un'amicizia costruita su un sentire alimentato dalla possibilità di provare una sensazione di appagante e gioiosa leggerezza, anche se circoscritta al tempo limitato del loro incontro. Il passaggio dalle due pianure, quella veneta e quella pugliese, alla bellezza ascetica della montagna, diviene traiettoria allusiva di un movimento interiore delle protagoniste. «La neve sulla montagna», afferma Soldini, «significa […] alzarsi sopra il mondo, guardare tutto dall’alto e arrivare a un silenzio che sia davvero silenzio» (riportato in De Vincenti 1997).

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Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione

fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un’anima

sensibile e mutabile come l’anima umana.

Gabriele D’Annunzio, Il piacere

Poetiche o artistiche, consolidate dalla tradizione o sperimentali, sono molteplici le espressioni che possono dare forma a una storia d’amore. Modulando un incontro tra parola e immagine che contempla, in un continuum tematico, la stesura di un romanzo, l’allestimento di un museo e la pubblicazione del catalogo, Orhan Pamuk ci offre delle prove invitanti.

Nel 2008, due anni dopo il conseguimento del Premio Nobel, lo scrittore aveva richiesto al fruitore de Il museo dell’innocenza, romanzo caratterizzato da una tensione metanarrativa non troppo celata, una duplice condizione. All’interno di un testo non illustrato, tra le pieghe rassicuranti di un flusso narrativo tradizionale, il narratore si era rivolto tanto al lettore di un museo in fieri e ‘visibile’ solo verbalmente, quanto al visitatore di un romanzo che finiva per coincidere con il racconto legato al criterio di esposizione degli oggetti. È stata questa la prima forma della sofferta relazione tra Kemal, imprenditore dell’alta borghesia, e Füsun, avvenente commessa. Ambientata negli anni Settanta, l’opera si concludeva con un abile cedimento alla tentazione dell’autoreferenzialità, giacché il protagonista decideva di dare ordine e sistematizzare, attraverso la creazione di un museo, la collezione di oggetti (dalle sigarette alla grattugia per mele cotogne, dai fermagli per capelli ai cucchiaini) ossessivamente raccolti per alleviare il tormento provocato dalla lontananza e, infine, dalla morte dell’amata.

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[E]verything is illuminated in the light of the past. It is always along the side of us, on the inside, looking out. Like you say, inside out.

Liev Schreiber, Everything is Illuminated (Screenplay)

«“Compagno, chi è l’ultimo?” “Forse io, ma dietro di me c’è anche una signora con un cappotto blu”». Con questo scambio di battute, che apre il primo romanzo di Vladimir Georgievič Sorokin Očered’ (La coda, 1983), il lettore si trova subito catapultato in una delle più tipiche situazioni della quotidianità sovietica: fare la fila. Per cosa? Alle volte, nemmeno i personaggi, così come le persone nella vita reale, lo sapevano. Ma si stava in coda comunque, perché se questa si era formata c’era un valido motivo, e dunque esisteva una ragione per attendere. Con l’immancabile ‘avos’ka’ (‘borsa a rete’) in mano, si aspettava il proprio turno per comprare il latte, il pane, la ‘vobla’ (‘pesce essiccato’), il ‘farš’ (macinato utilizzato per polpette o per altre ricette). Accanto a inossidabili vecchietti le cui giacche erano (e sono, in rarissimi casi, ancora oggi) letteralmente invase da distintivi di ogni genere, si stava in piedi per ore per acquistare anche altre cose, come le ‘papirosy’ (‘sigarette’), la vodka (o, in assenza di questa, anche i profumi Krasnaja Moskva, Šipr o Trojnoj odekolon potevano andar bene), la ‘tualetnaja bumaga’ (‘carta igienica’), o i quasi indistruttibili ‘granenye stakany’ (‘bicchieri a faccette’). Un dato certo relativo al periodo sovietico prima, e alla perestrojka poi, è che in Urss vi era una penuria cronica di articoli di prima necessità. Il cibo e gli oggetti necessari nella vita quotidiana erano spesso assenti, e proprio per questo, quando invece c’era disponibilità, si creavano code infinite.

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