Negli ultimi decenni le nuove tecnologie hanno lasciato scorgere la possibilità di suscitare emozioni superando la dimensione algida che ha spesso caratterizzato le creazioni dall’alto livello tecnologico; oggi, nei migliori esempi della scena contemporanea che se ne avvalgono, la purezza dell’immagine e del suono supera la soglia della contemplazione immobile facendosi capace di ‘muovere’ (e di com-muovere). Non si tratta di una reazione che passa attraverso il sentimento, bensì di un movimento emotivo innescato dall’appello alla sfera percettiva. Qualcosa di simile a quanto intuiva Kandinskij nello Spirituale nell’arte nel distinguere, nell’esperienza del colore, la semplice associazione visiva mnemonica dall’effetto ‘spirituale’, dove la percezione cromatica avrebbe ‘toccato’ (fatto risuonare) direttamente l’anima. Le categorie alle quali fa ricorso Kandinskij, ‘risonanza’ o vibrazione, sembrano essere rivisitate in chiave contemporanea nella creazione di Takatani.

In ST/LL l’implicazione di tecnologie avanzate non riguarda solo l’elemento più vistoso, cioè l’utilizzo di una spidercam (una camera senza limiti di direzioni nell’esplorazione dello spazio), strumento e perno della concezione drammaturgica, ma anche un complesso sistema di spazializzazione del suono e un raffinatissimo impiego della luce, capaci appunto di ‘risuonare’ nell’esperienza visiva e auditiva dello spettatore.

Takatani, fondatore a Kyoto del collettivo Dumb Type nel 1984, concepisce una scena fortemente segnata da linee orizzontali e verticali. Nell’ampio spazio del palcoscenico, la zona centrale è occupata da un importante impianto verticale: perpendicolare alla ribalta, si allunga una tavola apparecchiata; la lunga linea del tavolo prosegue idealmente nell’alto schermo verticale, bianco di luce. Colpisce lo scarto proporzionale tra gli oggetti (minuscoli, ma sin dall’inizio protagonisti nella composizione visiva) e il respiro dello spazio. Accenti cromatici completano il quadro (la trasparenza di calici e sedie, il metallo delle stoviglie, una mela rossa – unico accento di colore e solo elemento organico di questa tavola “imbandita” di assenza).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

L’importanza del ragionamento critico di Costa risiede nell’adozione di un principio di convergenza tra cinema e visual culture, con mirate incursioni in ambito semiologico, che culminano nell’analisi dei dispositivi ottici (finestre, quadri, obiettivi) e nell’esplorazione delle dinamiche di museificazione dell’oggetto-film e dello spazio cinematografico.

La mappatura delle cose e dei dispositivi procede secondo un disegno puntuale ma mai rigido, capace di alternare questioni teoriche e slanci narrativi al punto che l’intero discorso può leggersi «come un romanzo» (questo per Costa è il complimento più importante).

Catania, 5 maggio 2015

Riprese audio-video e montaggio: Simona Sortino

 

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Il saggio prende in esame Mia sorella Antigone di Grete Weil per illustrare le modalità messe in atto dall’autrice per rappresentare il tema della ferita esistenziale legata alla sopravvivenza allo Shoah. In particolar modo, si analizza l’incastro dei vari livelli temporali in cui si sviluppa la narrazione attraverso il riferimento a dispositivi di impianto cinematografico come la funzione diegetica degli oggetti e il montaggio delle sequenze.

The essay examines Meine Schwester Antigone by Grete Weil in order to demonstrate how the writer represents the theme of her existential wound after surviving the Shoah. The paper analyses the interweaving of the different narrative levels using the analogy with cinematographic procedures such as the diegetic function of the objects and the cutting of the sequences.

 

È questo il passo di Mia sorella Antigone (Meine Schwester Antigone) in cui per la prima volta compare die Wunde, “la ferita”, parola chiave di questo testo del 1980 che costituisce il punto di arrivo dell’esperienza umana e letteraria della tedesca di origine ebraica Grete Weil. Si tratta di un’opera che nell’immediato dette alla settantaquattrenne autrice successo di pubblico e riconoscimento critico e che oggi, a più di tre decenni dalla sua pubblicazione, mantiene intatto il fascino di una scrittura scarna e prevalentemente paratattica, dettata da una evidente volontà di rendere omologhi discorso e storia raccontata. Una delle caratteristiche della narrazione, infatti, è il procedere per giustapposizioni di episodi provenienti da livelli temporali diversi: capitoli che alternano la memoria di eventi remoti agli episodi della lunga giornata nella quale si distribuisce il piano quasi diaristico del presente, ma anche brevi sequenze che accostano, in un batter d’occhio, la tranquilla esistenza dell’alte Frau narrante a un doloroso passato giovanile mai rimarginato, segnato indelebilmente dalla tragedia della Shoah. Un esempio lo fornisce proprio la citazione, tratta dalle pagine iniziali, che mostra come la recente scomparsa del proprio cane – è lui der Letze, l’ultimo – abbia riattualizzato la morte a Mauthausen nel 1941 del primo marito Waiki, le cui spoglie sono rimaste insepolte al pari del corpo dell’animale:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

[E]verything is illuminated in the light of the past. It is always along the side of us, on the inside, looking out. Like you say, inside out.

Liev Schreiber, Everything is Illuminated (Screenplay)

«“Compagno, chi è l’ultimo?” “Forse io, ma dietro di me c’è anche una signora con un cappotto blu”». Con questo scambio di battute, che apre il primo romanzo di Vladimir Georgievič Sorokin Očered’ (La coda, 1983), il lettore si trova subito catapultato in una delle più tipiche situazioni della quotidianità sovietica: fare la fila. Per cosa? Alle volte, nemmeno i personaggi, così come le persone nella vita reale, lo sapevano. Ma si stava in coda comunque, perché se questa si era formata c’era un valido motivo, e dunque esisteva una ragione per attendere. Con l’immancabile ‘avos’ka’ (‘borsa a rete’) in mano, si aspettava il proprio turno per comprare il latte, il pane, la ‘vobla’ (‘pesce essiccato’), il ‘farš’ (macinato utilizzato per polpette o per altre ricette). Accanto a inossidabili vecchietti le cui giacche erano (e sono, in rarissimi casi, ancora oggi) letteralmente invase da distintivi di ogni genere, si stava in piedi per ore per acquistare anche altre cose, come le ‘papirosy’ (‘sigarette’), la vodka (o, in assenza di questa, anche i profumi Krasnaja Moskva, Šipr o Trojnoj odekolon potevano andar bene), la ‘tualetnaja bumaga’ (‘carta igienica’), o i quasi indistruttibili ‘granenye stakany’ (‘bicchieri a faccette’). Un dato certo relativo al periodo sovietico prima, e alla perestrojka poi, è che in Urss vi era una penuria cronica di articoli di prima necessità. Il cibo e gli oggetti necessari nella vita quotidiana erano spesso assenti, e proprio per questo, quando invece c’era disponibilità, si creavano code infinite.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →