Rappresentare la ferita della sopravvissuta. Dispositivi della visione in Mia sorella Antigone di Grete Weil

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Il saggio prende in esame Mia sorella Antigone di Grete Weil per illustrare le modalità messe in atto dall’autrice per rappresentare il tema della ferita esistenziale legata alla sopravvivenza allo Shoah. In particolar modo, si analizza l’incastro dei vari livelli temporali in cui si sviluppa la narrazione attraverso il riferimento a dispositivi di impianto cinematografico come la funzione diegetica degli oggetti e il montaggio delle sequenze.

The essay examines Meine Schwester Antigone by Grete Weil in order to demonstrate how the writer represents the theme of her existential wound after surviving the Shoah. The paper analyses the interweaving of the different narrative levels using the analogy with cinematographic procedures such as the diegetic function of the objects and the cutting of the sequences.

 

L'ultimo che apparteneva tutto a me, per il quale io c’ero, al quale davo da mangiare, di cui avevo cura, che mi teneva qui, che ho piantato in asso perché non ho saputo dire no, per un’indolenza che chiamavo amore. Non lo lega mai alla catena? – chiedeva l’oste grasso – Sta sempre intorno alla mia Bella. […] No, non si è lasciato rapire. Non è scappato volontariamente, quanto meno non è certo andato più in là di dove era Bella, che abita a meno di cinque minuti da me. Se solo avessi trovato il suo cadavere. Se solo sapessi che è stato investito. Insopportabile il pensiero che qualcuno gli abbia sparato. O lo abbia ucciso a bastonate. O gli abbia gettato un pezzo di carne avvelenata. Il mio complesso che c’entri un assassinio. La ferita [Die Wunde].
Nervosamente prendo il quaderno rilegato in nero con il titolo provvisorio Antigone, lo apro e leggo le ultime pagine che ho scritto.[1]

È questo il passo di Mia sorella Antigone (Meine Schwester Antigone) in cui per la prima volta compare die Wunde, “la ferita”, parola chiave di questo testo del 1980 che costituisce il punto di arrivo dell’esperienza umana e letteraria della tedesca di origine ebraica Grete Weil. Si tratta di un’opera che nell’immediato dette alla settantaquattrenne autrice successo di pubblico e riconoscimento critico e che oggi, a più di tre decenni dalla sua pubblicazione, mantiene intatto il fascino di una scrittura scarna e prevalentemente paratattica, dettata da una evidente volontà di rendere omologhi discorso e storia raccontata. Una delle caratteristiche della narrazione, infatti, è il procedere per giustapposizioni di episodi provenienti da livelli temporali diversi: capitoli che alternano la memoria di eventi remoti agli episodi della lunga giornata nella quale si distribuisce il piano quasi diaristico del presente, ma anche brevi sequenze che accostano, in un batter d’occhio, la tranquilla esistenza dell’alte Frau narrante a un doloroso passato giovanile mai rimarginato, segnato indelebilmente dalla tragedia della Shoah. Un esempio lo fornisce proprio la citazione, tratta dalle pagine iniziali, che mostra come la recente scomparsa del proprio cane – è lui der Letze, l’ultimo – abbia riattualizzato la morte a Mauthausen nel 1941 del primo marito Waiki, le cui spoglie sono rimaste insepolte al pari del corpo dell’animale:

Ma da quando, dopo la scomparsa del cane, ho cominciato a immaginarmi tutti i modi che si possono escogitare per scannare qualcuno, mi chiedo continuamente chi sono, se riesco a sopportare l’assassinio di Waiki. (p. 47)

Di qui il bisogno di scrivere di Antigone, la principessa che contro il volere del tiranno dà sepoltura al fratello: di indagare, con «un libro su una fanciulla che si è opposta» (p. 49), come le dice la figlioccia Christine, le ragioni dell’incapacità, non solo propria ma di un’intera generazione di vittime, di ribellarsi al nazismo. Dall’evocazione della Wunde si intuisce inoltre che la vita di Grete si è svolta nell’orizzonte di una doppia temporalità: una esteriore, composta dalla lineare successione degli avvenimenti dei quasi trentacinque anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, tra i quali l’unione con il secondo marito Urs; e una interiore, cristallizzata in un’inevasa circolarità che spinge il passato traumatico negli interstizi del presente, accompagnandosi a immagini di morte violenta:

La mia ferita, che sanguina se la si tocca, e talvolta anche se non la si tocca, inaspettatamente, inavvertitamente, facendo il bagno nel Mar Mediterraneo, parlando di tutt’altro, camminando per una città, in un abbraccio. (p. 63)

Per questo non si dà la possibilità di una coincidenza fra intreccio e trama: il racconto procede per associazioni mentali e salti temporali che rendono conto della disarticolazione esistenziale causata dalla ferita. Li organizza una sapiente regia autoriale che si impernia, come cercherò di mostrare, sullo sguardo ravvicinato dell’io narrante su alcuni oggetti mediatori tra passato e presente, cosa in cui si può anche riconoscere un tributo alle competenze visuali maturate dalla scrittrice negli anni dell’esilio nei Paesi Bassi, quando Weil si guadagnò da vivere come fotografa: «Fotografare, un’attività piacevole, dopo poco tempo nella camera oscura si può già vedere cosa verrà fuori» (p. 101), anche se si tratta di soggetti che non le suscitano particolari emozioni: una quantità di bambini obbligati a essere lieti e sorridenti nelle foto, sposi piccolo-borghesi o proletari, socialmente distanti dalla sua classe di provenienza. Si noti però la costruzione delle fotografie attraverso il ricorso agli oggetti, che sembra già preludere alla struttura narrativa di Mia sorella Antigone: «Ai bambini do in mano un giocattolo e cerco di catturare un sorriso», «la sposa stringe a sé i fiori sul petto di seta bianca…» (ibidem).

In particolar modo, vorrei appurare come il ritmo associativo del testo non si sviluppi esclusivamente sulla flessibilità argomentativa del monologo interiore o sulla simulazione di epifanie involontarie, bensì spesso si affidi a un effetto di zoom che trasforma le cose inanimate da accessori dello sfondo in segnalibri della memoria. Siamo di fronte, cioè, a una diegesi associativo-visiva che offre un peculiare approccio al rapporto tra parola e immagine nel testo letterario: in Mia sorella Antigone non si danno ekphrasis o citazioni di quadri e film,[2] così come non vi sono inserzioni di fotografie a comporre un foto-testo; piuttosto, il racconto si sviluppa in virtù della capacità di creare narrazione da parte di oggetti fissati dallo sguardo dell’io narrante.

Sono in gioco, detto altrimenti, dispositivi della visione[3] che richiamano quello che Antonio Costa definisce l’uso attanziale delle cose inanimate nel cinema: «cose con le quali i personaggi entrano in contatto e cose che in vario modo entrano nelle storie»,[4] come accade al massimo grado in Hitchcock, ad esempio nella celebre scena del Sospetto (Suspicion, 1941) in cui il personaggio di Cary Grant sale le scale col bicchiere di latte, non si sa se avvelenato o meno, da portare in camera alla moglie interpretata da Joan Fontaine [fig. 1]. Per quanto, come vedremo, in Weil l’oggetto funzioni diversamente, come soglia tra narrazioni che si collocano in piani temporali diversi, è rilevante ai fini del mio discorso il particolare lucore del latte, dovuto «all’artificio di collocare una fonte luminosa in maniera che il liquido acquisti un aspetto fosforescente».[5] Il trucco del regista mette in evidenza, infatti, l’oggetto rispetto allo sfondo, sottraendolo alla sinistra scenografia e trasformandolo in un attante inanimato, provvisto di quella funzione di cosa attiva che si indagherà in Mia sorella Antigone: di oggetto investito «di affetti, concetti e simboli»[6] che si sottrae alla mera funzione strumentale-utilitaristica per esercitare una funzione diegetica all’interno della storia.

Alfred Hitchcock, Il sospetto

Si potrebbe obiettare che un oggetto così concepito sia stato in realtà patrimonio della narrativa sino dalle sue origini più remote, sino, per intendersi, dai tempi della mela di Adamo ed Eva. È indubbio, però, che con il cinema si compia un passo avanti, con il quale si misura il valore della nascita della settima arte come spartiacque cognitivo: l’oggetto si staglia con assoluta forza iconografica nella memoria dello spettatore, per cui ha ragione Godard ad affermare che magari non ci ricordiamo i passaggi della trama, «ma / ci ricordiamo di una borsetta / ci ricordiamo di un camion / nel deserto / ma ci ricordiamo / di un bicchiere di latte» e di altri oggetti della galassia hitchcockiana.[7] Questo dipende da quello che Costa definisce la funzione plastica (o estetica) degli oggetti nei film: oltre a possedere le funzioni strumentale, narrativa e simbolica, rispettivamente legate al suo uso, alla sua posizione nel racconto e ai significati ad esso associati, l’oggetto ci colpisce esteticamente sollecitando una risposta sensoriale ed emotiva. È quanto Barthes nel Terzo senso definisce ‘significanza’: «ciò che nell’immagine è puramente immagine»[8] e lascia da parte la parola.

Ecco allora che acquista senso parlare di dispositivi della visione a proposito di Mia sorella Antigone con riferimento al cinema. Non si tratta di ricercare filologicamente le possibili fonti cinematografiche della scrittrice, bensì di ipotizzare che un’apertura del letterario al ragionare per immagini sia possibile anche nei termini di un’introiezione diegetica del modello cinematografico: gli oggetti che assolvono una funzione narrativa nel libro di Grete Weil assomigliano agli oggetti filmici che filtrano attraverso la loro potenza estetica la funzione attanziale che sono chiamati a svolgere. Tuttavia, per prendere in esame i dispositivi messi in atto dall’autrice per rappresentare la propria Wunde di sopravvissuta, la prima operazione da compiere consiste nel distinguere i piani temporali che si alternano nel racconto cercando di raccordarli al ruolo della ‘sorella Antigone’ richiamata dal titolo. Solo così si potrà iniziare a comprendere la complessità, non solo tematica ma proprio di genere, di un libro la cui materia è autobiografica, ma la cui struttura è ispirata a modelli narrativi non riconducibili alla linearità del patto autobiografico classico. Siamo in presenza, piuttosto, di un più flessibile spazio autobiografico, che mette in dialogo il racconto del sé con istanze finzionali non solo letterarie, ma anche legate al linguaggio cinematografico.[9]

 

1. La sorella Antigone

Il libro si compone di diciassette capitoli senza titolo in cui si alternano quattro livelli temporali. Il livello base, che compone la cornice narrativa, si snoda in un giorno d’autunno a Francoforte sul Meno sul finire degli anni Settanta, durante il quale, con una scrittura autodiegetica in presa diretta, il piano della narrazione corrisponde al piano del narrato; i principali eventi sono la visita della figlioccia Christine, il giro in centro per negozi, il rifugio offerto a Marlene, la giovane compagna di un terrorista amica di Christine, la visita del commercialista e il ricorrente proposito di lavorare a una riscrittura del mito di Antigone, che va in realtà avanti da molto tempo. Gli altri tre livelli, che si inseriscono nella cornice del presente, sono variamente disposti nel passato: gli anni dalla fine della guerra sino al presente, segnati dai lutti della perdita del secondo marito, a causa della leucemia, e, due mesi prima, dell’ultimo cane; gli anni della Shoah: in Germania e poi nei Paesi Bassi, dove Grete e Waiki si erano trasferiti per sfuggire alla persecuzione hitleriana, ma dove nel 1940, all’indomani dell’invasione tedesca, erano stati di nuovo raggiunti dalla furia nazista; gli anni della giovinezza altoborghese a Monaco e a Berlino, prima dell’avvento al potere di Hitler. A questa stratificata materia autobiografica, appena velata nei nomi, non solo si intreccia il ripetuto riferimento ad Antigone, ma anche si affianca, nella parte finale, l’inserzione di un memoriale redatto dal soldato Friedrich Hellmund, qui Friedel, durante l’eccidio degli Ebrei del ghetto di Petrikau / Piotrków Trybunalski in Polonia.

Nonostante la fluidità spaziotemporale, la narrazione non assume mai le sembianze di un discorso disordinato, volutamente disorganizzato; lo regge una ferrea logica diegetica, gestita da un io narrante che, per semplicità, chiameremo Grete e che, di fronte al riacutizzarsi del dolore della ferita, mantiene comunque un lucido controllo introspettivo. Già lo suggerisce la circolarità di incipit e excipit: all’iniziale Ich wache auf – «Mi sveglio» (p. 15) – con cui Grete fa il suo ingresso nel nuovo giorno corrisponde nell’ultima pagina il risveglio da un assopimento serale: «Mi alzo, in bagno mi lavo il viso con l’acqua fredda, mi infilo la vestaglia e vado in salotto» (p. 263). Dopodiché, Grete – con una postura di per sé cinematografica, nel passaggio dal campo medio interno a un campo lunghissimo esterno –[10] guarda fuori dalla finestra lo squallido panorama di una città, Francoforte sul Meno, che già in precedenza ha definito brutta [fig. 2]:

Avverto la bruttezza, sono la bruttezza, mi scorre attorno, lascio che mi avvolga, la accetto, mi accetto, sono felice.
E domani? (ibidem)

Può apparire enigmatico questo crescendo paratattico culminante nell’accettazione della felicità nella bruttezza, ma un simile finale non è che il punto di arrivo di una narrazione che rimbalza tra i vari piani temporali per mostrare come la Wunde abbia trasformato chi racconta in una straniera a se stessa: in una persona che sconta nell’incapacità di trovare un punto fermo nella propria esistenza la consapevolezza di non aver posseduto, nei momenti decisivi, lo spessore etico per quella bella morte – kalòs thaneìn – di cui Antigone offre uno dei modelli classici più celebri.

Francoforte sul Meno

A questo anche allude la desolata interrogazione che, lasciando sospesa la conclusione, si riconnette all’incipit: possiamo immaginarci che domani la giornata si avvierà con le medesime azioni dell’oggi – svegliarsi disorientata, ritrovare la propria identità ed età, mettersi gli apparecchi acustici che la riavvicinano al mondo reale, fare il bagno… – e fornirà nuova occasione per intrecciare alle memorie del passato l’amara riflessione sulla vecchiaia.[11]

Non stupisca del resto l’accostamento tra il ricordo del passato tragico e la sensazione dell’estenuante sgocciolare del tempo, perché proprio sulla giustapposizione tra l’eccezionalità degli eventi degli anni Trenta e Quaranta e la normalità dei tempi di pace si fonda il contributo testimoniale di Weil. Il libro non racconta di atti di eroismo né si affida a un’alta coscienza morale, ma eleva a suo tema principale quella che, parafrasando il celebre titolo di Hanna Arendt, si potrebbe definire la ‘banalità della sopravvivenza’ – ed è questa un’ulteriore sfaccettatura della sorellanza con Antigone: nel collocarsi dalla parte di Ismene, dalla parte di chi sopravvive sia alle vittime che agli eroi, nonché, a volte, persino agli aguzzini: «Scaduta nel tran tran dell’indifferenza, mi unisco alla maggioranza silenziosa e rimuovo il mio sapere» (p. 97).

Da questo punto di vista è particolarmente significativo il secondo livello temporale del libro, in cui, per brevi cenni, Grete racconta il suo modo di vivere dal dopoguerra in poi. Salvatasi dallo sterminio, si è «barcamenata in una doppia vita, un po’ borghese perbene e un po’ antiborghese niente affatto perbene, tenendo il più possibile distanti i due mondi» (p. 73): non ha più svolto un lavoro regolare per guadagnarsi il pane, si è lasciata sedurre da ciò che sul momento la divertiva, le sono piaciuti le cose belle e i cibi prelibati… Tanto più, quindi, si capisce il valore di Lebenswerk del testo: con Mia sorella Antigone Weil fa finalmente i conti con il proprio vissuto, dopo avere a lungo cercato di confinare il senso di colpa e i traumi mai rimarginati in un anfratto della coscienza volutamente lasciato a tacere. Finché, come spesso avviene con episodi apparentemente marginali, ma capaci di riportare bruscamente alla luce dolori e lutti più profondi, la perdita del cane riapre la ferita e Grete si ritrova a voler rispondere alla domanda che Christine le ha formulato: «“Perché non vi siete opposti?”» (p. 47).

Più volte nel provare a spiegare la passività con cui le vittime del nazismo – ma anche i carnefici, come mostra il memoriale trascritto nel testo – si sono lasciate annichilire, Weil ricerca una spiegazione nella Erziehung ricevuta: «una cosiddetta buona educazione, intrisa di cliché, basata su categorie di pensiero ottocentesche» (p. 17), che non aveva predisposto al Widerstand, all’opposizione e alla resistenza, la generazione dei giovani al tempo del nazismo. Si respira un’aria quasi alla Thomas Mann nell’evocazione di un’infanzia e di un’adolescenza da principessa primo novecentesca, figlia di un consigliere di giustizia, che, accudita dalla servitù, non muove un dito; al contempo, si avverte l’incapacità di un certo umanesimo borghese di sapersi contrapporre al fatto che «Hitler ha abolito gli esseri umani» (p. 157), come ha scritto in un’inchiesta giornalistica una ragazzina cui Grete vorrebbe rispondere. In un’altra pagina ancora la narratrice rievoca la Sprache der kultivierten Bourgeoisie in der Vorhitlerzeit, la «lingua della borghesia colta prima di Hitler» (p. 41), così forbita e civile da non poter esserle utile in quella che definisce la conversazione della sua vita – das Gespräch meines Lebens ­–, quando avrebbe dovuto persuadere ad agire l’unica persona in grado di fare qualcosa per Waiki e invece non ci è riuscita.

Si giunge così allo Angelpunkt, al «cardine della [sua] vita» (p. 103), che ancora sanguina: gli anni del nazismo. Tormenta in primo luogo Grete, infatti, come un episodio che ha tagliato in due la sua esistenza, il colloquio con Ludwig Haverkamp, il funzionario tedesco che, su mandato dei nazisti, aveva rilevato la ditta farmaceutica avviata dal marito in Olanda e che proprio da quest’ultimo era stato amaramente definito, al momento dell’esproprio, «una carissima persona – in una situazione diversa» (p. 63). Per due ore, con un’educazione di cui non si è poi mai abbastanza pentita – «Forse avrei fatto meglio a fare l’isterica» (p. 69) –, Grete ha cercato di convincere il ‘buon’ Haverkamp a intercedere presso la Gestapo durante i dieci giorni in cui Waiki è stato rinchiuso in un lager olandese prima di essere definitivamente deportato, ma senza esito: «L’assenza di questo briciolo di coraggio impedì a Waiki di salvarsi da una morte orribile, a me di salvarmi da una ferita che non guarisce più» (ibidem).

Se questo è un episodio che già sembra indirettamente rispondere all’analisi di Arendt nella Banalità del male sopra menzionata, ancora di più lo fa la vicenda della collaborazione con il Consiglio ebraico. La giustificazione che Grete adduce è la necessità di sopravvivere per salvare sua madre, ma dietro si affaccia una più profonda e scomoda motivazione: la vittoria del desiderio della vita sul desiderio della morte. Grete è onesta quando ricorda come da componente del Consiglio impegnata a smistare i convogli umani verso Auschwitz si sia sottratta alla deportazione, ma il punto è che, nonostante l’immenso dolore per la perdita di Waiki, una unheimliche Lebenskraft, una «tremenda forza vitale» (p. 173), l’ha spinta a tenere duro: [12] «I suicidi che si rimandano poi non si commettono» (p. 115). Anche a costo di subire quella che definisce «l’ultima umiliazione» (p. 121); di fronte al nuovo più severo SS posto dalla Gestapo a capo del centro di smistamento

Nessuno si muove, nessuno parla. Vorrei fare un passo avanti e dire: Non sono un guardiano dei prigionieri. Sono uguale a quelli che devo sorvegliare, un ebreo, un essere umano. Vorrei, ma non lo faccio. Penso a tutta velocità. Cosa succederebbe se? Forse mi colpirebbe sul viso, sarebbe una liberazione, il mio odio troverebbe un letto nel quale scorrere. […] andrei sul trasporto. Ma c’è la mamma, c’è il dovere di proteggerla, dovere che mi sono volutamente assunta, so qual è la prassi, andrebbero subito a prenderla a casa […].
Il tempo passa, l’SS ha ordinato di rompere le righe, attorno a me tutti si accalcano verso l’uscita, mi spingono assieme a loro, io lascio che sia, taccio come gli altri. (p. 123)

Una simile passività, ragionevole ma straziante – «Noi sani, realistici, noi ai quali nessun dio ha sottratto la ragione» (p. 171) –, dettata dalla consapevolezza che qualsiasi decisione presa l’avrebbe «resa colpevole» (p. 123) e che per qualsiasi decisione la propria Erziehung sarebbe stata insufficiente, costituisce il massimo grado dell’annichilimento operato dal nazismo, per spiegare il quale Weil ha inserito nel testo il terrificante memoriale dello sterminio di un ghetto polacco. Come Friedel, di formazione «pacifista e di sinistra» (p. 165), precedentemente legato a una donna ebrea che sarebbe stata deportata, è stato spettatore senza un impeto di ribellione dell’orrore delle fucilazioni di massa di cui ha finito per essere complice, allo stesso modo Grete si è lasciata annichilire e non ha compiuto quel gesto gratuito ma etico che le avrebbe consentito di perdonarsi e morire pacificata. Nemmeno ha sparato, ad esempio, allo Hauptsturmführer che ha coordinato il rastrellamento di seimila ebrei nel giugno del ’43: – «mi potevo muovere liberamente, mi sarebbe bastato passargli accanto e premere il grilletto. La rivoltella che non avevo» (p. 95). Riuscirà a farlo soltanto nell’onirico penultimo capitolo quando, in un ritmo vorticoso di sequenze che mischiano ricordo e sogno, si sdoppia in un’Antigone capitata al centro di smistamento dove lei sta battendo a macchina i nomi e i dati anagrafici degli ebrei in partenza per Auschwitz:

Lo Hauptsturmführer che fa l’appello dei prigionieri è in piedi dietro di me. “Il prossimo. Nome?” – “Antigone”. – “Antigone. E poi?” – “Solo Antigone.” […] “Non sono qui per condividere l’amore, ma per condividere l’odio”. Quindi estrae dalla veste una rivoltella, mira lo Hauptsturmführer che se ne sta lì immobile e preme il grilletto. (p. 261)

Si capisce, quindi, dalle varie angolature da cui si osserva il riferimento ad Antigone, che Weil non sarebbe mai riuscita a redigere un libro sulla principessa tebana se non avesse posto a contatto la riscrittura del mito con le domande provenienti non solo dalla sua esperienza, ma anche dall’attualità degli anni Settanta. Se in un passo il centro di raccolta di Amsterdam viene paragonato allo «stadio di calcio di Santiago» (p. 119), i ricordi si intrecciano soprattutto a considerazioni sugli anni di piombo, sollecitate dal personaggio di Marlene. La sua presenza è occasione per porsi una domanda molto sentita in quegli anni, quando Antigone fu spesso evocata come una possibile antesignana della lotta armata contro lo Stato: [13] «perché non l’ha ucciso lei Creonte?» (ibidem). La domanda si riverbera sulla comparazione tra la principessa e la terrorista Gudrun Ensslin, in cui la differenza sembra risiedere nel fatto che la prima «non ha appiccato il fuoco, solo dato sepoltura» (p. 191). Grete sente però che la risposta è insoddisfacente di fronte alla questione dell’esercizio della violenza quando «lo stato è diventato un carnefice» (p. 199) e riflette che forse alla generazione di Sophie Scholl, la martire della Rosa Bianca, così simile ad Antigone nello spingersi al limite dell’esperienza umana, «la storia [ha fatto] il favore di chiamare il […] terrorismo resistenza» (p. 199). Tuttavia, Grete sembra rinunciare a fornire una risposta coerente, lei che si è «ritirata dalla vita attiva» (ibidem) e, amante della pace, sostanzialmente considera quella terroristica, come vorrebbe dire a Marlene, «una guerra insensata e ripugnante» (ibidem). Nel pensiero della veglia Antigone resta, cioè, la fanciulla che condivide l’amore e non l’odio; è casomai nell’immagine onirica, come si è visto sopra, che, in un desiderio di liberazione dal senso di colpa, la principessa si è trasformata in una resistente o, detto diversamente, in una terrorista.

In ogni caso, anche per questo riferimento attualizzante Mia sorella Antigone si situa all’interno di quella ‘Antigone ricorrente’ che costituisce, nella pluralità delle riscritture e riletture, una costante del secondo Novecento,[14] legata a uno dei possibili percorsi tematici che si dipartono dall’archetipo sofocleo: il tema della sepoltura dei cari, che deve essere inteso, più che in senso letterale di tomba in un cimitero, nel significato traslato di elaborazione, individuale ma anche collettiva, del lutto: «una riunificazione sempre cercata e mai raggiunta, compiuta con una manciata di terra» (p. 197). Tenendo presente, però, come Grete ben sa e non può perdonarselo, che nel suo caso «quando [le] è data la possibilità di levar[si] contro l’odio lasci[a] che i morti giacciano insepolti» (p. 251).

 

2. Dispositivi della visione

Generalmente nelle letture di Mia sorella Antigone si sono privilegiati gli aspetti biografici e storiografici, ma porre l’attenzione solo sul contenuto non rende giustizia alla complessa struttura del testo, che si regge su un alchemico equilibrio tra la giustapposizione delle sequenze e le stratificazioni della Wunde. La narrazione procede infatti con una sorta di andamento metonimico, al cui interno i consecutivi spostamenti della materia fanno sì che ciascun episodio rinvii agli altri in un gioco ininterrotto di rifrazioni e differenze. Si ha l’impressione, leggendo, di non riuscire mai a districare del tutto la tessitura tematica del racconto, anche perché i piani temporali si intrecciano e si sovrappongono in continuazione, spesso persino a distanza di poche righe o pochi capoversi. È sulla base di questo moto perpetuo, per così dire, della narrazione che nel monologo interiore dell’io narrante si innestano quelli che si possono considerare dispositivi della visione: la memoria si impenna intorno a dettagli e oggetti, quotidiani ma anche urbani, attraverso i quali Grete prima di tutto sembra filmare i propri ricordi, immettendoli, per riprendere le categorie di Costa, in un movimento al contempo plastico e narrativo.

Che siamo in una dimensione diversa dal mero primato dello showing sul telling di ascendenza jamesiana lo suggerisce già l’incipit. Innanzitutto dopo il risveglio fisico dal sonno, avviene un secondo brusco risveglio delle proprie facoltà cognitive – der Schock des Erkennens –, con cui Grete risprofonda nella sua condizione di anziana signora, che sente di avere «cento [anni] in un certo momento [in einem Augenblick], venti in quello successivo» (p. 15). Si inaugura sin dalle prime righe, cioè, l’assoluta rilevanza che l’Augenblick, alla lettera lo sguardo che si consuma in un batter d’occhio, possiederà nel testo, spesso nella variante dell’avverbio plötzlich, ‘all’improvviso’: basterà un attimo, compreso in un’occhiata fulminea, per accavallare i diversi piani temporali del presente e della memoria, come si vede subito nella successiva sequenza:

Mi alzo, riempio la vasca, mi sdraio in schiuma e acqua. Senza muovermi. Sono giovane. Fra qualche settimana vado a sciare. Allora l’uomo dello skilift mi darà una spintarella per mettermi in moto: i miei ossequi, ‘gnora. Mi vuole fare un complimento e mi fa del male [und tut mir weh]. Tutti mi fanno del male [Alle tun mir weh]. I coetanei lagnandosi dei loro acciacchi, della loro solitudine. (ibidem)

E come i coetanei settantenni così i quaranta-cinquantenni e i giovani per altri motivi. Al di là però delle fasce di età convocate, ciò che è degno di nota in questo primo caso è lo spostamento repentino nel tempo, in einem Augenblick appunto. Si può immaginare lo sguardo dell’io narrante che si fissa sulla schiuma mentre la memoria fa clic e si invola verso un altro tempo e altre persone, precedenti compagni e compagne della propria vita oppure semplici comparse, come l’uomo dello skilift, cui però si è indissolubilmente unito un ricordo. In altri termini, il dettaglio della schiuma è la soglia che, simile alla dissolvenza o altri segnali filmici della rottura della progressione temporale,[15] catapulta con un flashback Grete nella giovinezza. Con la differenza, però, che le analessi non sono segmenti circoscritti di una narrazione lineare e teleologica, bensì sostanziano la struttura metonimica, intrinsecamente decostruita, del racconto: è come se fosse avvenuta una contaminazione tra gli effetti del montaggio del cinema classico e il modello offerto da celebri film cronologicamente ‘spezzettati’ come Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles o Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais, capisaldi di una rivoluzione cinematografica che programmaticamente scompagina la naturalezza e la fluidità del découpage hollywoodiano. Con grande agilità, infatti, Grete si muove tra i diversi livelli temporali della sua storia: basta ripetere, anche solo mentalmente, alcune parole – Alle tun mir weh – per tornare nel presente; dopodiché, il pensiero corre al confronto tra i giovani di oggi e la Nazigeneration, all’amica benpensante conosciuta a scuola, agli anni della giovinezza, finché

La schiuma si è dissolta, gioco con la spugna come fosse una barchetta, la spingo in avanti, la faccio svoltare, tornare verso di me. Lo faccio da quando riesco a ricordarmelo, unica interruzione gli anni in cui non facevo il bagno, quando ero nascosta e per molto tempo anche dopo. (p. 17)

L’inquadratura ravvicinata sugli oggetti costituisce una sorta di soglia mnemonica che, con un montaggio di tipo analitico, apre e chiude una rapida sequenza narrativa. Un simile sguardo ravvicinato sull’oggetto ritorna nella seconda parte del sesto capitolo, dedicato alla descrizione dell’ultimo periodo della guerra, quando, con gli Alleati lentamente lanciati verso la vittoria, Grete viveva nascosta in casa di un amico. Il punto di partenza è l’appetito sopravvenuto nel tempo presente – «Da quando ho avuto l’ulcera gastrica, dieci anni fa, devo mangiare qualcosa ogni due-tre ore» (p. 81) –, che si fa occasione per ricordare la triade di «fame, freddo, buio» sofferta trentacinque anni prima. A un tratto, però, la narratrice sembra scuotersi: «Sto in cucina davanti al frigorifero aperto, penso a che cosa potrei mangiare» (p. 87); meccanicamente attinge dall’abbondanza di vivande a sua disposizione, segno del suo benessere economico, si porta un piatto in soggiorno, poi torna in cucina:

All’improvviso [Plötzlich] ho i brividi. Il riscaldamento qui è spento. Tornando nella stanza calda mi viene in mente di essere andata in cucina con l’intenzione di fare qualcosa, torno indietro, rimango ferma in piedi davanti al frigorifero, che cosa volevo? Lo apro, scruto il suo contenuto, sposto due cartoni del latte dal ripiano di mezzo a quello inferiore, senza alcun motivo, ma non mi viene in mente di meglio. Volevo mangiare qualcosa? A dir la verità sono sazia. Il frigorifero è pieno. Gioisco dei molti alimenti, mi trasmettono un senso di protezione. Come l’appartamento caldo, l’armadio pieno di vestiti, l’automobile in garage. Volevo bere qualcosa? Non ho sete. Cosa volevo? Gli occhiali? Li ho su. L’apparecchio acustico? Volevo prendere delle pile nuove, che tengo in frigorifero? Le ho cambiate giusto ieri. Lentamente giro la testa e vedo bicchiere e piatto nel lavello. Depressa chiudo il frigorifero.
All’improvviso [Plötzlich] nostalgia per allora, per quando mi nascondevo, per il pericolo di morte. Quando la vita poteva finire in ogni momento [in jedem Augenblick]. La minuscola chance di sopravvivere. […] Vivere sul filo del rasoio. Sopravvivere come obiettivo. Non c’è altro. Sopravvivere come religione. Come sport. Come politica. (ibidem)

In questo caso è il frigorifero con dentro le provviste a esercitare la funzione di soglia, scatenando la paradossale nostalgia per un periodo così tragico eppure pervaso di una finalità di vita, ancora pieno di un senso di lotta in confronto al quale il presente appare così vuoto. Non a caso, quando poco prima si è letto che «il [suo] stomaco sopporta tutto, tranne il vuoto» (p. 81), non è stato arduo capire quanto la questione del cibo rimandi a una più ampia Leere, a una vacuità più generale.

Altri oggetti quotidiani che rivestono una simile funzione di soglia sono il telefono, intorno al quale si fondono chiamate reali a persone vive e chiamate immaginarie di Urs – «Un’occhiata (ein Blick) al telefono che non suona» (p. 59) –, le merci esposte nelle vetrine che Grete osserva nella sua passeggiata quotidiana e che le richiamano oggetti posseduti o perduti negli anni della persecuzione nazista, e il giornale che ogni mattina Grete legge minuziosamente per riempire il tempo. Stavolta, però, c’è una notizia che dà il la a un nuovo esercizio di memoria:

[…] prendo di nuovo il giornale e sì, trovo qualcosa che prima mi era sfuggito. Una notizia che mi riguarda. Che non mi riguarda per nulla, non più, ma che mi tocca come se mi riguardasse: il sottosegretario di stato a riposo Dr. Ludwig Haverkamp è stato stroncato da un infarto all’età di settantadue anni. (p. 63)

È da notare la costruzione della scena: non alla prima lettura Grete ha notato la notizia che riguarda il decesso della persona che, con la sua stolida indifferenza, ha scavato nella sua vita la Wunde, ma ad una seconda, quasi a imitare la costruzione indiziaria di un giallo, quando un dettaglio precedentemente trascurato si rivela invece decisivo. Siamo spettatori, così, nella nostra immedesimazione con la prospettiva narrante, dello sguardo che si fissa sul trafiletto del giornale e dell’immaginaria dissolvenza con la quale si apre il flashback del racconto di secondo livello: «Quando lo avevo incontrato mancavano ancora quattro anni di guerra perché egli potesse intraprendere la sua carriera nella Repubblica Federale», evidentemente contando sul «groviglio della denazificazione» (ibidem). Ed entriamo, come in un vecchio noir, nell’«elegante ufficio all’Aia» di «Amministratore di affari di ebrei in Olanda» (ibidem) che fa da scenario alla conversazione della vita di Grete, nel quale, a differenza di un possibile melodramma degli anni Quaranta, non c’è lieto fine: c’è solo la Wunde che si apre e inizia a sanguinare.

Gli oggetti acquistano quindi il valore di segnalibri della memoria. La narratrice li fissa e il suo sguardo, zoomando su di essi o, in alternativa, scorrendo lo sguardo su di essi come una carrellata in soggettiva, li sottrae all’indifferenza dell’ambiente, li rende soglia di un racconto che si situa a un livello più interno rispetto alla cornice della giornata di fine anni Settanta a Francoforte sul Meno. Altrove l’oggetto è puramente mentale e acquista la sua forza iconica nel momento in cui approda a un’esistenza concreta nel racconto di secondo grado, come accade nella scena forse più intensa e complessa del libro: quella che, nel tredicesimo capitolo, lega la visita pomeridiana del commercialista a un altro episodio drammatico dell’esperienza di Grete durante l’occupazione nazista dei Paesi Bassi. In questo caso l’oggetto, intorno al quale è organizzato un vero e proprio montaggio incrociato, è eine Schere, un paio di forbici: solamente evocato sul piano del presente dall’interlocutore di Grete, ma capace di ricondurla immediatamente, in einem Augenblick, al doloroso passato. Già è stato sufficiente che Herr Schieding abbia menzionato il fatto che lei non ha figli per farle venire in mente l’aborto seguito a una breve surreale storia con una SA conosciuta in un locale lesbico di Berlino, ma è poco più avanti che tempo esterno e tempo interiore vanno in totale corto circuito:

“Non capisco perché non vuole nascondere un po’ di soldi al fisco. Eppure è così facile. Le basta comprare azioni allo sportello e metterle nella cassetta di sicurezza. Non nella sua banca, ma in un’altra. Una volta l’anno ci va, si infila le forbici in tasca e taglia le cedole.”
Nel mio studio fotografico guardo tre uomini che impacchettano per lo sgombero mobili, apparecchi, lampade, materiale chimico e fogli. Tutto ciò che mi serve per fotografare, e che è stato registrato solo pochi mesi fa, adesso me lo portano via. L’atelier è chiuso da oggi su ordine dell’Ufficio centrale per l’emigrazione ebraica. Un quarto tipo, il capo, fa una crocetta su una lista per ogni oggetto che gli altri fanno cadere in una cassa o che trascinano via. “Manca ancora un paio di forbici da carta”, dice alla fine, “dove sono?” – “Non lo so.” Lo so benissimo, sono nel cassetto in cucina. Ma, senza parole per la rabbia, non voglio chinare la fronte, non voglio riportare ubbidiente il bastone quando uno fischia. “È folle da parte sua voler andare in Polonia per un paio di forbici.” Non voglio andare in Polonia, ma non posso farci nulla, se lui mi ci spedisce. Scuote la testa in segno di disapprovazione. “Ora vado a bere un kopje koffie. Ha venti minuti di tempo per pensare a dove si trovano le forbici.” (p. 183)

In questo caso il passaggio dal presente agli anni della guerra è così subitaneo da non essere nemmeno segnalato, proprio perché l’oggetto-soglia non è concretamente presente nella cornice del racconto, ma è istantaneamente ricostruito nello sguardo di Grete dal film mentale che la trasferisce, in un attimo, nell’Olanda dei primi anni Quaranta. Le forbici, così, si ingigantiscono nella memoria: «Un paio di forbici, di forbici, di forbici. Taglia la mia vita in due. Forbici, forbici… Canto. All’improvviso [plötzlich] capisco quanto sia insensata questa resistenza [Widerstand]» (ibidem). Torna la ragionevolezza e, con ciò, sfuma per la giovane donna Grete un’altra possibilità di una forma di opposizione gratuita ma etica. Con l’aiuto di uno dei tre facchini riesce anche stavolta a cavarsela:

Quando torna il capobanda tutto è a posto. Alla porta si gira un’ultima volta: “Mevrouw, verranno altri tempi.”
Il signor Schieding a quanto pare ha finito le sue considerazioni. Ha messo la tazza da tè sulla scrivania, mi passa la dichiarazione dei redditi e con il dito indica un punto su cui ha fatto una croce: “Prego, firmi qui.”
“Firmi qui”, dice l’uomo dietro lo sportello all’ufficio centrale e mi passa un modulo. Firmo. Ritira il foglio verso di sé, getta un’occhiata, lo strappa. Minaccioso: “Per questo potrei metterla sul trasporto.” Ho capito. Firmo un nuovo modulo con Sarah davanti al mio nome. Ogni ebrea si chiama Sarah, ogni ebreo Israel.
Comincio con una grossa S, la sbarro inorridita, firmo la dichiarazione dei redditi e la do al signor Schieding. (ibidem)

Il montaggio in parallelo restituisce la dirompenza del lapsus, che, in quanto sintomo dell’inconscio, dà la misura della profondità della Wunde, anzi, nell’immagine suggerita dalla sequenza, della vita tagliata in due dalle forbici della Wunde. Così, se da una parte, razionalmente Grete si definisce una «privilegiata» (p. 85) il cui passato, svuotato, si è trasformato in una «leggenda, della quale si continua a raccontare» (ibidem), dall’altra l’esperienza vissuta sguscia al controllo del sé e ­– plötzlich – fa schizzare fuori l’urgenza della ferita traumatica: il taglio irreparabile, che sanguina nel tempo interiore, quello indifferente alla cronologia. Per tale ragione, non solo l’oggetto affianca alla sua funzione narrativa quella simbolica,[16] ma si fa mise en abyme della rappresentazione in atto, come accade, ad esempio, alle ricorrenti apparizioni di spirali nella Donna che visse due volte (Vertigo, 1957) [fig. 3]:

Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte

Il fortissimo valore plastico della spirale nell’occhio nella sequenza di apertura può essere accostato al flash delle forbici colte nello sguardo mentale di Grete in Mia sorella Antigone. Così, se con l’immagine della spirale si percepisce che nel film di Hitchcock «tutto diventa cerchio, ma il cerchio non si chiude»,[17] si può forse altrettanto affermare che nell’opera di Weil simili forbici fantasmatiche fanno sì che tutto diventi un taglio che non cessa mai di tagliare: ferita, separazione, scissione, distanza, disappartenenza, in una parola Fremdheit. La prima occorrenza del termine si situa già nel capitolo iniziale, al termine della sequenza del bagno da cui abbiamo preso le mosse:

La schiuma si è dissolta, gioco con la spugna come fosse una barchetta, la spingo in avanti, la faccio svoltare, tornare verso di me. Lo faccio da quando riesco a ricordarmelo, unica interruzione gli anni in cui non facevo il bagno, quando ero nascosta e per molto tempo anche dopo. Un gioco familiare, ma all’improvviso [plötzlich] c’è di nuovo l’estraneità [die Fremdheit] che ora mi assale così spesso. Un’estraneità che non si può definire precisamente, ma che diventa sempre più forte. Distanza dagli esseri umani, dalle cose e da me stessa [Distanz zu Menschen, Dingen und zu mir selbst]. (p. 17)

In altre parole, con il loro semplice apparire nella mente di Grete nel momento in cui il signor Schieding le ha evocate, le forbici esercitano tutta la loro significanza emotiva rappresentando ciò da cui la Fremdheit di Grete continua a sgusciare: l’urgenza del trauma, costantemente straziato dalle forbici che tagliano la sua vita e la spossessano della propria identità. Per tale ragione la pagina delle forbici e della firma può essere letta come una mise en abyme dell’intero testo, in quanto vi è rappresentata, in piccolo, la relazione fra trauma e scrittura che soggiace a Mia sorella Antigone. La cancellatura della esse smebra alludere, infatti, ai continui spostamenti metonimici della narrazione che senza posa rimandano a un qualcos’altro che dovrebbe afferrare il proprio sé e fornire una visione definitiva del proprio racconto, ma che invece è solo una rappresentazione parziale e inquieta, che continuamente rilancia la posta della messa in scrittura della propria Fremdheit, di un’incolmabile autoestranietà.

In questa direzione si capisce anche il senso di un altro oggetto in cui la funzione attanziale si sposa a un forte simbolismo, tratto stavolta dall’arredo urbano: «Attraverso strade, talvolta è Amsterdam, Monaco, Parigi, familiari ed estranee, minacciose, aria pesante, muri, nient’altro che muri» (p. 127). Stavolta l’occasione per gli interscambi temporali è stata una passeggiata in centro, che evoca, con l’anafora di Mauer, nichts als Mauer, le strade di Amsterdam e poi, prestando la voce alla sorella sofoclea, le mura di Tebe:

Muri, nient’altro che muri [Mauer, nichts als Mauer]. Blocchi di pietra impilati, ciclopici. Muri che alla città rendono la vita più facile, più difficile. Tengono lontani i nemici. Separano gli esseri umani.
Un fratello di qua, l’altro di là. Pronti alla battaglia. Come se non ci fosse un mezzo migliore della spada. Come se non ci fosse il linguaggio, con il quale si può ricomporre una lite. Ma di qua come di là si è condannati al silenzio. Non si vuole trattare, ci si vuole annientare. (p. 129)

Lo scenario urbano rappresenta plasticamente lo stato d’animo della protagonista, che scivola lungo le strade e i muri delle tante città che ha percorso «solo per sentirsi esistere» (p. 127), così come scivola nel vuoto della propria vita disappartenuta. E in questo si coglie, come sintesi delle varie sfaccettature tematiche messe in campo, il significato complessivo del riferimento ad Antigone, sorella letteraria sin dai tempi della scuola. Si è detto della distanza dal modello del personaggio sofocleo di Grete, che appartiene alla categoria di coloro che sopravvivono, per quanto torturandosi e negandosi la possibilità di un approdo e di un rapporto pacificato con il mondo: coloro per i quali la vita vale la pena di essere vissuta anche quando si trasformi in uno stillicidio esistenziale, perché mai avrebbero scelto, come Antigone, la morte pur amando la vita. Eppure c’è un più generale ambito in cui la sororità si fa intima solidarietà, in nome di uno degli attributi con cui nel quarto episodio della tragedia di Sofocle, mentre si dirige alla tomba in cui dovrà essere sepolta viva, Antigone rimpiange il proprio misero destino: metoikos, straniera in patria, meticcia irreparabilmente chiamata a un destino di solitudine:

La mia principessa. La bella figura artistica che in molte ore – non in tutte – soddisfa le aspettative. Che si può mandare via e richiamare a sé. Che non mi distrugge la solitudine [Alleinsein], ma la rende più lucida. Il mio rapporto con lei – Eros della solitudine [Eros des Alleinseins]. (p. 73)

Ed è al fondo di questa disappartenenza, costante nelle varie incarnazioni cui l’hanno condotta le peripezie spaziotemporali della narrazione, che Grete arriva alla fine della giornata, a quella apparente pacificazione nella bruttezza di cui è spettatrice dalla finestra [fig. 4].

Francoforte sul Meno nel 1944

Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte, nel passaggio dall’interno con figura umana alla soggettiva sul piano lunghissimo della Francoforte ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale a un montaggio impressionistico in cui culmina il crescendo emotivo del racconto. Le «strade noiose, anonime, là dove un tempo c’era uno dei più bei centri storici» (p. 127) [fig. 4], che Grete osserva dall’alto, dopo averle così tante volte percorse, costituiscono il perfetto correlativo oggettivo della sua condizione di meteca: sono il non luogo che succede all’annientamento della violenza o, detto altrimenti, l’Alleinsein della sopravvivenza:

 

noi lasciamo morire i bambini di Guernica
perché siamo codardi di fronte ai tormenti estranei
muti aspettiamo la rovina
con la quale pagheremo nel sangue la nostra colpa.
 
Non una bella poesia, ma un giusto resoconto. (p. 249)

 

1 G. Weil, Mia sorella Antigone (1980), a cura di K. Birge Büch, M. Castellari, A. Gilardoni, Milano, Mimesis, 2007, p. 21 (d’ora in poi il riferimento alle pagina delle citazioni sarà posto di seguito al passo citato). Eccetto alcune modifiche da me apportate perché funzionali al mio discorso, per la traduzione seguo la versione di Marco Castellari, che si è in più occasioni occupato di Weil; si veda, ad esempio, M. Castellari, ‘Mito, storia e attualità. Mia sorella Antigone (1980) di Grete Weil e le ferite del Novecento tedesco’, ACME – Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano, LXIV, 1 (Gennaio-Aprile 2011) <http://www.ledonline.it/acme/allegati/Acme-11-I_07_Castellari.pdf> [accessed 15 January 2015]

2 Ciò non toglie che il tessuto intertestuale sia denso; i rimandi sono però perlopiù letterari e teatrali.

3 Intorno al termine “dispositivo” convergono studi culturali-filosofici e visual studies. Sulla falsariga di Foucault, Giorgio Agamben afferma che un dispositivo è «qualunque cosa abbia […] la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (G. Agamben, Cos’è un dispositivo, Roma, Nottetempo, 2006, p. 22). Si tratta però, in uno studio comparatistico tra parola e immagine, di far interagire una simile definizione con una prospettiva più specificatamente ‘visualistica’, al cui interno, immagini, sguardo e dispositivo rendono riconoscibile un certo regime scopico: «le immagini, intese sia come prodotto di una prassi figurativa consapevole che come espressione di processi inconsci e immateriali, i dispositivi che rendono ‘visibili’ queste immagini e che presiedono alla loro creazione (i media e le tecnologie della visione) e, infine, gli sguardi (gaze) che si posano sulle immagini» (M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 40). In tal modo, «il cinema può essere visto come un dispositivo di rappresentazione, con i suoi congegni e la sua organizzazione degli spazi e dei ruoli» (A. Costa, Saper vedere il cinema, Milano, Bompiani, 2001, pp.10-11).

4 A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Torino, Einaudi, 2014, p. XIII.

5 Ivi, p. 10.

6 R. Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 22. Preferisco tuttavia muovermi liberamente nella terminologia, utilizzando sia “oggetti” che “cose”, in quanto il mio discorso non si sviluppa nel territorio filosofico di Bodei.

7 J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, IV, 1998, citato in A. Costa, La mela di Cézanne, p. 6.

8 R. Barthes, ‘Il terzo senso’, in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, p. 55. Costa nota che anche Jacques Aumont utilizza il termine ‘significanza’ per indicare la «sostanza visiva e pittorica» degli oggetti (A. Costa, La mela di Cézanne, p. 37).

9 Per il concetto di spazio dell’autobiografia cfr. E. Porciani, ‘Patto e spazio autobiografico: l’avventura teorica di Philippe Lejeune’, Intersezioni, XXVII, 2007, pp. 423-440.

10 Non a caso Costa dedica un’intera sezione del suo saggio a quel dispositivo ottico per eccellenza che è la finestra, «probabilmente l’oggetto architettonico che presenta maggiori affinità con il dispositivo di rappresentazione prospettica e, di conseguenza, con il cinema e che ha ispirato una delle metafore più usate (e abusate) per definire il cinema stesso: la finestra aperta sul mondo» (A. Costa, La mela di Cézanne, p. 177).

11 Metaletterariamente si può affermare che con questa finale domanda Grete Weil si sporga sulle altre due opere che formano «assieme a Mia sorella Antigone un’ideale trilogia di romanzi» (M. Castellari, ‘Prefazione’, in G. Weil, Mia sorella Antigone, p. 12): Generazioni (Generationen, 1983) e Il prezzo della sposa (Der Brautpreis, 1988), nei quali da diverse prospettive di nuovo affronta il nesso tra il singolo, declinato nella soggettività femminile, e la Shoah. In particolare, Generazioni apre «uno squarcio al di fuori della finzione attraverso la tematizzazione della stesura di Mia sorella Antigone» (ibidem).

12 Si noti l’aggettivo unheimliche, la cui pregnanza semantica, come dimostra la riduttiva resa del saggio freudiano Das Unheimliche (1919) con ‘perturbante’, è intraducibile in italiano. Oltre che tremenda, quindi, la forza vitale sarà anche dotata di una familiarità allo stesso tempo ritrovata e inconscia, come riemergesse dalle profondità viscerali in cui l’ha spinta il lutto legato alla perdita di Waiki.

13 Inizialmente il titolo del libro doveva essere La scala della morte (Die Todestreppe), con riferimento all’infernale scala della cava di Mauthausen evocata nel libro, ma poi, su spinta dell’editore, Weil lo mutò in quello attuale. Da una parte si può riconoscere un’abile strategia editoriale dato che negli anni Settanta in Germania il personaggio di Antigone fu molto in auge, in riferimento sia ai passati eventi bellici che ai più recenti casi di terrorismo. Dall’altra, però, è indubbio che, «mentre La scala della morte avrebbe spostato il peso semantico sul piano della passata persecuzione e sterminio [...], il titolo definitivo annuncia quell’intreccio fra passato e presente, meglio: quella assoluta presenza dell’ordito di ieri nelle trame dell’oggi, della storia nell’attualità del soggetto (narrante) e del mondo che è la cifra del romanzo tutto. E ciò con l’apparente paradosso del riferimento al mito, dimensione a-storica per definizione, che si rivelerà matrice sulla base della quale rappresentare un intreccio indissolubile e, di per sé, inestricabile» (M. Castellari, ‘Mito, storia e attualità’, p. 84-85).

14 Cfr. al riguardo R. Rossanda, ‘Antigone ricorrente’, in Sofocle, Antigone, Milano, Feltrinelli, 1987, traduzione di L. Biondetti, pp. 7-58.

15 Quali la sfocatura, il passaggio dal colore al bianco e nero, il rallenty.

16 «Si può evidenziare un simbolismo intrinseco degli oggetti: un simbolismo legato al loro uso e un simbolismo legato alla loro forma, al loro aspetto» (A. Costa, La mela di Cézanne, p. 35).

17 E. Rohmer, Alfred Hitchcock, in Il gusto della bellezza, Parma, Pratiche Editrice, 1991, p. 269. Cfr. anche M. Teti, ‘La vertigine di una spirale. La centralità della figura spiraliforme in La donna che visse due volte’, Annali Online di Lettere – Ferrara, I, 2010, p. 147 < http://annali.unife.it/lettere/article/viewFile/212/161> [accessed 7 February 2015]: «Ancora più significativo è il fatto che nella sequenza di apertura del film il motivo della spirale si materializzi all’interno di un occhio femminile inquadrato in dettaglio, dando così l’impressione di “nascere” dalla pupilla della donna. Esso viene letteralmente originato (e alla fine riassorbito) dall’organo della vista. La spirale è l’elemento grafico del quale Hitchcock e Bass [il grafico designer collaboratore del regista] si servono per denunciare in maniera indiretta il fascino ingannevole esercitato sul pubblico dal cinema, inteso come una sorta di “macchina” capace di ricreare artificialmente emozioni e sensazioni».