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L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Assumendo come prospettiva d’indagine la musica nel cinema di Pasolini, il contributo ripercorre parte della produzione cinematografica del poeta-regista con l’obiettivo di offrire una chiave di lettura della componente musicale. Film come La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966), oppure documentari come Appunti per un’Orestiade africana (1970), vengono dunque passati in rassegna e osservati attraverso la dialettica che le sequenze visive instaurano con la dimensione orale del regime sonoro.

Focusing on music in Pasolini’s cinema, the contribution retraces part of the film production of the poet-director with the aim of offering an interpretation of the musical component. Movies such as La ricotta (1963) and Uccellacci e uccellini (1966), or documentaries such as Appunti per un’Orestiade africana (1970), are therefore observed through the dialectic that the visual sequences establish with the oral component of the sound dimension.

C’è un elemento di ambiguità nell’uso della musica e della vocalità musicale nel cinema di Pasolini. Come ebbe modo di dichiarare, Pasolini non era un grande esperto di musica, eppure il ruolo che il regime musicale riveste nei suoi film è decisivo, necessario, quasi fosse del tutto connaturato all’immagine stessa. Scrive infatti ne La musica del film: «le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria». È solo la fonte musicale «che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo”» a sfondare «le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita» (Pasolini 1979, pp. 114-115).

La musica è dunque una componente necessaria e dialettica dell’immagine cinematografica perché le consente di aprirsi alla vita, trasformando il suo rispecchiamento mimetico in un vero e proprio dispositivo totalizzante in grado di dare conto delle componenti noumeniche e fenomeniche del reale. È un aspetto decisivo della poetica pasoliniana che emerge chiaramente dall’uso che il regista fa, per esempio, del repertorio operistico ne La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966). Se in Accattone (1961) e ne Il Vangelo secondo Matteo (1964) la colonna musicale seguiva uno sviluppo interamente orientato verso un’autocoscienza della realtà stessa nell’immagine – si pensi all’uso enfatico e ripetuto della Matthäus passion di Bach in Accattone o della Maurerische Trauermusik di Mozart nella scena della crocifissione del Vangelo –, con La ricotta l’opera lirica entra per la prima volta nel repertorio pasoliniano in chiave interamente dialettica, in funzione di una totalizzazione in cui ciò che l’immagine mostra assume senso proprio a partire dal suo accompagnamento sonoro. È la melodia manipolata e stilizzata di «Sempre libera degg’io» da La traviata di Verdi a commentare beffardamente la corsa tragica all’acquisto della ricotta di Stracci, e poi la scena del banchetto fino alla sua morte sulla croce ne La ricotta [fig. 1]. La ‘libertà’ di Traviata di «folleggiar di gioia in gioia» diventa quella, rovesciata, di Stracci di correre libero nella campagna romana del set del film sulla passione di Cristo. Il brano musicale, in altre parole, costruisce con il visibile dell’immagine un vero e proprio rapporto dialettico, perché ne commenta in modo contrastivo e oppositivo l’azione (il dramma della morte di Stracci) portandola a quel livello di significato che non potrebbe appartenere semplicemente al suo registro visivo.

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Le Musiche per il Paradiso di Dante composte da Salvatore Sciarrino nascono nel 1993 per un progetto firmato da Federico Tiezzi per il Ravenna Festival, come tentata fusione di musica e poesia. Quarant’anni più tardi, le tre parti del poema sonoro di Sciarrino vengono eseguite a Padova, nel Palazzo della Ragione, dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius, in artistica collaborazione con la performance di Anagoor. Quella di Sciarrino si presenta come un’opera tripartita, in cui l’affresco centrale, L’invenzione della trasparenza, viene anticipato da un prologo, Alfabeto oscuro, e chiuso da un epilogo, Postille. «Musica ambiente», è stata definita dall’autore, «stilizzata a porgere gli spunti che il verso tace e richiama» (Intervista a cura di S. Nardelli, ‘Nel vuoto del Paradiso’, Il Giornale della Musica, 13 settembre 2021). La prima sezione, un vero alfabeto altro, rappresenta lo sforzo di dare voce all’inesprimibile, l’assenza della parola che gli strumenti tentano vanamente di emulare (‘come parlando’ è l’indicazione in partitura). La seconda, con le sue infinite figurazioni sonore, tenta di restituire la suggestione dell’ascensione di Dante attraverso i nove cieli concentrici del Paradiso: «com’io trascenda esti corpi levi». Nella terza si va verso l’indicibile, nell’ultimo slancio che, oltre la ‘candida rosa’ dei beati, ci porta alla grande scommessa dantesca, intravedere il volto di Dio.

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D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →
  • Arabeschi n. 10→

La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Zaches Teatro, compagnia toscana attiva dal 2007 che prende il nome da un racconto di E.T.A. Hoffmann del 1819 (Klein Zaches, genannt Zinnober), ha codificato la sua cifra stilistica lavorando con le maschere, le marionette e altri generi di figure che sin dall’inizio hanno trovato spazio e impiego nelle sue produzioni (One reel, 2006; Faustus Faustus, 2009), ed è a oggi una delle compagnie (ricordiamo anche Riserva Canini e Teatrino Giullare) che più ha sperimentato, in Italia, il teatro di figura, o meglio ‘delle figure’, in tutti i suoi aspetti.

Il teatro russo e i suoi maestri sono stati modello e fonte d’ispirazione per i membri della compagnia. Prima quello fisico dei russi Derevo (compagnia fondata nel 1992 e tuttora diretta da Anton Adasinskij), caratterizzato da un mix di teatro e danza, di pantomima e butho, di performance e arte povera, di clownerie e folclore, che oscilla sempre tra grottesco e visionario; poi quello di Nicolaj Karpov, grande maestro della biomeccanica teatrale. Su questa scia, il lavoro di Zaches, come si legge nella presentazione del gruppo, è «spinto a indagare il connubio tra differenti linguaggi artistici: la danza contemporanea, l’uso della maschera, la sperimentazione vocale, il rapporto tra movimenti plastici e musica/suono elettronico dal vivo». La compagnia risulta pertanto compatta e trasversale allo stesso tempo: ne fanno parte Luana Gramegna (coreografa e regista), Francesco Givone (scenografo, costruttore di maschere e light designer), Stefano Ciardi (compositore, musicista e sound designer) e Enrica Zampetti (dramaturg e interprete).

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The Adventures of Pinocchio (2007) del compositore inglese Jonathan Dove (nato a Londra nel 1959) sono una felice rivisitazione del capolavoro collodiano entrata ormai nel repertorio teatrale, almeno nei paesi anglosassoni: non è l’unica, s’intende, rilettura musicale recente della figura del burattino, perché per esempio una musicista italiana più o meno della stessa generazione di Dove, Lucia Ronchetti, ha vestito di suoni nel 2005 il Pinocchio. Un libro parallelo di Giorgio Manganelli (risalendo nel tempo, si può citare, restando in Italia, anche il Pinocchio di Marco Tutino, 1985); recentissimo è poi il Pinocchio del musicista belga Philippe Boesmans, presentato al Festival di Aix en Provence nell’estate 2017. Jonathan Dove è riuscito a scrivere un’opera che avesse tutti gli ingredienti e le costrizioni del genere senza perdere di vista le esigenze della popolarità, sul versante, affascinante ma anche scivoloso, della destinazione infantile (non scordiamoci che Pinocchio, mille volte seriosamente anatomizzato, è alla fine una favola): l’Inghilterra ama del resto, più di ogni altro paese in Europa, offrire teatro e musica ai bambini [fig. 1]. Ma Dove non è un musicista (solo) per bambini. Ebbe il suo primo successo operistico con una parabola contemporanea volta in incubo kafkiano: Flight (presentato al Glyndebourne Festival del 1998, su libretto di April De Angelis), che rievoca la storia vera di un richiedente asilo iraniano rimasto diciotto anni ‘in transito’ presso il Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi (la vicenda ispirò, indipendentemente dall’opera di Dove, il noto film The Terminal di Steven Spielberg, 2004, con Tom Hanks nella parte dello stralunato protagonista): nella realtà lo sfortunato iraniano fu ‘liberato’ solo nel 2006. Favola certo meno amara, ma non priva di tocchi di surrealtà è quella di Pinocchio, un libro che Dove racconta di aver sempre amato, sin da bambino: non tramite il troppo facile e chiassoso medium disneyano, ma attraverso l’ascolto e poi la diretta lettura di un libro che recava anche vivaci illustrazioni; particolarmente tenaci nella memoria del bambino, e poi dell’adulto, erano rimasti i conigli che portano la bara in casa della fatina, poi la balena, il pescatore-mostro, il grillo parlante, e altro ancora. Memoria visiva dunque [fig. 2], riaccostata dal musicista durante una gita italiana compiuta in età adulta presso il Parco Pinocchio del paese di Collodi, dove si può davvero camminare dentro la celebre storia.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

Pinocchio Parade propone una rilettura inedita delle avventure del burattino inventato da Carlo Collodi (al secolo Carlo Lorenzini) più di centotrenta anni fa. Grazie anche alle memorabili versioni cinematografiche, da quella animata da Walt Disney ai film di Comencini e Benigni, Pinocchio è ancora oggi la favola italiana più conosciuta al mondo. Capace di stigmatizzare vizi e virtù dell’anima umana, e di descrivere allo stesso tempo mentalità e abiti tipici della provincia italiana di fine Ottocento, sul romanzo si sono posati sguardi molto diversi a seconda della latitudine e dell’epoca che l’ha riletto. Pinocchio Parade è un progetto a più voci nato nel 2014 e andato in scena nel Festival MoliseCinema di Casacalenda (2014) e al teatro Out Off a Milano (2017): la musica originale è di Giancarlo Schiaffini, compositore, trombonista e tubista di fama internazionale, già autore di diverse performance multimediali a tema; le immagini sono frutto della fantasia di Cristina Stifanic, artista visuale di origine croata ma di nazionalità italiana che lavora spesso sulla contaminazione di linguaggi del mondo dei mass media; l’animazione e il montaggio sono di Ilaria Schiaffini, docente universitaria di storia dell’arte contemporanea, che ha già curato anche in passato l’aspetto visivo di performance musicali. La musica è improvvisata dal vivo (Giancarlo Schiaffini con trombone e live electronics) su una base registrata (Silvia Schiavoni alla voce, Claudia Bombardella alla fisarmonica e al sax baritono, Luca di Volo al clarinetto piccolo e sax alto, Beate Springorum al violino e alla viola, Vincenzo Cavallo al violoncello, Stefano Scodanibbio al contrabbasso, Mohssen Kasirossafar allo zarb e al daf).

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Tra tutte le dive del cinema italiano, Monica Vitti è stata quella che più ha reso la rappresentazione della ‘scopia’ femminile una vera e propria iconografia cinematografica. Consacrata dalla collaborazione con Michelangelo Antonioni nella cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura - 1960, La notte - 1961, L’eclisse - 1962) in bianco e nero, il cui atto finale può essere considerato l’uso poetico del colore in Il deserto rosso, l’attrice ha poi inanellato collaborazioni con numerosi registi italiani e internazionali, sviluppando inoltre una spiccata caratterizzazione comica, soprattutto a partire dai film di Monicelli. Eppure, è proprio l’inespressività del volto dei suoi personaggi nei film del regista ferrarese ad averla trasformata da attrice a icona e poi a diva, bacino di caratteri individuali e collettivi che si fondono all’interno di un’immagine insieme astratta e concreta.

Il processo di trasfigurazione del corpo e dell’individualità dell’attrice verso la sfera simbolica dell’icona è già di per sé parte integrante della parola Ê»divaʼ, cui siamo soliti attribuire la capacità di riflettere una serie di desideri (per lo spettatore) e di processi di identificazione (per la spettatrice). Tuttavia, nell’approfondire il rapporto con l’etimo latino divinum (Bronfen, Straumann 2002), emerge anche un’ontologia singolarizzante, in cui è possibile leggere in modo innovativo il rapporto fra attrice e sguardo. Il significato etimologico di Ê»divinoʼ sembra sopravvivere infatti nella somiglianza che la diva intrattiene con la figura della santa martire, attraverso due opposizioni semantiche: pubblico vs. privato (perché è il pubblico a possedere il loro corpo), esibizione vs. perdita di sé (come effetto mediatico, ma anche fisico nel caso del martirio).

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