4.4. Pinocchio in musica con Jonathan Dove

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The Adventures of Pinocchio (2007) del compositore inglese Jonathan Dove (nato a Londra nel 1959) sono una felice rivisitazione del capolavoro collodiano entrata ormai nel repertorio teatrale, almeno nei paesi anglosassoni: non è l’unica, s’intende, rilettura musicale recente della figura del burattino, perché per esempio una musicista italiana più o meno della stessa generazione di Dove, Lucia Ronchetti, ha vestito di suoni nel 2005 il Pinocchio. Un libro parallelo di Giorgio Manganelli (risalendo nel tempo, si può citare, restando in Italia, anche il Pinocchio di Marco Tutino, 1985); recentissimo è poi il Pinocchio del musicista belga Philippe Boesmans, presentato al Festival di Aix en Provence nell’estate 2017. Jonathan Dove è riuscito a scrivere un’opera che avesse tutti gli ingredienti e le costrizioni del genere senza perdere di vista le esigenze della popolarità, sul versante, affascinante ma anche scivoloso, della destinazione infantile (non scordiamoci che Pinocchio, mille volte seriosamente anatomizzato, è alla fine una favola): l’Inghilterra ama del resto, più di ogni altro paese in Europa, offrire teatro e musica ai bambini [fig. 1]. Ma Dove non è un musicista (solo) per bambini. Ebbe il suo primo successo operistico con una parabola contemporanea volta in incubo kafkiano: Flight (presentato al Glyndebourne Festival del 1998, su libretto di April De Angelis), che rievoca la storia vera di un richiedente asilo iraniano rimasto diciotto anni ‘in transito’ presso il Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi (la vicenda ispirò, indipendentemente dall’opera di Dove, il noto film The Terminal di Steven Spielberg, 2004, con Tom Hanks nella parte dello stralunato protagonista): nella realtà lo sfortunato iraniano fu ‘liberato’ solo nel 2006. Favola certo meno amara, ma non priva di tocchi di surrealtà è quella di Pinocchio, un libro che Dove racconta di aver sempre amato, sin da bambino: non tramite il troppo facile e chiassoso medium disneyano, ma attraverso l’ascolto e poi la diretta lettura di un libro che recava anche vivaci illustrazioni; particolarmente tenaci nella memoria del bambino, e poi dell’adulto, erano rimasti i conigli che portano la bara in casa della fatina, poi la balena, il pescatore-mostro, il grillo parlante, e altro ancora. Memoria visiva dunque [fig. 2], riaccostata dal musicista durante una gita italiana compiuta in età adulta presso il Parco Pinocchio del paese di Collodi, dove si può davvero camminare dentro la celebre storia.

La cifra musicale si avvale di un compromesso musicale tipicamente post-moderno: c’è il ricordo evidente del Britten che arieggia il contrappunto barocco, c’è una memoria jazzistica che sfiora il musical, al modo di Bernstein per intenderci, persino una strizzata d’occhio a certo minimalismo recente: John Adams è del resto uno dei musicisti verso cui Dove ha da sempre dichiarato la propria ammirazione. Il grado di contaminazione si apprezza anche nei particolari: il musicista sceglie di dare per esempio ad Arlecchino e Rosaura recitanti nel teatro di Mangiafuoco movenze più cinesi che veneziane [fig. 3]. Qualche critico ha voluto andare indietro nell’additare modelli, sino all’Hänsel und Gretel del tardo-romantico tedesco Engelbert Humperdinck (1893). Ma ciò non deve far pensare a un eclettismo inerte: l’opera ha una sua unità, musicale e ancor più drammaturgica. Il libretto, composto dal poeta Alasdair Middleton, spesso impegnato in intrecci d’ispirazione folclorica (nel 2006 scrisse, sempre per Dove, un Enchanted Pig suggerito dalla favolistica rumena), riprende brillantemente la tradizione del nonsense, tra Edward Lear e W.H. Auden. Il martellante incipit, che contempla il dialogo tra una voce di mezzosoprano fuori scena (un Pinocchio che imperiosamente vuole nascere dal legno) e un burbero baritono (Geppetto), è un buon esempio di tale strategia espressiva:

Pinocchio
Make me! Make me! Make me!
 
Geppetto
A piece of wood.
That’s good.
I will take it home with me,
throw it on a fire to cook my tea.
 
Pinocchio
Oh no! Don’t burn me!
Turn me in what I want to be!
Make me!
 
Geppetto
Talking good!
That’s no good
wood should not speak.
 
Pinocchio
Make me! Take me home and make me.
Quick

e così via. C’è da osservare, a parte l’insulare tè che viene a sostituire la pentola di fagioli agognata nell’originale italiano da Geppetto, un tocco di metafisico Streben nel futuro burattino, un’impazienza esistenziale a varcare la soglia tra il non essere e l’essere [fig. 4]. Un Pinocchio intellettualistico dunque? Non necessariamente. Il musicista e il suo librettista riescono a trovare un’affabile via mediana tra l’elemento fantastico e un realismo che sfiora la critica sociale: ma il burattino [fig. 5] non è certo un proletario ribelle (come a qualcuno in passato è venuto in mente potesse essere), piuttosto un piccolo borghese dai gusti e dalle paure molto comuni. Ecco come il libretto adopera maliziosamente l’umor nero (o Galgenhumor, umorismo del patibolo) per descrivere la scena dell’impiccagione (capitolo quindicesimo di Pinocchio, che corrisponde a I.6 nell’opera): «Rope’s a thing / I always bring. / It’s give a murder / more of a swing», dove naturalmente swing significa sia ‘oscillazione’ (del corpo morto) sia ‘ritmo’, come l’accompagnamento mimetico degli archi prontamente sottolinea [fig. 6]. Pinocchio riceve un applauso, non si sa se di scherno, da parte del popolino, che volteggia come la folla di un concerto rock ed è per altro ignaro delle paradossali regole d’una giustizia che punisce chi si fa ingannare, non chi inganna (la famosa fola dell’albero degli zecchini):

Pinocchio
Justice!
 
Choir
Justice! Justice!
The wooden boy wants justice!
 
Judge
Pinocchio,
I’ve heard your moving tale of woe.
Outrageous criminality!
Three months for stupidity!
 
Choir
Justice! Justice!
The wooden boy’s got justice!

Altrove il compositore adotta un registro più grave. È il caso ovviamente dell’agnizione nel ventre della balena, con la scelta di un tono quasi marziale, con abbondanza di percussioni [fig. 7]. Questa la soluzione del libretto (in corrispondenza con il capitolo XXV del libro):

Pinocchio
Father father!
 
Geppetto
Found you!
Found you!
 
Pinocchio and Geppetto
Found you at last.
Can it be true?
 
Pinocchio
Father, is it really you?
 
Geppetto
My son, is it really you?

Duetto degli affetti tra padre e figlio, secondo le convenzioni dell’opera seria. Il ritorno sulla spiaggia e il recupero delle forze attraverso il lavoro (la poesia si compiace di sottolineare i pericoli dell’ozio: quasi come in un Rake’s Progress moraleggiante) sono evocati da una sobria orchestrazione in cui gli archi hanno il primato. Il finale è gioioso, a tratti un po’ bombastico, e ci mostra un Pinocchio stupito di trovarsi dentro a una nuova pelle. Stavolta sembra d’essere proprio in un musical, sin nella gestualità del coro (scelta registica, evidentemente), che col dito indica, in complice ammirazione, l’eroe vincente: «Now a real boy, / real flesh, real blood! / A real heart beating inside a real boy, / beating, beating, beating / jumping for joy» [fig. 8]. Essere felice significa far parte del reale («being real is fun»), con Geppetto che recupera la salute e, con ottimismo tipicamente anglo-americano, viene riconosciuto addirittura più giovane di prima: «Father, father / how young you have grown» (più sobriamente in Collodi «il vecchio Geppetto» è «sano, arzillo e di buon umore, come una volta»). Inevitabile che l’impasto di arcaismo vernacolare e di irriverente anarchia, che è proprio dell’originale, si stemperi, a tanti decenni e a tanti chilometri di distanza, in un ottimismo senza contraddizioni. Ci troviamo davanti a un Pinocchio un po’ addomesticato, privo delle punte più urticanti e provocatorie. Un Pinocchio per famiglie? Forse. Ma famiglie, s’intende, disposte a farsi cullare, e anche trascinare, per due ore dall’inesausta inventiva musicale di Jonathan Dove. Cui va il merito d’aver dimostrato, una volta di più, l’intrinseca teatralità delle gesta del burattino.