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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Nella Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini affida a Orson Welles alcune delle sequenze più rappresentative del film, tra le quali, ad esempio, quella in cui Welles, nelle vesti del regista, rilascia un’intervista al giornalista del Tegliesera. Il contributo propone non solo un’analisi dettagliata di tale sequenza, ma ricostruisce anche il rapporto tra Pasolini e Welles alla luce delle collaborazioni mancate tra i due autori, in particolare in relazione ai film del poeta-regista Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e I racconti di Canterbury (1972).

In Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini entrusts Orson Welles with some of the most representative sequences of the film, including, for example, the one in which Welles, in the role of director, gives an interview to the Tegliesera journalist. The contribution not only offers a detailed analysis of this sequence, but also reconstructs the relationship between Pasolini and Welles on the basis of missed collaborations between the two authors, in particular in relation to the poet-director’s films Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) and I racconti di Canterbury (1972).

  Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho però, sia ben chiaro, una prevenzione totale e ciò perché non voglio mai sottoporre la mia attività a delle regole precise, a delle coazioni. Questo mai. Io infatti non soltanto ho usato Anna Magnani, ma anche Orson Welles. […] Per Orson Welles la questione è stata un po’ diversa. È entrato molto meglio nel personaggio perché nella Ricotta ho fatto fare ad Orson Welles in parte se stesso. Ecco, faceva il regista, faceva se stesso, faceva la caricatura magari di se stesso e quindi rientrava perfettamente nel mio mondo (Pasolini 2001a, pp. 2856-2857).

Così, fin dai primi anni della sua attività di regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini si era espresso sui motivi della propria predilezione per gli attori non professionisti, aggiungendo in un’altra, successiva occasione che «la differenza principale è che l’attore ha una sua arte. Ha il suo modo di esprimersi, la sua tecnica che cerca di aggiungersi alla mia – e io non riesco ad amalgamare le due. Essendo un autore, non potrei concepire di scrivere un libro insieme a qualcun altro, e, allo stesso modo, la presenza di un attore è come la presenza di un altro autore nel film».

Nella risposta di Pasolini, si avverte una contraddizione, perché da un lato egli nega l’apporto creativo di un attore che non può mai essere un altro ‘autore’ all’interno del suo film; dall’altra, ammette di avere ‘lasciato fare’ a Orson Welles, che quindi, sulla base delle indicazioni di massima del poeta-regista – che, com’è noto, non dirigeva ogni gesto, ogni intonazione e sguardo dei suoi attori, ma preferiva ‘metterli in situazione’ –, evidentemente ebbe piena libertà di forgiare come voleva il suo personaggio dato che lo plasmò in un modo che piaceva a Pasolini.

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La Carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir è un film che fonde insieme riflessioni su cinema, teatro e arte. Girato in Technicolor e ispirato all’atto unico di Prosper Mérimée (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), è – come lo ha definito lo stesso regista – «una commedia. […] un omaggio all’antico Teatro Italiano, particolarmente a quella forma di teatro detta la Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). Il film mette in campo un’infinita serie di interessanti relazioni tra realtà e finzione finendo col portare sul grande schermo la storia di un’attrice (Camilla), specchio di Magnani, per la quale la vera vita è quella che interpreta nei suoi personaggi (Colombina). Il contributo si concentrasulla grande prova di Magnani-Camilla che, intessendo sul suo corpo il duplice ruolo dell’attrice e della donna contesa in amore che sceglierà alla fine la strada dell’Arte, finisce col creare un doppio gioco tra illusione di verità e attorialità. La sua arte, come accaduto già per altri ruoli, si fonda sull’equilibrio perfetto tra recitazione a teatro e recitazione nella vita al punto da rendere difficile scindere l’attrice dalla donna, divenute ormai corpus unico.

La Carrozza d’oro (1952) is a film by Jean Renoir that combines reflections on cinema, theatre and art. In Technicolor and inspired by Prosper Mérimée’s one-act play (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), it is – as the director himself defined it – «a comedy. [...] a tribute to ancient Italian theatre, particularly to that form of theatre known as the Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). The film introduces an endless seriesof interesting relationships between reality and fiction, ending up by bringing to the big screen the story of an actress(Camilla), a mirror of Magnani, for whom the real life is the one she plays in her characters (Colombina). The contribution focuses on Magnani-Camilla's great performance, who, by weaving onto her body the dual role of the actress and the woman challenged in love who will ultimately choose the path of Art, ends up creating a double game between the illusion of truth and acting. Her art, as in other roles, is based on the perfect balance between acting in the theatre and acting in life, to the point of making it difficult to separate the actress from the woman, who have now become a single corpus.

«Cara Anna, questa è l’ultima forma del nostro racconto-sceneggiato, […] leggila e dammi le tue impressioni. Ti abbraccio. Luchino».[1]Camila. La carrozza del Santissimo Sacramento è il titolo della sceneggiatura firmata nel 1950 da Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Antonio Pietrangeli e conservata tra le carte del Fondo Visconti nell’archivio della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.[2] Cosa resta oggi di quel film mai realizzato – voluto dal principe siciliano Francesco Alliata di Villafranca fondatore, insieme ad alcuni amici, della casa di produzione Panaria Films (1946) – ce lo ricorda Stefano Moretti:

Il progetto di lavorare sulla pièce di Prosper Mérimée[4] si risolse in una fumata nera per Visconti e fu nel 1952 portato a termine da Jean Renoir, che il 28 marzo 1951 riceveva dal produttore Robert Dorfmann un telegramma a cui sarebbe seguito un rapido botta e risposta:

Renoir, all’epoca, era desideroso di tornare in Europa e di fare un film con l’attrice che non esitava a definire «la quintessenza dell’Italia». In una lettera di qualche tempo dopo, indirizzata a Jean Vilar, difatti leggiamo:

1. «La commedia, il teatro e la vita»

Nel 1952 Magnani sale sulla carrozza in puro stile Settecento che i Lanza di Trabia[7]avevano rimesso in moto e trasferito da Palermo a Roma affinché divenisse la protagonista, almeno nel titolo, del film diretto da Renoir: Le Carrosse d’or.[8]

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L’intento del saggio è di fornire una nuova lettura del celebre libro di Emilio Cecchi Messico, osservando in particolare le differenze tra le varie edizioni (1932, 1948, 1958 etc.). Si è ragionato sull’evoluzione dell’assetto del volume, data dall’introduzione di nuovi articoli, dalle ristrutturazioni dell’indice, e dall'espunzione delle 33 foto che corredavano la princeps. Il lavoro di ricerca si è avvalso della consultazione di tutte le foto conservate al Fondo Cecchi presso l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, foto scattate dallo scrittore durante il suo viaggio americano, e solo in minima parte pubblicate. Qui se ne presentano infatti nove, sette delle quali inedite e di grande interesse. L’articolo opera così una riflessione sullo sguardo e sul metodo di Cecchi-fotografo, e sulla sua scelta prima di arricchire il reportage con delle immagini, poi di rimuoverle. Ne deriva un percorso di lettura che affianca, a quelli più noti e già offerti dallo stesso Cecchi - il fil rouge del tema delle maschere, il significato della presenza del cinema muto - un ragionamento sul medium fotografico, di cui a tutt’oggi la vicenda critica cecchiana pareva essere mancante.

This essay provides a fresh interpretation of Emilio Cecchi’s famous book Messico, by focussing on the differences between the various editions (1932, 1948, 1958, etc.). I discuss how the book’s structure evolved from the inclusion of new articles, the restructuring of the index, and the deletion of the 33 photos that accompanied the first edition. My research embraces all the photos in the Cecchi Collection at the Bonsanti Contemporary Archive of the Gabinetto Vieusseux in Florence, photos taken by the writer during his trip to the United States, and published only in small part. Nine are presented here, seven of which of great interest and published for the first time. This article reflects on the eye and method of Cecchi-as-photographer, and on his choice to first enrich his reportage with images, and subsequently to remove them. The result is a process of interpretation that takes its place, along with Cecchi’s more famous and previous ones – within the common theme of masks and the significance of silent cinema – a reflection on the photographic medium that till now has been missing from the range of Cecchi’s criticism

Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.

[…]

Sì” ricominciò Damiana Cisneros. “Questo paese è pieno di echi. Io ormai non mi spavento più. Sento l’abbaiare dei cani e lascio che abbaino. Li lascio fare, perché so che qui non c’è nessun cane. E in certi giorni ventosi si vedono le foglie trascinate dal vento, foglie di alberi, mentre qui, come tu vedi, non ci sono alberi. Ci saranno stati un tempo, perché altrimenti da dove salterebbero fuori queste foglie?

Peggio ancora, è quando senti parlare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura, ma così chiare che le riconosci”.

 

Juan Rulfo, Pedro Páramo, 1955

 

 

 

 

0. Premessa

Messico[1] di Emilio Cecchi è una danse macabre affollata di spettri. Oltre vent’anni prima del capolavoro di Juan Rulfo che avrebbe inaugurato l’epoca, e forse anche la moda, del realismo magico sudamericano, raccontando di un paese tutto popolato da morti, il libro più riuscito di Cecchi, quello che meglio resiste al passare del tempo,[2] sovrappone al Nuovo Continente, che l’amicizia con Berenson e il ruolo di visiting professor a Berkeley gli hanno permesso di attraversare, una peculiare griglia interpretativa, o meglio un fitto reticolo di campi metaforici. Un filtro in virtù del quale un’estrema varietà geografica e culturale – dalla ricca e assolata California agli aridi e selvaggi stati del West, fino al Messico – viene convogliata e sussunta entro una sola, seppur multiforme, catena di maschere funerarie, di località cimiteriali e di apparizioni soprannaturali. Molto prima di Rulfo, si diceva, ma quasi in perfetta contemporaneità con le riprese dell’incompiuto Que viva Mexico! di Ä–jzenštejn (1931-32), che si apre con immagini di mostri e teschi precolombiani.[3]

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Zaches Teatro, compagnia toscana attiva dal 2007 che prende il nome da un racconto di E.T.A. Hoffmann del 1819 (Klein Zaches, genannt Zinnober), ha codificato la sua cifra stilistica lavorando con le maschere, le marionette e altri generi di figure che sin dall’inizio hanno trovato spazio e impiego nelle sue produzioni (One reel, 2006; Faustus Faustus, 2009), ed è a oggi una delle compagnie (ricordiamo anche Riserva Canini e Teatrino Giullare) che più ha sperimentato, in Italia, il teatro di figura, o meglio ‘delle figure’, in tutti i suoi aspetti.

Il teatro russo e i suoi maestri sono stati modello e fonte d’ispirazione per i membri della compagnia. Prima quello fisico dei russi Derevo (compagnia fondata nel 1992 e tuttora diretta da Anton Adasinskij), caratterizzato da un mix di teatro e danza, di pantomima e butho, di performance e arte povera, di clownerie e folclore, che oscilla sempre tra grottesco e visionario; poi quello di Nicolaj Karpov, grande maestro della biomeccanica teatrale. Su questa scia, il lavoro di Zaches, come si legge nella presentazione del gruppo, è «spinto a indagare il connubio tra differenti linguaggi artistici: la danza contemporanea, l’uso della maschera, la sperimentazione vocale, il rapporto tra movimenti plastici e musica/suono elettronico dal vivo». La compagnia risulta pertanto compatta e trasversale allo stesso tempo: ne fanno parte Luana Gramegna (coreografa e regista), Francesco Givone (scenografo, costruttore di maschere e light designer), Stefano Ciardi (compositore, musicista e sound designer) e Enrica Zampetti (dramaturg e interprete).

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E poi, tu credi,

che si possa fare un sogno, non ricordarlo,

e avere da questo sogno, mutata la vita?

P. P. Pasolini, Poeta delle Ceneri

 

 

 

Il sipario si alza su una skenè semi-vuota e ingabbiata da pareti di mattoncini scuri, alte barriere di cemento che delimitano il perimetro claustrofobico di uno spazio/prigione al cui centro si staglia, unico corredo scenografico, il letto dove giace prossima al risveglio la protagonista Rosaura.

Ma già qualche minuto prima dell’apertura del sipario, le «poche parole d’introduzione» di uno Speaker (meta)teatrale immettono gli spettatori nell’atmosfera ambiguamente pasoliniana, a cavallo tra verità e finzione, di questo Calderón per la regia di Federico Tiezzi, e con l’apporto drammaturgico di Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi, al debutto al Teatro Argentina di Roma (20 aprile – 08 maggio 2016). Il dramma di Pasolini qui messo in scena, scritto nel 1966 e dato alle stampe nel 1973, unico testo teatrale pubblicato in vita dall’autore, è considerato il punto stilisticamente più compiuto di quel suo «teatro di Parola» espresso dal compatto corpus poetico delle sei tragedie borghesi. Dal canto suo Tiezzi, non nuovo all’incontro con il macrotesto teatrale pasoliniano (aveva già realizzato nel 1994 Porcile, sempre con Lombardi), ha più volte sottolineato la centralità dello scrittore friulano nella sua formazione poetica e artistica, ma anche politica e morale, precisando poi che «tra tutti i testi di Pasolini, Calderón è quello che è più parte di me».

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Una maschera africana composta da due teste bianche e tondeggianti, una montata sopra l’altra, i cui margini inferiori sono legati ad alcune strisce di corde bianche e a lunghi filamenti di paglia secca che ricadono in basso e dissimulano completamente i lineamenti di chi la indossa, mentre la superficie alta è sormontata da una corona di cespugli radi e anch’essi secchi: questa maschera bicefala diviene, nell'Edipo Re (1967) di Pasolini, il non volto della sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi (nel film Delfo), dalla cui bocca parla il dio Apollo, nella sequenza in cui annuncia al ‘figlio della fortuna’ un destino atroce: «Guardati! Nel tuo destino c’è scritto che assassinerai tuo padre e farai l’amore con tua madre!»

Nella tragedia di Sofocle l’episodio della visita di Edipo al santuario di Apollo è racchiuso nei pochi versi in cui Edipo, a distanza di molto tempo, rievoca il proprio passato alla madre Giocasta:

Pasolini trasmuta l’episodio dal passato al presente e lo racconta seguendo in modo lineare gli antefatti della storia di Edipo (dopo il prologo autobiografico ambientato nel Friuli degli anni Trenta), con non poche e significative innovazioni narrative. Per esempio, inventa lo struggente congedo del giovane da quelli che crede essere i suoi genitori, Polibo e Merope (consapevoli del suo viaggio a Delfo e non ignari, come invece accade in Sofocle). Soprattutto, al momento delle riprese, trasforma in modo radicale la scena dell’Oracolo rispetto a come aveva previsto di girarla nella sceneggiatura. Nel testo infatti leggiamo che il santuario dovrebbe ricordare una chiesa affollata di pellegrini, come una corte dei miracoli, ispirata ai dipinti di Francesco Paolo Michetti. Nella fantasia di Pasolini, com’è noto, le immagini si richiamano spesso alla pittura e forse aveva in mente Il voto (1881-1883) di Michetti, con i credenti fanaticamente allungati a terra, persi nell’ebbrezza della preghiera. Qualche traccia di questa idea rimane nella folla popolare ammassata in attesa del responso nello spiazzo sabbioso e deserto che circonda il santuario, ma Pasolini, al momento di realizzare la scena, ha preferito una folla composta, sotto il presidio delle guardie, dove ognuno attende ordinatamente il suo turno in una calma arcaica e remota.

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Ci sono a nostro avviso due percorsi di lettura per incamminarsi Verso Klee. Il primo è quello che si interroga sui momenti di incontro della poetica di Tam Teatromusica con l’artista. Il secondo tragitto chiama in causa l’opera di Paul Klee, invitando ad una riflessione su un punto nodale e poco esplorato del suo lavoro: il suo rapporto con il teatro.

Se la forte presenza delle arti visive che segna le pratiche e la poetica di Tam Teatromusica sin dall’origine ne connota i lavori a livello strutturale (in termini di composizione, di originale rielaborazione delle citazioni, di impiego della luce come disegno, forma e colore), nella Trilogia della pittura il gruppo padovano, fondato nel 1980, si confronta in modo più esplicito con figure di pittori. Non si pensi però alla ricostruzione del percorso biografico degli artisti scelti, e tantomeno ad una illustrazione della loro opera.

Anima blu (2007) è un’immersione nella pittura di Marc Chagall che fa affiorare in movimento i motivi della sua opera attraverso l’indagine sulle possibilità della ‘pittura di luce’, intrecciando la semplicità del quotidiano all’universo della fantasia e caricando di sonorità le immagini.

Picablo (2011) sin dal titolo pone l’accento sulla personalità multiforme di Picasso, dispiegata secondo un tempo che ricompone in simultaneità le suggestioni di uno sguardo stratificato.

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In un articolo scritto in occasione di una rappresentazione parigina de La locandiera con la regia di Visconti (1956), Roland Barthes sostiene di non riscontrare, in Goldoni, i caratteri tipici della Commedia dell’Arte: i personaggi anticipano e già appartengono, invece, a quella commedia borghese che il binomio Ponzio-Latella si cura, oggi, di far emergere con forza ancora maggiore attraverso un valido tentativo di riconfigurazione dell’ambiguità pura della maschera, secondo una chiave contemporanea che punta all’essenza, seppur complessa, di ciascun personaggio. A proposito delle simbologie tradizionali che attraversano il testo, lo spettacolo sembra rifarsi ancora una volta a Barthes, poiché del simbolo il testo mette in luce la costanza, mentre ciò che varia è la coscienza che la società ne ha e i diritti che gli accorda.

A gestire la tensione tra il palco e la platea, per mezzo di un interfono, è il locandiere Brighella (interpretato da Massimo Speziani): un concentrato di energie, contornato dal frac come da un preciso segno di pennarello. Perduti i rombi colorati del costume, l’Arlecchino di Roberto Latini è vestito del bianco che è la somma di tutti i colori. La sua trasparenza, quella di un prisma rifrangente la luce, è il contrappeso di uno spettacolo tutt’altro che pallido. Il suo corpo è acrobatico, la voce è masticata a fondo prima di essere emessa, articolata in un polifonico, talvolta inceppante, grammelot. Il timone della creazione è nel suo sguardo libero, spietato e penetrante, una lente che sembra ingrandire il senso delle parole del testo laddove si appoggia sulle pagine della sceneggiatura, chiarendole.

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