“Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.
[…]
“Sì” ricominciò Damiana Cisneros. “Questo paese è pieno di echi. Io ormai non mi spavento più. Sento l’abbaiare dei cani e lascio che abbaino. Li lascio fare, perché so che qui non c’è nessun cane. E in certi giorni ventosi si vedono le foglie trascinate dal vento, foglie di alberi, mentre qui, come tu vedi, non ci sono alberi. Ci saranno stati un tempo, perché altrimenti da dove salterebbero fuori queste foglie?
Peggio ancora, è quando senti parlare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura, ma così chiare che le riconosci”.
Juan Rulfo, Pedro Páramo, 1955
0. Premessa
Messico[1] di Emilio Cecchi è una danse macabre affollata di spettri. Oltre vent’anni prima del capolavoro di Juan Rulfo che avrebbe inaugurato l’epoca, e forse anche la moda, del realismo magico sudamericano, raccontando di un paese tutto popolato da morti, il libro più riuscito di Cecchi, quello che meglio resiste al passare del tempo,[2] sovrappone al Nuovo Continente, che l’amicizia con Berenson e il ruolo di visiting professor a Berkeley gli hanno permesso di attraversare, una peculiare griglia interpretativa, o meglio un fitto reticolo di campi metaforici. Un filtro in virtù del quale un’estrema varietà geografica e culturale – dalla ricca e assolata California agli aridi e selvaggi stati del West, fino al Messico – viene convogliata e sussunta entro una sola, seppur multiforme, catena di maschere funerarie, di località cimiteriali e di apparizioni soprannaturali. Molto prima di Rulfo, si diceva, ma quasi in perfetta contemporaneità con le riprese dell’incompiuto Que viva Mexico! di Äjzenštejn (1931-32), che si apre con immagini di mostri e teschi precolombiani.[3]