Leonardo Sciascia critico d’arte: note sulla formazione di un metodo e di uno stile

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The article means to inquire into which forms Sciascia structures his art critical exercise, starting from the check of the sources of his writing. Therefore it focuses on the influence of those authors who had mattered the most in the early years of his self-taught. So the article considers at first the stylistic and methodological heritage of Emilio Cecchi’s critical production, what kind of notions passed in forming a global idea of the art experience; then, it watches at the works of the French thinker Alain, quoted a lot in the Sciascia’s art reviews, in order to understand how they determined some of the choices and evaluations made as critic. After that, the article tries to describe the interior mechanics of Sciascia’s writing, recognizing in her structures the coexistence of a rationalistic trend in the analysis of humans expressions and the action of a sentimental component, the pressure of the emotional root which the work of art comes from that involves as well the critical exercise of the reviewer. For this reason it’s possible to inscribe Sciascia’s art reviewer writing in the category of a «impure» form of rationalism.

Ma rendere la luce/suppone d’ombra una triste metà.

Paul Valéry

Il tuo bagliore è un grido acuto, e il tuo supplizio brucia i nostri occhi.

Paul Valéry

1. È possibile pensare di avvicinare le pagine che Leonardo Sciascia ha dedicato alle «cose d’arte»[1] muovendo dall’intuitiva considerazione del loro essere esercizio di scrittura, un esercizio meccanico e dinamico di messa in forma attorno a dei contenuti specificamente caratterizzati. La stessa produzione saggistica e narrativa sciasciana del resto è particolarmente adatta ad essere interpretata, e da più parti molto opportunamente è stato fatto, nell’ottica della costruzione dell’intreccio, della combinatoria degli elementi (dalle componenti finzionali come i personaggi e la trama, a quelle citazionali come i rimandi intertestuali e le memorie artistico-visuali), della processualità della strutturazione del significato, individuando insomma nel nodo di una scrittura intesa e svolta come tessitura progressiva il suo carattere perspicuo e informante. Tali rilievi di ordine generale, immediatamente verificabili nell’ambito delle prose maggiori, possono essere estesi in certa misura anche per quel versante dell’opera costituito dagli scritti sull’arte, ancora non oggetto di studi complessivi e sistematici pur se sempre più spesso sollecitato all’attenzione dai più attenti esegeti sciasciani.[2] Si tratta di un corpus di pagine, per lo più sparse, estremamente variegato al proprio interno che comprende testi di differente natura e destinazione. Ne fanno parte le numerose presentazioni, note, prefazioni, postfazioni, a cataloghi di mostre o a volumi monografici su artisti; ancora, gli interventi apparsi in quotidiano o in rivista in merito all’opera di pittori, incisori, stampatori, mercanti d’arte, curatori e più in generale a questioni attinenti l’universo delle arti. E se in molti casi si tratta di contributi occasionali, finanche su richiesta, scritti in concomitanza di eventi culturali come mostre ed esposizioni, o di anniversari e ricorrenze, non mancano esempi di elaborazioni più complesse e strutturate, fatti poi confluire nel novero di alcune raccolte edite (si vedano a esempio ne La corda pazza le sezioni intitolate Pitture su vetro, Emilio Greco, Gli alberi di Bruno Caruso; in Cruciverba: L’ordine delle somiglianze, Chaine; Savinio, Guttuso; in Fatti diversi di storia letteraria e civile: Il ritratto di Pietro speciale; I misteri di Courbet, Ni muy atrás ni muy adelante, Odori, Il ritratto fotografico come entelechia), frutto spesso di un’intensa e duratura attività di studio, ricerca e documentazione sull’opera di artisti particolarmente amati e seguiti, stimati spesso sia umanamente che artisticamente. Rispetto al resto dell’opera tuttavia nelle pagine dedicate alle arti emerge ancora con maggiore preminenza la natura di una scrittura come operazione, come esercizio appunto, proprio laddove, invece, sembrerebbe dominante la componente estemporanea e piacevolmente divagante. Perché se da un lato è evidente che l’interesse di Sciascia per le arti, in particolare figurative, risponde a un più vasto e comprensivo atteggiamento di curiosità intellettuale, di felice applicazione della propria intelligenza, dall’altro esso manifesta la necessità di indagare attraverso le diverse forme della ragione e del sentimento articolate dalle varie manifestazioni artistiche, una irriducibile e inesauribile espressione umana, che l’autore cerca di individuare, riconoscere e seguire al modo di una traccia, facendone dato ulteriore di una ricerca (quella stessa che presiede ad ogni sua pagina) sull’uomo posto di fronte alla difficoltà di attingere alla verità della propria esistenza, delle relazioni con il prossimo, del «contesto» naturale e sociale in cui si trova a vivere. Il piacere della scoperta di un’opera o di un artista, dunque, si accompagna a una radicata istanza cognitiva, moralmente intesa (com’è noto secondo gli illustri modelli di Montaigne e degli illuministi francesi), che la concreta pratica della scrittura traduce poi nella costruzione di coltissime simmetrie istituite attraverso l’attivazione di memorie altre, citazioni letterarie e non solo, spesso poste a chiave dell’argomentazione. Ecco allora che la categoria più frequentemente usata per descrivere la fisionomia intellettuale sciasciana, quella del dilettantismo, è la stessa entro cui deve venire inscritto anche l’esercizio critico verso le arti: attraverso di essa infatti è possibile cogliere la compresenza di un impulso appassionato ed istintivo che cerca e trova soddisfazione nell’alterità artistica e formale, e di un fattore di rigoroso approfondimento e di diligente applicazione che rendono la fruizione dell’arte un momento di potenziale immersione totale, insieme emotiva e celebrale. Lo stesso diffuso schermirsi dell’autore, che in più di un’occasione, spesso in apertura delle proprie note sull’arte, non solo dichiara la natura prettamente amatoriale delle proprie osservazioni ma pare altresì voler sottolineare una distanza da un certo modo professionale di fare critica, va posto nel solco di quella categoria, da Sciascia rivendicata in quanto connotativa di una postura complessiva nei riguardi dell’esperienza e artistica e tout-court esistenziale che sente identificante. Per rendersene conto basteranno due brevissimi esempi: la dichiarazione contenuta nella Prefazione al catalogo della mostra di Marco Bardi: «Più di una volta mi sono trovato a scrivere di pittori siciliani: non da critico d’arte, beninteso, ma da uomo che con altri mezzi lavora a rappresentare la realtà siciliana»;[3] e l’inciso contenuto nella breve lettera che postilla il catalogo di Lorenzo Bottari: «Non sono un critico d’arte; e posso anche aggiungere, in coscienza, che non mi intendo di pittura, la mia sensibilità al colore è piuttosto scarsa[…]».[4] Affrontare l’arte da dilettante in ricerca sembra poter garantire la possibilità di attingere liberamente all’opera senza le rigidità limitanti dell’aspettativa dell’ipercompetenza scientifica o delle autoreferenzialità dei mestieranti, ma pure senza l’ingenuità dell’immediatezza gratuita: significa insomma preservare la capacità dell’opera di ‘dirsi’ e di dire, di farsi parlare da chi la incontra.

2. Bisognerà chiedersi allora che cosa cerchi, noti, osservi Sciascia posto di fronte al lavoro dell’arte: e si proverà a comprenderlo e mostrarlo proprio, come si diceva, a partire dall’analisi della forma delle sua scrittura che è segno in cui stanno racchiusi, insieme, ricordo di contenuti, e memoria di un metodo. Interrogare la scrittura nel suo aspetto dinamico significa infatti chiarire quali forze agiscano al suo interno, quali modelli presiedano alla sua costruzione: il metodo di cui parliamo perciò, più che criterio normativo, è postura rammemorante che non contraddice l’amatorialità di fondo della prassi critica sciasciana ma piuttosto ne orienta l’attenzione, ne stimola lo svolgersi. Per rendere efficace questa modalità interpretativa sarà perciò essenziale cercare di individuare quali autori abbiano più contato come agenti formativi dello stile sciasciano e cosa del loro magistero si trovi mutuato negli scritti sull’arte. Su questa via è lo stesso Sciascia a indirizzarci quando, nella Prefazione alla ristampa delle Parrocchie di Regapetra del 1967, dichiara:

[…] debbo confessare che proprio sugli scrittori «rondisti» – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio.[5]

Negli anni della formazione la spinta a confrontarsi con gli esiti letterari più avvertiti sul piano stilistico era certo l’espressione di un’urgenza di reazione ad una condizione personale sentita come restrittiva e bloccante[6] (sintomatico in questo senso è il termine «intimamente»), ma andrà pure notato come tale tensione all’uscita da sé rimanga costante nel dettato sciasciano, delineando il profilo di una scrittura stratificata che mantiene in sé stessa la potenzialità di molte altre. Il modello rondista, evocato in modo esplicito nella Prefazione, viene infatti consapevolmente assunto da Sciascia e assimilato attraverso un «esercizio» di messa in forma del pensiero che dimostra una evidente affinità di gestione sintattica rispetto ai modi cecchiani.[7] Oltre le concrete modalità di articolazione dei periodi e di disposizione argomentativa ciò che di quel modello pare maggiormente essersi impresso in Sciascia e passatogli in eredità è un’idea di fondo che pertiene allo stesso statuto della prosa. Ed è forse Cecchi ad aver riflettuto con più acribia critica sulla natura delle soluzioni letterarie che l’esperienza della «Ronda» aveva espresso. In uno scritto apparso nel 1949 sulla rivista «Immagine», intitolato «Saggio» e «Prosa d’arte» Cecchi parte dalla lungamente dibattuta distinzione tra le forme saggio e gli esiti (propriamente moderni) del poemetto e della prosa d’arte, con le tipiche modalità ampiamente discorsive che li caratterizzano, per arrivare a riconoscerli, molto acutamente, «nella loro instabilità, allotropicità e quasi inafferrabilità».[8] Tuttavia non esita ad ascrivere con sicurezza la propria produzione, e di rimando anche quella dei sodali rondisti, all’ambito del saggio, chiarendo al contempo come specifica qualità di esso sia l’esibire «francamente» le «sue premesse intellettualistiche» quale momento dell’«espressione letteraria». Insomma, attraverso la prosa dei rondisti e di Cecchi in particolare, Sciascia si appropria di quell’opzione latamente saggistica che permette la «cucitura dell’idea con l’immagine»[9]e di più, l’applicazione, l’esercizio della ragione nella disamina dei fatti dell’uomo e del mondo. E subito si comprende quanto questa precoce lezione abbia profondamente influenzato la costituzione di quello statuto ibrido e ibridante dell’opera sciasciana che tale si conferma anche nelle pagine dedicate all’arte. In esse d’altra parte emerge con altrettanto vigore come sia proprio Cecchi l’interlocutore privilegiato da Sciascia anche in ambito di critica d’arte, attività, questa, che lo stesso Cecchi svolse con competenza e tenacia in numerosi contributi (tra recensioni e articoli apparsi in quotidiano, in rivista, in volume)[10] e nell’impegno come redattore e direttore de «La fiera letteraria».[11]

3. Si dovrà cercare ora di chiarire quali siano i termini di tale «intima» interlocuzione. Da attento lettore della pubblicistica cecchiana, Sciascia si induce a pubblicare, nel 1950 sulle pagine di «Galleria»,[12] un Omaggio a Cecchi, che ai nostri fini può rappresentare un reagente estremamente indicativo del rapporto tra i due autori. Sciascia ha modo infatti di soffermarsi su quelle che ritiene siano le componenti peculiari della scrittura cecchiana, gli aspetti della prosa che maggiormente apprezza, i motivi ricorrenti che più lo attraggono. L’interpretazione dell’attitudine critica di Cecchi diventa così per Sciascia un modo di guardarsi allo specchio, e di definire, tra affinità e differenze, anche sé stesso. Ripercorrere alcuni passaggi di quello scritto può risultare in questo senso particolarmente significativo:

ci restava, di Cecchi critico, un senso di squisita avventura; una rivelazione di spazi intellettuali conquistati con una libertà e purezza stevensoniana […]. I suoi libri ci si aprono come atlanti: e i continenti si squarciano in immagini meravigliose. E, come in un atlante, si dispongono le pitture i libri le figure umane di cui ha scritto: cioè nella luce e nel movimento dell’avventura.[13]

Della scrittura di Cecchi viene così ammirata la capacità di mobilitare una pluralità di memorie, di far coesistere, anche attraverso esplicite menzioni e citazioni diversi piani di conoscenza. Ma ancora più rilevante è il modo in cui, secondo Sciascia, ciò si realizza: per via quasi visivo-luministica grazie

a quella particolare qualità che le immagini nella prosa di Cecchi assumono, quasi affiorassero dentro uno spazio di cristallo – terso solido diaccio, sensibile ad ogni minimo evento di luce, carico di sottili rifrazioni. […] Il fatto è che Cecchi opera sulla realtà una preliminare scelta luministica; come il Bagliore diceva di Caravaggio che ritraeva le cose dallo specchio.[14]

Se avevamo mosso dalla necessità di capire cosa dell’opera di un artista colgano i modi della lettura sciasciana, le pagine su Cecchi ci danno una prima importante indicazione. Sciascia infatti, spessissimo, legge nell’itinerario artistico degli autori di cui si trova a parlare l’afflato di un’avventura, che è quella essenzialmente umana dell’individuo che esercita una propria ricerca (così si esprime ad esempio su Gaetano Tranchino di cui dice sia «infine approdato a una pittura sua: originale, coerente, sicura» compiendo appunto «una recherche siciliana. Una pittura europea»),[15]e che realizza sé stesso operando nel proprio distintivo talento. Basti pensare al giudizio su Guttuso, uno dei pittori più attentamente valutati e ampiamente trattati negli scritti sciasciani, a come la sua formulazione sappia utilizzare la memoria di precedenti interpretazioni[16] del pittore siciliano per mettere a fuoco i termini di una vera e propria avventura esistenziale che fonda la capacità significante dell’opera.

La felicità dell’azione, l’avventura, l’avventura di vivere nella pittura, di vivere la pittura come avventura: felicemente e cioè con dolore. L’iniziale atteggiamento morale da cui diramano la felicità dell’azione, l’avventura, il vibrato ritmo dei segni, dei colori. E mai un segno morto, un segno equivoco. Magari l’errore: possibile, frequente anzi. Mai l’insignificante o l’ambiguo, nel disegno di Guttuso, nella pittura.[17]

Ma quello dell’artista non è il solo ordine d’avventura mobilitato da Sciascia: esiste, per converso, l’avventura della fruizione dell’opera, del momento della sua scoperta. Alcuni degli interventi sciasciani sono, in proposito, costruiti secondo una ricorrente ‘sceneggiatura’: vi si trova il racconto dell’autore impegnato in prima persona in una ricognizione documentaria su un proprio particolare oggetto di studio, spesso del tutto altro rispetto alla sfera della rappresentazione visuale, che ‘incontra’, più o meno per caso, il lavoro di un artista, facendone occasione di confronto con la sua ricerca in corso; poste così in parallelo le due «avventure» instaurano una vicendevole interrogazione da cui scaturisce lo stesso senso profondo del loro darsi. Si delinea in questo modo una duplice implicazione che ha importanti ricadute sul piano dei «livelli di realtà»[18] coinvolti, con i quali non solo serissimamente si può giocare attraverso quei meccanismi narrativi borgesiani di svelamento e differimento, a scatole cinesi, molto amati e più volte utilizzati nelle costruzioni romanzesche, ma che pure possono incidere profondamente sulla stessa fisionomia e fisiologia del discorso critico posto in essere. Gli esiti quasi auto-finzionali di una simile postura sono il primo forse più evidente risultato di quel coinvolgimento: ma contemporaneamente c’è pure una relativizzazione dell’oggetto artistico osservato tale da segnare una distanza dalle modalità usuali con cui la critica parla dell’arte, tipicamente descrivendola. Tuttavia, non si tratta qui di un subordinare la centralità del manufatto alla preminenza autoriale dell’osservatore, procedimento questo senz’altro aborrito dallo stesso Sciascia: piuttosto di una messa in combustione che può liberare gli elementi di cui l’opera e insieme il discorso che la racconta sono costituiti per scoprire la possibilità che essi si leghino subitaneamente ad altro, formando composti gravidi di significati inaspettati. L’esempio forse più emblematico di questa complessa dinamica si dà in un acutissimo contributo su Arturo Carmassi:

Entrando nella Galleria 32, nel maggio 1969, mi trovai improvvisamente dentro una di quelle coincidenze che sembrano magiche o sognate – alla Borges tanto per intenderci. Qualcosa di essenzialmente speculare: come se cose estrinsecamente diverse, lontane nello spazio e nel tempo, eludendo spazio e tempo venissero ad un punto – per una sorta di mediazione psichica o mentale – a materializzarsi, a realizzarsi, a specchiarsi, a riconoscersi, a mutuarsi. Io stavo inseguendo un’ombra: un personaggio di difficile, sfuggente e mutevole identità; misterioso, indecifrabile. Un ebreo siciliano (di Girgenti, della Girgenti che sarà poi di Pirandello) del secolo XV che in età di ragione si converte e si fa battezzare cristiano; e prende il nome di colui che lo tiene a battesimo, il conte Guglielmo Raimondo Moncada; e con questo nome si fa prete cattolico, riceve dalla Chiesa beni sottratti alla sua gente, e contro la sua gente li tiene e difende; e poi va a Roma, esperto di lingue orientali in Curia e predicatore di grande fama; e poi, caduto in grave errore, perde lo stato ecclesiastico e i beni; ricompare col nome di Flavio Mitridate, maestro di lingue e cabale orientali a Pico della Mirandola […] Traditore del suo popolo, mistificatore di dottrina (dice Levi della Vida); e anche omicida.[…] Questo personaggio, dunque, questo mondo dove la «de hominis dignitate» si rovescia nella bestialità, la dottrina nella mistificazione; in cui l’avidità e la ferocia si ammantano della fede di Cristo […] questo mondo che da un lato ha il netto profilo di Pico, la sua pensosa bellezza, la sua giovinezza cara agli dei (e cioè alla morte) e dall’altro il supposto ritratto di Flavio Mitridate […] grasso, sensuale, ipocrita, beffardo – questo mondo mi parve si scomponesse come in un prisma e si moltiplicasse in un giuoco di specchi, in quella mostra della Galleria 32 di Arturo Carmassi […]. E per condensare quelle impressioni in una breve definizione: la faccia ferina dell’Umanesimo, l’invenzione della ferinità nell’Umanesimo (e inventare vale, si capisce, trovare). In quell’Umanesimo, ma anche nel nostro. Crediamo di vivere, nella tecnologia o tecnocrazia – o contro tecnologia e tecnocrazia - in un’età umanistica: ma sotto le ideologie che cercano e annunciano «l’uomo umano» ribolle ed urge il magma della bestialità, della violenza. E questo magma Carmassi coglie e raggela nel suo segno […].[19]

La ricerca dell’amatore, la tensione del critico si dà poi anche in Sciascia per quella stessa via luministica attribuita a Cecchi: così la valutazione degli artisti, in molti casi, passa attraverso l’accertamento della resa della luce che diventa perciò elemento di verifica favorito. Invero, porre la luce a criterio di giudizio significa sondare non solo le soluzioni elaborate nell’opera ma pure le intenzioni al fondo di quella particolare rappresentazione, in quanto, appunto, «scelte» preliminari che l’hanno informata. Lo scritto su Giancarlo Cazzaniga ne è dimostrazione:

La giornata di Cazzaniga comincia all’alba. È come nella breve ouverture delle «Storie naturali» di Renard: il cacciatore di immagini. Le immagini sono per Cazzaniga i paesaggi, ma la sua caccia è alla luce: alle variazioni e vibrazioni appena percettibili da un occhio meno addestrato e sicuro e che sulle sue tele, sui suoi fogli, diventano momenti di eclatante – propriamente eclatante – diversità. Tra un appunto e l’altro – appunti d’acquerello, di fronte al paesaggio, dalla stessa finestra – a volte passano pochi minuti: ma gli bastano a registrare gli eventi della luce, la trasformazione dei colori, il fluire delle forme come se diverse e lontane fossero le ore, diverso il paesaggio. L’ho visto più volte dipingere, di fronte all’aspra campagna siciliana: e correndo il mio sguardo dal paesaggio al foglio e al pennello che lo ritraevano, ecco che mi avveniva di riscoprirlo, il paesaggio, di tornare a vederlo come prima non era, quasi stesse accadendo una restituzione, una mutazione, una mutazione; quasi che il paesaggio stesse oggettivamente, in sé, identificandosi attraverso quella veloce operazione di dipingerlo che Cazzaniga veniva facendo.[20]

L’interesse per l’operazione selettiva della luce sulla realtà che le opere incarnano è palpabile persino nei riguardi di una forma di rappresentazione meno comunemente percepita come sintomatica di una relazione diretta con l’istanza luminosa, ovvero la «difficile»[21] arte dell’incisione, di cui Sciascia fu sensibile e appassionato conoscitore. In una bellissima pagina sul raffinato graveur Edo Janich, Sciascia sottolinea come «l’invenzione» delle sue opere si dia «nei giuochi della luce che incontra le linee, i piani, i volumi; nei chiari e negli scuri»;[22]o in un’altra dedicata all’acquafortista Domenico Faro arriva a

simboleggiare nel «nulla» che, dopo l’abbagliante contemplazione del paesaggio siciliano, resta negli occhi, la nera lastra su cui cadranno a scalfirla i segni dell’implacabile luce, la nera luce che solo una punta d’acciaio e la morsura degli acidi sanno dare – la nera luce dell’acquaforte.[23]

Ma forse ancora più interessante è il fatto che Sciascia condivida con Cecchi l’«agile e bizzarra disposizione a cogliere nel meschino frammento di vita una verità inaspettata e profonda»,[24] la stessa disposizione che gli pare anche prerogativa della pittura (come quando nel lavoro di Giuseppe Tuccio vede realizzarsi «una testarda e appassionata volontà di capire, attraverso la pittura, la vita»)[25]e dell’incisione, nelle quali perciò, proprio a ragione di tale attitudine comune, può sperimentare il moto profondo di un riconoscimento. Le opere da cui sembra maggiormente coinvolto sono così quelle in cui più evidente risulta il carattere di momentanea fissazione sub specie formale del più ampio ‘flusso’ esistenziale dell’artista e del mondo stesso. Nella risignificazione contestuale del singolo frammento di vita operata nella rappresentazione dell’arte il dettaglio, nella lettura sciasciana, giunge quasi ad epifanizzarsi schiudendo interrogazioni alternative di senso; o, più semplicemente, l’attenzione per il frammento diventa occasione per svolgere una più generale argomentazione morale, confluendo in quello che appare essere il movimento di un discorso ininterrotto sulla natura del nostro stare sensibilmente e socialmente in un ambiente. La valutazione di un itinerario artistico risulta perciò indissolubilmente legata alla considerazione di una concreta e/o ideale ‘appartenenza’ geografica, dalla quale enucleare la direzione e il senso di un’intera produzione. Lo scritto su Federica Galli, per esempio, è interamente strutturato sulla base di un procedimento ‘simil-genealogico’, in quanto l’evidente peculiarità dell’artista risiede, secondo Sciascia, nel

suo essere lombarda non soltanto nell’oggetto, nella sua inesausta rappresentazione del paesaggio, ma nell’esserlo soggettivamente, nel sentimento, nella cultura. […] È come se la Galli […] ricevesse il crisma del peintre-graveur attraverso la tradizione pittorica lombarda: ma rivissuta per ascendenza di sentimento più che per ricerca volontaria. E verrebbe da fare tutto un discorso sul nord e sugli inverni come humus di questo mezzo espressivo, appartato ed esclusivo che è l’acquaforte.[26]

4. Tuttavia il senso di questo ‘collocare’ può essere compreso nella sua interezza soltanto annoverando tra le forze che determinano la scrittura d’arte sciasciana, oltre al magistero cecchiano, l’acuminata e indocile opera di Alain. Essa esegue invero un esteso contrappunto alle pagine sciasciane e non solo nei termini di molteplici citazioni puntuali irradianti l’argomentazione, ma come riflessione complessiva sull’esperienza artistica in quanto tale. Quella verso Alain è in prima battuta un’attrazione stilistica nei riguardi di una particolare messa a punto espressiva, l’elaborazione intelligente e originale di una misura globalmente unitaria che investe oltre l’estensione, breve, il tono, la gamma tematica, le finalità discorsive: è la «forma delle meditazioni», come già Izzo suggeriva,[27] dei Propos, che delineano insieme a un ‘modo’ (vicino a quello sciasciano che ‘divaga’ a partire dal dettaglio occasionale, che già abbiamo avuto modo di descrivere), un preciso orizzonte d’intervento intellettuale, che fa del saggismo uno strumento di azione, dibattito, informazione e stimolo al cambiamento. In seconda istanza però, soprattutto per quanto attiene agli scritti sull’arte, è il merito del pensiero di Alain con la sua insistenza sulla componente attiva del processo creativo, con la sua idea di un’arte come azione, lavoro, integralmente partecipe della vita emotiva, corporea, e cognitiva dell’artista a costituire motivo di interesse per Sciascia. Secondo Alain la «verità» dell’arte «non è separata» dal soggetto che la conosce in quanto «l’elemento immaginario non è nell’immagine, cioè nella conoscenza che si ha di un oggetto, ma piuttosto nell’emozione, cioè in una forte e confusa reazione di tutto il corpo, improvvisamente messo in allarme».[28] È dunque la verità del «particolare punto di vista»,[29] strettamente dipendente dalla realtà fisico-passionale dell’individuo:

I nostri movimenti, in questo mondo dove passiamo, lasciano piuttosto l’impronta incavata delle nostre passioni […]. Pure si può dire che questi movimenti sono l’elemento reale dell’immaginazione, creano, e creano secondo due condizioni: la prima è la forma e la struttura del nostro corpo […]; la seconda è la forma e la resistenza dei corpi circostanti[…]. Certi oggetti, in date arti, rappresentano così una specie di forma incavata lasciata dall’azione umana […]. In tutti questi casi il pensiero trova l’oggetto. Esso pensa per mezzo di questi segni, ad un’altra cosa non più presente: esso immagina, nel senso che allora diviene testimone dell’invenzione. […] E il principio delle arti sarebbe che il pensiero non inventa, poiché è il corpo, cioè l’azione che inventa.[30]

Il ‘collocare’ a cui Sciascia tende allora è una verifica delle relazioni, un porre l’opera nella viva carne dell’esistenza personale di chi l’ha creata, nel tentativo di accedere al magma immaginativo-passionale da cui quelle forme sono state separate. Ad ogni pagina le considerazioni stilistiche, il giudizio estetico mutano, spesso con un colpo di coda finale (non estraneo ai modi del fulmen in clausula), nel disvelamento dell’«inconsumabile»[31] nucleo generativo di una particolare verità psichica («l’angoscia» nella celebre lettura dell’opera di Guttuso[32]) o storica (il «delirio d’immobilità» dell’umanità di Migneco[33]) che abita e anima l’artista, il quale solo nella pratica dell’opera si è reso capace si renderla agibile, di darle voce. Sciascia è un sensibilissimo ascoltatore di questo sotterraneo controcanto, singolarmente abile poi nel ritrarlo e descriverlo. Ciò che l’autore persegue infatti non è tanto, o almeno non prioritariamente, una resa verbale, propriamente ekphrastica, del dato iconico dell’oggetto artistico: piuttosto la narrazione che viene a svolgersi vuole ritrarre le premesse di quel dato, i contenuti simbolici che in esso sono trasfigurati. A farne prova basterà un passaggio di un suo scritto sul peintre-graveur altoatesino Karl Plattner:

E così credo si possa definire il mondo di Plattner: senza grazia e che aspira alla grazia, senza idillio e che aspira all’idillio; sicché quando di grazia e idillio affiora qualche segno, eccolo tramutato – per incongruità, per dissonanza – in follia […]. La solitudine la paranoia, una sensualità scavata e mortificata (mortificata anche nel senso di un arrivare alla morte), un mascherarsi, un non riconoscersi, un gioco di beffe esistenziali, di assenze, di consunzioni, di metamorfosi che stanno per consumarsi: ecco quel che ci viene incontro dalle incisioni di Plattner. Sono le vertebre, le ossature, le trame delle sue pitture […].[34]

Il fondo passionale su cui Alain pone l’esercizio dell’arte, quindi, fa sì che l’espressione formalizzata sia da lui ricondotta ad una funzione regolatrice, normalizzatrice e catartica, secondo una concezione di indiscutibile ascendenza classica in cui però deve essere intesa un’accezione più concretamente fabbrile, esecutiva. Secondo Alain nel lavoro dell’arte l’idea, la possibilità stessa della rappresentazione non possono andare disgiunte dalla sapienza tecnica, manuale e artigianale che le fa essere, nei termini di un rapporto non meramente servile-attuativo, ma piuttosto di reciproca interdipendenza co-creativa:

È bello che si dica ancor oggi «l’arte del carpentiere, l’arte del fabbro». Le belle arti devono essere prima di tutto arti: se vogliono essere soltanto belle, non sono più niente. Quanto più la loro materia è resistente, tanto più riescono a toccarci. […] L’operaio porta l’artista.[35]

Si comprende allora che se l’incisione è tanto altamente valutata da Sciascia è proprio perché in essa è possibile fare esperienza di un’arte estremamente vincolata da necessità e contingenze tecniche che impongono una regola alle istanze espressive, in cui però il vincolo artigianale dell’esecuzione non è né solo strumentale né solo limitante ma una sorta di polo dialettico nella più complessa realizzazione dell’opera. Esprimersi nel e del proprio mezzo è peculiarmente la natura di ogni arte: ciò che nell’incisione è ancora più marcatamente rilevato però è che solo un saldissimo mestiere (l’esposizione alla morsura degli acidi, l’uso del bulino, ecc.) può compiere ciò che la mente pre-vede.[36]

5. Sciascia dunque segue molto da vicino Alain nella considerazione del lavoro dell’arte come operazione di purificazione, decantazione, «secrezione mentale»:[37] l’esperienza di alcuni artisti è addirittura letta nei termini di un’ascetica rarefazione di percezioni emotive disordinate, data attraverso un’immersione sensoriale e un coinvolgimento esistenziale ‘interi’, totali.[38] Ed è facile cogliere in tale preferenza al rilievo della componente ‘catartica’ della formalizzazione artistica l’eco della più vasta istanza razionale e razionalizzante tipica del profilo intellettuale di Sciascia. Quello che però gli scritti sull’arte paiono riuscire a mettere ulteriormente a fuoco, rispetto al resto dell’opera sciasciana, è il carattere «impuro»[39] di quel razionalismo, il suo essere compromesso con l’esistenza, con la sua imperfezione, il suo caos, e insieme riscattato da essa, dal suo costituire il flusso vitale stesso da cui vengono tratte sia le forme dell’arte sia i discorsi che le raccontano. Ciò non è estraneo, come si accennava, alla consapevolezza che anima anche la restante produzione: ma forse mai come in questi scritti il moto delineato da quel razionalismo è tanto oscillante. È come se ad ogni istante le priorità (e le polarità) potessero rovesciarsi, e lo stesso momento della formalizzazione si scoprisse passibile di dissolvimento. Se infatti l’implicazione di un ordine emozionale nella fruizione dell’opera comporta delle aperture del ragionamento alla registrazione di effetti sentimentali, come la gioia della scoperta o l’apprezzamento empatico, altrettanto il coinvolgimento totale dell’artista che crea, che vive nella propria arte sperimentandone la passione, ovvero la pulsione di piacere e di angoscia che la determina, condiziona e influenza la lettura dell’interprete-amatore sollecitandola alla presa d’atto di contenuti insofferenti ad essere disciplinati. Questo perché ad animare lo sguardo che Sciascia rivolge al lavoro dell’arte è quell’idea di matrice stendhaliana per cui l’esperienza artistica è un esercitare nel diletto che non esclude «la ricerca, l’inquietudine, il travaglio»: la «sfera di “divertimento”» di «gioco esistenziale»[40] per entro cui si dà delinea insomma un campo di tensioni a motivo delle quali il divertimento può essere ambiguamente diversivo, e il gioco può darsi con implacabile intransigenza. La felicità dell’esercizio dell’arte sta allora sempre «in arduo e strenuo equilibrio sul filo dell’infelicità» per l’artista innanzitutto, ma pure per l’altrettanto ‘dilettante’ amatore che questa contraddizione riconosce nell’alterità dell’opera e nel suo stesso rapportarsi ad essa con un procedere che è insieme necessariamente e analitico e impulsivo.

È questo allora l’aspetto propriamente meccanico della scrittura sciasciana sull’arte: lo strutturarsi del parallelo tra la duplicità conversa dell’idea dell’esperienza dell’arte come avventura, e la doppia valenza del dilettantismo, che è insieme dell’artista e del critico, e, ancora, dell’oscillazione permanente tra ragione ed emozione.


1 F. Izzo, Come Chagall vorrei cogliere questa terra, in V. Fascia, F. Izzo, A. Maori (a cura di), La memoria di carta. Bibliografia delle opere di Leonardo Sciascia, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1998, p. 193. La sezione curata da Izzo, corredata da illuminanti pagine introduttive, fornisce un documentato e amplissimo censimento degli scritti sull’arte sciasciani.

2 Oltre alla fondamentale ricognizione di F. Izzo, Come Chagall vorrei cogliere questa terra, cit., va rilevato come nel corso degli ultimi anni siano apparsi in merito contributi altrettanto interessanti e utili, come ad esempio P. Nifosì (a cura di), La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, Comiso, Salarchi Immagini, 1999; o ancora L. Spalanca, Leonardo Sciascia. La tentazione dell'arte, Caltanissetta, Sciascia, 2012.

3 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in Mario Bardi. Catalogo, Palermo, Galleria La Robinia, 1968, s.n.p.

4 L. Sciascia, Lettera a Bottari: Palermo 8 aprile 1986, in Lorenzo Maria Bottari. I casi dell’amore, Fasano di Brindisi, Skema, 1986, p. 7.

5 L. Sciascia, Prefazione, in Le parrocchie di Regalpetra, Roma, Laterza, 1967, ora in Id., Opere [1956.1971], Milano, Bompiani, 2004, p. 4.

6 Come ricorda lo stesso Sciascia: «ho passato i primi vent’anni della mia vita dentro una società doppiamente non libera, doppiamente non razionale. Una società-non società, in effetti. La Sicilia di cui Pirandello ha dato la più vera e profonda rappresentazione. E il fascismo. E sia al modo di essere siciliano sia al fascismo ho tentato di reagire cercando dentro e fuori di me (e fuori di me soltanto nei libri) il modo e i mezzi. In solitudine. E dunque, in definitiva, nevroticamente» (C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere [1956.1971], cit., pp. LI-LII).

7 La quale pertanto è descrivibile attraverso quanto Mengaldo ha osservato nell’analisi della prosa d’arte cecchiana «che sembra in genere vivere della coesistenza, e alternanza, di continuo e discreto, di periodi lunghi, subordinativi e frasi o periodi brevi incastrati fra due punti che, soprattutto se collocati in posizioni chiave come l’inizio o la fine di paragrafo, acquistano valore e rilievo proprio dalla loro brevità» (P. V. Mengaldo, Una primizia di Cecchi critico, in Id., Tra due linguaggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 85).

8 E. Cecchi, «Saggio» e «Prosa d’arte», «Immagine», II, 11, gennaio-febbraio 1949, pp. 9-14, e 13, maggio-giugno 1949, pp. 213-218, ora in Id., Saggi e viaggi, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1997, p. 336.

9 Ivi, p. 323.

10 Cfr. E. Cecchi, Note d’arte a valle Giulia; Roma, Nalato, 1912. Mengaldo (in Una primizia di Cecchi critico, cit., p.78) ricorda come il volume raccogliesse saggi usciti per la quasi totalità sulla rivista il «Marzocco».

11 Sulla collaborazione di Cecchi alla rivista si veda L. Ghidetti, Cecchi critico d’arte e «La Fiera Letteraria» (1925-1926). Il carteggio inedito con Umberto Fracchia, «La Rassegna della Letteratura Italiana», 1, 2002, pp. 113-174.

12 Sciascia collaborò assiduamente alla redazione della rivista «Galleria» dell’editore nisseno Salvatore Sciascia, e dal 1954 al 1959 ne fu il direttore. La rivista sottotitolata «rassegna bimestrale di cultura» voleva mantenersi attenta anche nei riguardi di ambiti non strettamente letterari. Ecco allora l’apertura verso le arti, la filosofia, la sociologia, ecc., e i loro esiti contemporanei.

13 L. Sciascia, Omaggio a Cecchi, «Galleria», II, 4/5/6, agosto 1950, pp. 192-193.

14 Ivi, p. 193.

15 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in G. Tranchino, Catalogo della mostra, Milano, Galleria Tondelli, 1974, s. n. p.

16 Sciascia menziona una presentazione su Guttuso, «presumibilmente scritta da Maccari» apparsa su un «vecchio numero del Selvaggio» che definiva «onesta» l’opera di quegli: «d’un iniziale atteggiamento morale, a cui il pittore deve in gran parte la felicità dell’azione, la padronanza dell’avventura, il ritmo vibrato della scrittura».

17 L. Sciascia, La semplificazione delle passioni, in Catalogo della mostra antologica dell’opera di Renato Guttuso, Palermo, 1971, p. 16.

18 M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, «Contemporanea»,3, 2005, p. 20.

19 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in G. Gazzaneo (a cura di), I due soli. Verità e bellezza nell’arte, una galleria a Milano 1963-2000, Firenze, Vallecchi, 2007, pp. 147-148.

20 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in G. Cazzaniga, «Ricordo d’estate». 1975-1980, Milano, 1981, p. 5.

21 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in E. Janich, Les automates, Palermo, Sellerio, 1974, p. 11.

22 Ivi, pp. 10-11.

23 L. Sciascia, [Presentazione], in D. Faro, Cinque acqueforti, Venezia, Corbo e Fiore Editori, 1982, p.7.

24 L. Sciascia, Omaggio a Cecchi, cit., p. 193.

25 L. Sciascia, [Presentazione], in Giuseppe Tuccio. Catalogo della mostra, Caltanissetta, Galleria d’arte Cavallotto, 1966, s. n. p.

26 L. Sciascia, Federica Galli, in «Corriere della Sera», Milano, 11 dicembre 1985, p.3.

27 F. Izzo, Come Chagall vorrei cogliere questa terra, cit., p. 194.

28 Alain, Venti lezioni sulle belle arti, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1953, p. 49.

29 «è la verità del momento; dunque contemporaneamente la verità del modello, la verità dell’Universo, attraverso le luci e i riflessi, e la verità del pittore. Poiché, come la forma apparente e la prospettiva non appartengono all’oggetto, ma esprimono un rapporto tra l’oggetto e me, il colore non è più inerente alla cosa; esso dipende dalla sorgente luminosa, dagli ambienti attraversati, dai riflessi dei colori circostanti […] La pittura rifiuterebbe dunque l’essere separato; essa sarebbe naturalmente cosmica» (ivi, p.183).

30 Ivi, pp. 56-57.

31 L. Sciascia, Ai pochi felici, «Nuovo Sud», X, 3-4, settembre-ottobre 1975, p. 26.

32 «L’agonia della vita che lotta contro se stessa» (L. Sciascia, Guttuso, in Id., Opere [1971.1983], Milano, Bompiani, 2004, p. 1209).

33 L. Sciascia, Le ragioni della fuga, «Kalós», IX, 2, marzo-aprile, 1997, p. 46.

34 L. Sciascia, Un peintr-graveur, in P. Bellini, Plattner. Catalogo dell’opera incisa e litografica 1959-1979, Milano, Club Amici dell’Arte Editore, 1980, p. 8.

35 Alain, Arte e materia in Id., Cento e un ragionamento, Torino, Einaudi, 1960, pp. 120-121.

36 Cfr. L. Sciascia, [Nota senza titolo], in E. Janich, Les automates, cit., p.11: «Perché questo è il vero incisore: lo sviluppare mentalmente ogni segno, il percepire immediatamente l’affiorare del negativo e il passaggio dal negativo al positivo – e insomma vedere ogni segno che traccia sulla vernice o sulla lastra nuda come quando uscirà, da sotto il torchio, sul foglio».

37 L. Sciascia, [Presentazione], in M. Francesconi, Dipinti e incisioni, Firenze, Edizioni Galleria Pananti, 1976, s. n. p.

38 «E l’acquaforte, il farla, si direbbe comporti invece una condizione di solitudine, una disponibilità di tempo, un’assiduità e meticolosità di lavoro, una riduzione di sogni materiali da far pensare quasi a una monasticità e comunque a un “ritiro”» (L. Sciascia, [Presentazione], in Nunzio Gulino. Catalogo della mostra, Palermo, Galleria Arte del Borgo, 1973, s. n. p).

39 Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti, 1996.

40 L. Sciascia, [Nota senza titolo], in G. Tranchino, Catalogo della mostra, cit., s. n. p.