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Il saggio indaga in che modo lo sguardo pittorico di Tommaso Pincio si riverbera sulla sua scrittura, agendo sottotraccia come una presenza fantasmatica. Infatti, la prosa di Pincio è caratterizzata dalla coesistenza di due anime, il pittore mancato e lo scrittore acquisito, che non cercano di raggiungere un improbabile equilibrio ma continuamente convergono e divergono tra loro. Queste oscillazioni generano una proliferazione di attriti creativi, che consentono di sperimentare diverse modalità di interazione tra parola letteraria e immagine. In particolare, nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018) lo scrittore ha trovato nella figura multiforme di Caravaggio – che da sempre lo ossessiona – lo specchio per osservare le proprie idiosincrasie e anche per indagare l’ipocrisia della società contemporanea.   

The essay investigates how Tommaso Pincio’s pictorial gaze affects his writing as a ghostly presence underlying the textual surface. Pincio’s prose is characterised by the coexistence of two souls, the failed painter and the acquired writer, who do not seek for an impossible balance but constantly converge and diverge. These oscillations generate a proliferation of creative frictions, which enable the experimentation of different interactions between literary word and image. In particular, in the novel-essay Il dono di saper vivere (2018), Pincio represents the multifaceted figure of Caravaggio – which has always obsessed him – as a mirror to observe his own idiosyncrasies and to investigate the hypocrisy of contemporary society. 

 

Nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018), il personaggio protagonista della prima parte del libro ricorda di quella volta in cui, durante una gita scolastica alla Galleria Borghese a Roma, i compagni di classe si rendono conto improvvisamente della somiglianza tra il suo volto e quello del Bacchino malato (1593-94), estendendo il sarcastico soprannome con cui lo identificano, ovvero il Melanconia, anche al quadro di Caravaggio, nel quale il pittore si è autoritratto dopo una lunga malattia. L’ombra del pittore lo perseguita fin dall’adolescenza: si tratta di un rispecchiamento che è anche una condanna, perché tutte le scelte sbagliate del personaggio che narra la propria storia dalla galera sono in qualche modo legate alla figura del pittore lombardo, il Gran Balordo.

Senza confondere questo personaggio con la biografia dell’autore, è possibile affermare che Tommaso Pincio – pseudonimo di Marco Colapietro – sia da sempre ossessionato dalla figura di Caravaggio, alla ricerca della radice profonda della sua arte, di quello sguardo sul mondo intriso di originalità e malinconia. Tale ossessione è in realtà l’emblema di quella più ampia che lo scrittore nutre nei confronti dell’immagine pittorica, che caratterizza tutta la sua opera dagli esordi narrativi fino agli esiti più recenti: la complessa e mai pacificata relazione tra arte e letteratura è il fulcro della sua scrittura. Di certo, grazie alla formazione ricevuta presso l’Accademia di Belle Arti di Roma egli possiede una conoscenza puntuale delle differenti tecniche artistiche che – pur avendo rinunciato alla strada della pittura – incide significativamente sul suo modo di guardare l’arte e il mondo circostante. Inoltre, va aggiunta l’esperienza lavorativa tra gli anni ’80 e ’90 presso le sedi di Roma e New York della Galleria d’arte internazionale di Gian Enzo Sperone, il gallerista torinese che ha avuto il merito di promuovere alcuni tra i più significativi movimenti artistici italiani del secondo Novecento, quali l’Arte Povera – così definita da Germano Celant – e la Transavanguardia – ideata da Achille Bonito Oliva. Pincio si trova a frequentare artisti italiani e internazionali, sperando di poter fare parte di quel mondo, ma allo stesso tempo comincia a scrivere d’arte, elaborando un proprio stile di scrittura tra critica d’arte e narrativa.

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In questo saggio tratterò della costruzione da parte di Tommaso Pincio del proprio spazio autobiografico attraverso le sue opere. In primo luogo, analizzerò il suo Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) del 2012, mostrando come in generale i suoi riferimenti autobiografici siano più elusivi che diretti. Nel secondo e nel terzo paragrafo affronterò il plot ricorrente di Marco Colapietro – nome anagrafico dell’autore – che, dopo aver fallito come pittore, imbocca la strada della scrittura letteraria con l’identità di Tommaso Pincio. Il plot si trova al cuore di lavori ibridi caratterizzati da una sfaccettata commistione di autobiografia e saggio, come Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) e Scrissi d’arte (2015), ma allo stesso tempo costituisce la soggiacente cornice di Cinacittà (2008) e Il dono di saper vivere (2018). Dopodiché, prenderò in esame l’esordio M. (1997), in cui ha luogo una nascita alternativa di Tommaso Pincio come personaggio. Dato che qui Tommaso Pincio è rappresentato come uno stencil con uno specifico e immutabile «programma di determinazione motivazionale», la mia idea è che i protagonisti delle prime opere di Tommaso Pincio siano una sorta di ‘programmatica prefigurazione’ del successivo plot ricorrente dell’artista fallito. Nell’ultimo paragrafo, infine, suggerirò che Il dono di saper vivere possa aprire un nuovo percorso nella produzione letteraria di Tommaso Pincio, che superi il suo ‘plot programmato’.

In this paper I will dwell upon Tommaso Pincio’s construction of his autobiographical space through his works. First, I will analyse his 2012 Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) assuming how in general his autobiographical references are more elusive than direct. In the second and third sections I will tackle the recurrent plot of the talentless Marco Colapietro – the author’s real name – who after failing as a painter embraces the path of literary writing as Tommaso Pincio. This plot is at the core of hybrid works characterised by a multifaceted mixture of autobiography and essay, such as Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) and Scrissi d’arte (2015). At the same time, it is also the underlying frame of Cinacittà (2008) and Il dono di saper vivere (2018). Then, I will examine the debut work M. (1997), where Tommaso Pincio’s alternative birth as a character takes place. Since here Tommaso Pincio is depicted as a stencil with a specific and unchangeable «program of motivational determination», my view is that the protagonists of Tommaso Pincio’s early works are a sort of ‘programmed prefiguration’ of the following recurrent plot of the failed artist. In the last section I will eventually suggest that Il dono di saper vivere may open a new path in Tommaso Pincio’s literary production, going beyond his ‘programmed plot’.

 

 

Per quanto l’apparato critico che accompagna il lavoro di Tommaso Pincio sia ormai cospicuo, la quasi totalità degli interventi riguarda singoli testi o specifici aspetti della sua produzione: la decostruzione del concetto di realtà, la propensione ucronica e distopica, la pratica della metalessi, l’eziologia dello pseudonimo, nonché i molteplici riferimenti al mondo dell’arte, del cinema, del fumetto e della visualità nel suo complesso, incluso un arguto utilizzo delle piattaforme social.[1] Manca ancora uno studio che, tenendo insieme le diverse componenti del suo immaginario, fornisca un’interpretazione complessiva dell’autore – e la cosa non stupisce visto che un simile lavoro richiederà tutt’altro che scontate competenze interdisciplinari e comparatistiche, in grado di abbracciare non solo letterature diverse, ma anche i vari ambiti culturali sopra menzionati, declinati, peraltro, a partire dalla passione per la fantascienza, nell’orizzonte del midcult e della popular culture.

Dato che non è possibile cimentarsi qui in un’indagine a tutto tondo su quello che, parafrasandone l’attitudine citazionale, si potrebbe – almeno in via provvisoria – definire l’enciclopedismo postmoderno di Tommaso Pincio,[2] mi limiterò ad abbozzare un percorso di lettura focalizzato sulla centralità che lo spazio autobiografico e, in particolare, il «destino del mancato artista»[3] rivestono nell’opera dello scrittore.

 

1. Lo spazio autobiografico

Sebbene meno fortunato del pacte autobiographique, anche lo spazio autobiografico è un concetto che si deve a Philippe Lejeune, che l’ha proposto in un saggio dedicato ad André Gide per indicare «una strategia che mira a costruire la personalità attraverso i più diversi giochi della scrittura».[4] Diversamente dal patto, che poggia sulla convenzione di genere dell’identità di protagonista, narratore e autore, lo spazio autobiografico presuppone una maggiore tensione interpretativa da parte del lettore: questi deve essere pronto a raccogliere e a mettere tra loro in comunicazione i segnali autobiografici, allusi o dichiarati, che l’autore ha distribuito nella sua opera. Se ancora di patto vogliamo parlare, pertanto, dovremo farlo nei termini di una contrattazione tramite cui il lettore implica l’autobiografia dell’autore nell’orizzonte (testuale) di un’incalzante dialogicità ermeneutica.

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Il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, grazie alle iniziative editoriali e culturali che mettono a fuoco la passione dello scrittore per il cinema, la fotografia e le arti figurative, costituisce un’occasione per fare un bilancio degli studi dedicati al suo rapporto con la cultura visuale. Il presente saggio, partendo dalle varie iniziative celebrative, prova a verificare la fecondità di un metodo, quello dei visual studies, capace di illuminare l’opera di Sciascia da una prospettiva inedita e originale.  

Leonardo Sciascia’s Centennial is an opportunity to assess the state of the field pertaining the research into his relation with visual culture, thanks in particular to the many editorial and cultural initiatives focusing on his passion for cinema, photography and figurative arts. This essay's starting point are the anniversary's celebrative events, and its aim is to gauge the fertility of visual studies' methodology, in order to shed an original and innovative light on Sciascia's work.  

 

L’8 gennaio 2021 Leonardo Sciascia avrebbe compiuto cent’anni. Il nuovo anno si apre dunque all’insegna di mostre, eventi, pubblicazioni e articoli sui quotidiani dedicati alla celebrazione di questo importante ‘compleanno’. Una parte consistente di queste iniziative commemorative insiste significativamente sui rapporti dello scrittore con le arti visive invitando, proprio chi attraverso lo speculo di questa relazione intermediale si è occupato di Sciascia in passato, a una verifica della fecondità di un metodo che una decina di anni fa era apparso come la migliore via per studiare una delle personalità più affascinanti della letteratura contemporanea, sfuggendo a una serie di ipoteche che sembravano ormai ingabbiarlo dentro un’immagine stereotipica, in primis quella dello scrittore siciliano esperto narratore di ‘cose di cosa nostra’. Si coglie dunque questa importante ricorrenza come occasione per un bilancio delle ricerche e degli studi visuali dedicati a Sciascia, compiuti in collaborazione con studiose, incontrate anche grazie ai comuni interessi sciasciani, che fanno parte della redazione di questa rivista fin dalla sua ideazione (come Mariagiovanna Italia e Simona Scattina) che è nata – ci piace ricordarlo – nel 2013 con un esplicito omaggio alla passione dello scrittore per le arti figurative. Nel primo numero era infatti contenuto un focus intitolato Considerazioni sul mondo visibile. L’alfabeto della pittura di Leonardo Sciascia volto ad offrire una campionatura dei temi e degli artisti su cui si è posato il suo sguardo, inaugurando una rubrica che rimanda sin dal titolo alla frequentazione sciasciana delle gallerie. Il momento della fruizione dell’arte è stato infatti per lui sempre situato in luoghi di ritrovo e di discussione e la dimensione militante che si coglie in molti suoi articoli nasce dall’esperienza in presa diretta degli spazi di elaborazione intellettuale in cui si formano i pittori di cui scrive, come lo studio romano di Bruno Caruso, in via Mario de’ Fiori, e le gallerie palermitane Arte al Borgo, gestita da Eustachio e poi da Maurilio Catalano, o La Tavolozza di Vivi Caruso. Alle gallerie reali, del resto, nel suo immaginario si sovrappongono quelle ideali: non è un caso se la rivista fondata insieme a Mario Petrucciani e Jole Tornelli, da lui diretta a partire dal 1950, sia denominata appunto «Galleria» e dedichi diversi numeri speciali ad artisti come Caruso (1969), Maccari (1970), Guttuso (1971), Migneco (1972), Mazzullo (1972), Clerici (1988).

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Sono centoundici i volumi monografici che compongono la collana I Classici dell’arte, editi dalla casa editrice Rizzoli tra il 1966 e il 1985. Ognuno di essi reca in apertura una presentazione dell’opera e dell’artista che in molti casi reca la firma di celebri autori della nostra letteratura contemporanea. Questo contributo si pone come un primo tentativo di classificazione delle differenti modalità di approccio messe in atto da letterati e poeti alle prese con la scrittura critica: partendo dall’individuazione di tre macrocategorie testuali si è proceduto con l’analisi degli aspetti micro-stilistici (dunque retorici, sintattici e grammaticali) e contemporaneamente sono state rilevate le analogie tematiche e formali riscontrabili tra scrittore e artista trattato.

The series I Classici dell’arte is composed by one hundred and eleven monographics, published by the publishing house Rizzoli, between 1966 and 1985. Each of them opens with a presentation of the the artist and his work, that in many cases bears the signature of famous authors of our contemporary literature. This contribution is a first attempt to classify the different methods of approach implemented by writers and poets dealing with critical writing. Starting from the identification of three textual macro-categories, we procedeed with the analysis of the micro-stylistic aspects (such as rethorical, syntactic and grammatical) and at the same time we observed the thematic and formal analogies found between the writer and the artist.

 

Tra il 1966 e il 1985 la casa editrice Rizzoli pubblica nella collana I Classici dell’Arte centoundici volumi monografici dedicati ad una selezione dei nomi più importanti della pittura europea, dai prodromi del Rinascimento italiano (Duccio, Giotto, Martini) sino ad artisti quali Toulouse-Lautrec, Schiele, De Chirico.

Particolarmente felice la scelta editoriale per cui in apertura di ogni volume la presentazione dell’artista e delle opere è affidata, talvolta sì a critici d’arte di professione, ma molto spesso a firme celebri della letteratura italiana del Novecento, istituendo una sorta di parallelo tra i grandi classici delle due arti. Oltre agli esempi indagati dal presente contributo (Flaiano e Paolo Uccello, Buzzati e Bosch, Ungaretti e Vermeer, Testori e Grünewald, Morante e Beato Angelico, Volponi e Masaccio) si citino, a titolo esemplificativo, le prefazioni di Luzi su Matisse, quella di Palazzeschi su Boccioni, di Sciascia su Antonello, di Moravia sul Picasso del periodo blu e rosa e ancora di Quasimodo su Michelangelo.

Nonostante la varietà degli esiti le tipologie testuali censite appaiono classificabili entro categorie che, sebbene non riescano a rendere conto di tutte le possibilità espressive attuate ed attuabili, funzionano comunque da utili linee guida per un approccio di tipo finalmente sistematico all’argomento. Le formule saggistiche qui individuate mostrano tre modalità differenti tramite cui questi scrittori-critici hanno affrontato il fatto artistico: si va dall’adozione di generi dichiaratamente eterodossi, come la drammatizzazione e la novella fantastica (Flaiano e Buzzati), alla più tradizionale forma saggistica, connotata però in senso fortemente personale: se in alcuni casi l’autore interpreta l’artista a partire dal proprio universo poetico-simbolico ed esistenziale in qualche modo appropriandosene (Testori e Ungaretti), in altri preferisce invece porre l’accento sugli aspetti biografici e sulla contestualizzazione storico-culturale alla ricerca di possibili punti di contatto con la contemporaneità (Volponi e Morante).

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L’articolo offre un’analisi di Salons, libro poco noto nella produzione di Giorgio Manganelli, che riunisce trentacinque articoli pubblicati nel corso del 1986 su «FMR». I corsivi commentano delle immagini, sottoposte a Manganelli dall’editore Franco Maria Ricci: raramente assimilabili a vere recensioni, si sviluppano piuttosto come libere digressioni, che spesso implicano un discorso metaletterario o ripercorrono temi cari all’autore. L’impianto del libro, apparentemente rigoroso, in realtà policentrico e imprevedibile nella distribuzione dei contenuti, risponde ad una sensibilità barocca e ricorda la metafora (tratta dalla topica) del libro come meravigliosa architettura. Spesso il rapporto didascalico fra figura e testo viene eluso, o il punto di congiunzione rimane implicito. In molti casi Manganelli, a partire da un particolare aspetto della figura, la proietta entro il perimetro della sua ‘teologia negativa’, in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Nel libro ricorre inoltre una questione centrale nell’estetica contemporanea, la relazione fra linguaggio figurativo e verbale: Manganelli tende a subordinare il primo al secondo, oppure a farli coincidere sotto la comune bandiera della retorica. 

This paper analyses Salons, a lesser-known book by Giorgio Manganelli, which brings together thirty-five articles, all previously published (in 1986) on the journal «FMR». Instead of being mere comments on the pictures selected by the publisher, Manganelli’s articles unfold as a series of digressions and reflections on literature. In the first part, I will tackle the organization of Salons showing how a multicentre structure underlies its ostensible geometry and develops the Baroque metaphor of the book as a stunning architecture. Thereafter, I will provide some examples of the, often purposely hidden, interaction between text and images. I In particular, I will show that Manganelli sometimes focuses on a detail of the artwork to develop his own ‘negative theological’ view, subordinating the visual language to the written language as much as bringing them together under the common flag of rhetoric.

 

 

Quali erano le idee di Giorgio Manganelli sulle arti figurative? Se si cercassero nelle interviste le testimonianze dirette dei suoi giudizi, non si troverebbe molto. Laddove, infatti, egli fa costante riferimento alla musica,[1] le arti visive sembrano essere volutamente eluse, anche quando le domande dei giornalisti sembrerebbero stimolarlo ad affrontare il tema.

Da questo tuttavia non si deve dedurre un suo disinteresse per l’argomento: è anzi più plausibile pensare a un consapevole ‘depistaggio’ (procedimento a cui l’autore non sarebbe affatto nuovo). Se infatti, tralasciando le interviste, si ripercorre la produzione letteraria manganelliana, è possibile intuire una passione per l’arte a lungo coltivata e meditata. Negli Appunti critici del 1948-1949, il Nostro nomina Walter Pater dimostrando di conoscerlo a fondo (l’aveva incontrato nei suoi studi di anglistica, forse per tramite di Praz);[2] altrove, in reportage di viaggio e articoli su giornale, egli invoca ripetutamente l’arte a similitudine con la natura, in virtù della qualità di ‘spettacolo’ che è propria di entrambe.[3]

L’opera che tuttavia ci consegna il quadro più completo del rapporto di Manganelli con la visualità è un’altra. Nel 1986, appena un anno dopo la seconda edizione del suo provocatorio manifesto (La letteratura come menzogna, prima ed. 1967), egli riceve da Franco Maria Ricci l’incarico di ‘corrispondente d’arte’ per la rivista «FMR»: da questa commissione risulteranno trentacinque prose, riunite e pubblicate l’anno successivo con il titolo di Salons.[4] Un nome che evoca Diderot e i suoi reportage per Correspondance littéraire (1759-1781), ma ovviamente con fine decostruttivo e ironico. Infatti, laddove nei suoi Salons Diderot aveva seguito con attenzione lo sviluppo della pittura moderna, ‘battezzando’ la nuova figura del critico d’arte, la selezione di opere che Ricci sottopone alla penna di Manganelli sembra obbedire ai soli criteri dell’inattualità e della disomogeneità. Dal tessuto art nouveau alla tabacchiera di fine Settecento, dalla statua africana a Renato Guttuso, questo libro-almanacco ricorda, più che un’esposizione d’arte, una raccolta di preziosi souvenir di viaggio: un viaggio completamente immaginario, escogitato dallo scrittore in realtà immobile alla sua scrivania, e che forse vuole echeggiare (di nuovo con un forte contrasto) i viaggi in terre lontane che Manganelli realmente aveva intrapreso, nella sua lunga carriera di scrittore e di corrispondente.[5]

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Il saggio ricostruisce i rapporti di collaborazione e intenso confronto tra Ennio Morlotti, Giovanni Testori e Francesco Arcangeli nei primi anni del secondo dopoguerra, quando la pittura informale comincia a farsi spazio anche in Italia. L’analisi dell’esperienza artistica di Morlotti attraverso le interpretazioni critiche di Arcangeli e Testori risulta fondamentale per delineare il dibattito tra realismo e astrattismo sulla possibilità di rappresentazione della figura umana che sfocia – passando attraverso la scomposizione cubista di Picasso e le dense pennellate di Cézanne – nell’ampia gamma dell’arte informel italiana. In particolare i due critici d’arte hanno sostenuto, in prospettive diverse, la validità della corrente del ‘naturalismo informale’, caratterizzata da un rinnovato rapporto con la natura a partire da una matrice ‘romantica’ e sentimentale. I loro studi sull’opera di Morlotti e degli «ultimi naturalisti» forniscono un punto di partenza fondamentale per analizzare gli sviluppi dell’estetica informel sia in campo artistico che letterario. Si possono rintracciare notevoli corrispondenze tra le figure ‘informali’ dipinte da Morlotti negli anni ‘50 e i corpi dei personaggi descritti da Testori nel ciclo I segreti di Milano (1954-1962). Tali rapporti sono avvalorati anche dalla triangolazione della corrispondenza tra il critico d’arte bolognese e i due autori lombardi, conservata nell'archivio Arcangeli presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna.

This paper reconstructs the relations of collaboration and intense discussion between Ennio Morlotti, Giovanni Testori and Francesco Arcangeli in the early years after World War II, when the informal art start to be prominently in the cultural dibate in Italy. The analysis of Morlotti’s artistic experience throught the critical interpretation of Arcangeli and Testori is essential  to outline the dialectic between Realism and Abstract art, about the possibility of representation of human figure which leads - passing throught deconstruction of Picasso's works and Cézanneìs firm brush strokes – to the wide range of italian informal art. In particular, both of the art critics have supported, in different perspectives, the validity of the trend named ‘informal naturalism’, characterized by a renewed relationship with Nature, starting from a ‘romantic’ and sentimental origin. Their studies on works of Morlotti and «last naturalists» provide an essential starting point for analyzing the developments of informal aesthetic in arts and literature. It is possible to trace significant corrispondences between the "informal" figures painted by Morlotti in the 50s and the characteristics of the bodies described by Testori in I segreti di Milano (1954-1962). These relations are corroborated by the ‘triangulation’ of the corrispondence between the art critic from Bologna and the two authors from Lombardia, preserved in the Arcangeli archive inside the  Archiginnasio Library in Bologna.

Nelle drammatiche fasi che seguono la fine del secondo conflitto mondiale, entrano in profonda crisi sia la possibilità di narrare quegli eventi sia la possibilità di rappresentare la figura umana in un contesto disintegrato. Da questa evidenza prende avvio il dibattito tra astrattismo e realismo, a partire dalle diverse interpretazioni del capolavoro antimilitarista Guernica (1937), in cui Picasso riuscì ad unire l’elemento astratto della scomposizione cubista dei piani d'osservazione e il crudo realismo della distruzione dei bombardamenti.

Nel 1948, durante la XXIV Biennale di Venezia (la prima del dopoguerra), Francesco Arcangeli, curatore della mostra sui pittori metafisici italiani (Carrà, Morandi, De Chirico), in polemica con le tesi di Mario De Michieli esposte in Realismo e poesia (1946)[1] delinea con precisione il nodo del dibattito artistico:

Picasso si colloca sul crinale tra due diversi modi di rappresentare le macerie di un mondo che non c’è più. Si nota qui una esplicita polemica sia nei confronti del Fronte Nuovo delle Arti, di cui faceva parte Guttuso, sia del Manifesto Realista Oltre Guernica (1946), sottoscritto da Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, le cui linee guida erano:

In base ai principi del manifesto, firmato anche da Morlotti, la pittura realista si propone come atto politico in opposizione all’astrattismo, in quanto assenza di impegno sociale e di presa sulla realtà. In questa prospettiva estetica vengono presi a modello sia Picasso che Cézanne, per la loro capacità di scomposizione e ricomposizione della realtà attraverso la «cosciente emozione del reale», rifiutando nettamente le tradizionali categorie di naturalismo, verismo ed espressionismo.

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L’esperienza di Testori come critico d’arte prende avvio nel 1952 con la pubblicazione su Paragone, complice la mediazione di Longhi, di un saggio su Francesco Cairo. Fin da questo esordio lo scrivano lombardo mostra un potente intuito nella lettura delle immagini, uno spiccato interesse per la ‘grana’ (impasto) materica del colore, e così va costruendo un nuovo paradigma critico, fondato sul continuo scambio fra letteratura e storiografia, fra cronaca e filologia. Il saggio ripercorre la tensione stilistica dei contributi su Cairo, secondo un minuzioso pedinamento delle definizioni più emblematiche, individua i prestiti longhiani e analizza il superamento testoriano del concetto di fotogramma.

Testori’s activity as an art critic begins in 1952 with the publication of an essay on Francesco Cairo in the journal Paragone, promoted by Roberto Longhi himself. From this debut Testori shows an excellent ability to interpret images and an extraordinary interest in the materiality of colours. He thus establishes a new critical approach combining literature and historiography, chronicle and philology. This paper focuses on Testori’s essays on Cairo and highlights the intertwining with Longhi’s work, aiming at understanding the interpretation of the concept of ‘photogram’ (fotogramma) offered by Testori.

 

1. Francesco Cairo e i segreti della carne

Il battesimo ufficiale di Testori come critico d’arte avviene sul numero 27 di Paragone (1952), la rivista di Roberto Longhi. Testori si è già occupato di pittura, fin da giovanissimo: ha scritto su Dosso Dossi nella rivista del GUF bolognese, ha scritto su Leonardo e Giorgione in una rivista forlivese (Pattuglia), e di qui a pochi mesi, sempre su Paragone, pubblicherà il primo discorso critico su Ennio Morlotti, l’artista contemporaneo a lui più caro.

Ma ora, sia per l’argomento – il pittore lombardo Francesco (del) Cairo – sia per il piglio del saggio, sembra che l’impegno vada nella direzione esplicita di critica d’arte impostata su una scrittura fortemente espressiva, secondo il modello longhiano. In realtà il saggio ancor oggi si rivela un tour de force stilistico e interpretativo, tanto che – volendo ripercorrerlo – bisogna tener presente che è un discorso magmatico che affonda, e si nutre, nel magma pittorico. La scrittura vuole essere l’equivalente della materia pittorica.

Testori conduce il suo ragionamento su due livelli, che continuamente interagiscono uno sull’altro: un livello di ‘critica’ tradizionale (formazione del pittore, modelli, evoluzione) e un livello di interpretazione più ampia, avvolgente, dove il Cairo diventa l’esempio di una prospettiva che riguarda il fare artistico in senso generale, anzi potremmo dire un’idea stessa di pittura. E da qui questa idea si evolverà, saggio dopo saggio, intervento dopo intervento, per tutto il percorso di Testori critico d’arte.

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L’11 dicembre 2014 si è tenuto a Santa Maria Capua Vetere, presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali della Seconda Università degli Studi di Napoli, l’annuale seminario SISCA (Società Italiana per la Storia della Critica d’Arte). Curato da Gaia Salvatori, docente di Storia dell’arte contemporanea nel suddetto Dipartimento, e presentato da Gianni Carlo Sciolla, presidente SISCA, l’evento ha riunito le più varie esperienze di ricerca nel settore storico-artistico e critico-curatoriale in ambito nazionale e internazionale con l’obiettivo di discutere di una questione centrale nell’arte contemporanea: l’intermedialità e il suo rapporto con la critica d’arte. A partire da ciò sono stati oggetto di riflessione della giornata forme della critica e varietà dei suoi interpreti, testimonianze di artisti, problemi di ricezione e tipologie di pubblico, luoghi, spazi e canali della comunicazione.

La nozione di intermedialità si pone innanzitutto come un catalizzatore interdisciplinare in cui confluiscono riflessioni eteroclite radicate in contesti differenti. In essa si intrecciano, e il seminario ne è stata una chiara dimostrazione, discorsi provenienti da distinti campi disciplinari: semiotica testuale, teoria letteraria, teoria dell’arte, sociologia della comunicazione, mediologia ecc. Pur impiegando prospettive metodologiche diverse, a volte molto lontane le une dalle altre, queste discipline lavorano attorno a urgenze comuni, relative, da un lato, al rapporto fra media e linguaggio e, dall’altro, a quello fra media e società. L’intento della giornata di studi, dunque, è stato proprio quello di cercare in queste eterogenee metodologie di ricerca un filo conduttore che possa permettere la costruzione di un discorso critico innovativo e maggiormente rispondente alle esigenze della società contemporanea; un atto critico di fiducia fra arte contemporanea e suoi interlocutori nella convinzione che gli addetti ai lavori possano ritenersi tali, in questo settore, solo se interpreti attenti (o caparci di comprendere) a molti punti di vista.

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Insondabile abisso / ove bellezza nasce da sconcezza, / da efferata dismisura la misura, / da disgrazia / la grazia.

G. Testori

 

«Io, critico – veramente – critico, mai fui; né, tanto meno, lo risulto e lo sono, adesso». Così dichiara Giovanni Testori in quella prefazione sui generis che introduce il pregiato libro edito da Franco Maria Ricci nel 1989 in riferimento alle «schede-poematiche» o «schede-versicoli», recentemente ripubblicate per i Classici Bompiani, che accompagnano le diverse raffigurazioni della Maddalena, dando vita a un singolare percorso, a un «maddalenesco tragitto», che si dispiega attraverso il dialogo tra immagini e parole.

Queste originali critiche in forma di poesia trovano posto nell’ultimo volume delle Opere (Vol. 3, Classici Bompiani, Milano, 2013) accanto agli scritti venuti alla luce tra il 1977 e il 1993, anno della morte dell’autore, fino ad oggi difficilmente reperibili, trattandosi di testi inediti o pubblicati soltanto in una prima edizione, come nel caso di quelli che introducono cataloghi d’arte, plaquettes, edizioni a tiratura limitata, e che qui ci interessano.

Testori non abbandona la forma del saggio, all’apparenza canonica, tuttavia non può fare a meno di trasformarla, per una sorta di necessità esistenziale, in un racconto-incontro di cui egli resta sempre, quantomeno, attore co-protagonista. Nella sua ricerca di umane consonanze non può sfuggire al bisogno di avere con l’opera e l’artista un contatto quasi carnale, un ‘corpo a corpo’, indispensabile per giungere ad una comprensione che sia davvero profonda, eppure, da critico, non è mai dimentico dei fatti concreti dell’arte, rifuggendo da astratte generalizzazioni, memore anche dell’insegnamento longhiano.

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