Nel buio della carne, nella carne delle immagini

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L’esperienza di Testori come critico d’arte prende avvio nel 1952 con la pubblicazione su Paragone, complice la mediazione di Longhi, di un saggio su Francesco Cairo. Fin da questo esordio lo scrivano lombardo mostra un potente intuito nella lettura delle immagini, uno spiccato interesse per la ‘grana’ (impasto) materica del colore, e così va costruendo un nuovo paradigma critico, fondato sul continuo scambio fra letteratura e storiografia, fra cronaca e filologia. Il saggio ripercorre la tensione stilistica dei contributi su Cairo, secondo un minuzioso pedinamento delle definizioni più emblematiche, individua i prestiti longhiani e analizza il superamento testoriano del concetto di fotogramma.

Testori’s activity as an art critic begins in 1952 with the publication of an essay on Francesco Cairo in the journal Paragone, promoted by Roberto Longhi himself. From this debut Testori shows an excellent ability to interpret images and an extraordinary interest in the materiality of colours. He thus establishes a new critical approach combining literature and historiography, chronicle and philology. This paper focuses on Testori’s essays on Cairo and highlights the intertwining with Longhi’s work, aiming at understanding the interpretation of the concept of ‘photogram’ (fotogramma) offered by Testori.

 

1. Francesco Cairo e i segreti della carne

Il battesimo ufficiale di Testori come critico d’arte avviene sul numero 27 di Paragone (1952), la rivista di Roberto Longhi. Testori si è già occupato di pittura, fin da giovanissimo: ha scritto su Dosso Dossi nella rivista del GUF bolognese, ha scritto su Leonardo e Giorgione in una rivista forlivese (Pattuglia), e di qui a pochi mesi, sempre su Paragone, pubblicherà il primo discorso critico su Ennio Morlotti, l’artista contemporaneo a lui più caro.

Ma ora, sia per l’argomento – il pittore lombardo Francesco (del) Cairo – sia per il piglio del saggio, sembra che l’impegno vada nella direzione esplicita di critica d’arte impostata su una scrittura fortemente espressiva, secondo il modello longhiano. In realtà il saggio ancor oggi si rivela un tour de force stilistico e interpretativo, tanto che – volendo ripercorrerlo – bisogna tener presente che è un discorso magmatico che affonda, e si nutre, nel magma pittorico. La scrittura vuole essere l’equivalente della materia pittorica.

Testori conduce il suo ragionamento su due livelli, che continuamente interagiscono uno sull’altro: un livello di ‘critica’ tradizionale (formazione del pittore, modelli, evoluzione) e un livello di interpretazione più ampia, avvolgente, dove il Cairo diventa l’esempio di una prospettiva che riguarda il fare artistico in senso generale, anzi potremmo dire un’idea stessa di pittura. E da qui questa idea si evolverà, saggio dopo saggio, intervento dopo intervento, per tutto il percorso di Testori critico d’arte.

Il tema della colpa apre il saggio: Testori recupera una notizia ottocentesca su un presunto crimine commesso dal pittore in età giovanile. Subito, quest’ipotesi di un delitto diventa l’ossessione che perseguita l’artista. E Testori, adottando un vocabolario di origine filosofica, parla esplicitamente di «noumeno» del delitto (cioè di un delitto non tanto reale quanto virtuale),[1] che si insedia, occultamente, nella mente del Cairo e vi irradia effetti per l’intera l’esistenza e la «inonda» con «pressione continua e folle».[2] «Bramosa cagna», secondo l’espressione dantesca, il delitto diventa subito «incubo prelogico, fetale»: le suggestioni psicanalitiche si insinuano nella pagina e creano continue zone d’ombra, zone di allusività che la scrittura riprende e intensifica. Fino alle ultime battute del saggio, quando viene rievocata la morte del pittore, quando, con toni da inno sacro manzoniano, la pietà stende un velo sull’esistenza tormentata. Testori sembra voler inseguire questo affanno dell’esistere, questo tormentoso incubo che si insinua nella carne: nelle cellule della carne, anzi, se è vero che la seconda immagine, dopo quella della colpa, è quella della peste, cioè della malattia che non colpisce il pittore, ma ne circonda tutti gli anni di vita, ne assedia il corpo e la coscienza con lo spettro della decomposizione. Cairo è il primo dei «pestanti», secondo la definizione con cui Testori vuol cogliere un momento storico (tra il 1570 e il 1630 circa), che corrisponde al passaggio tra manierismo e barocco. Non è un caso che Testori scelga una denominazione connessa a un’epidemia di area lombarda, esplicitamente manzoniana. La peste comporta immediatamente una traduzione fisiologica della colpa, è la malattia della psiche che si traduce in sintomo fisico: «è proprio sulla marcescente agonia dell’umano corpo che va a fiorire, con un’identità cronologica anche più funesta, la poesia negra e tragica di Francesco». Poesia (pittura) che cresce sul corpo malato, sui bubboni che disfano la carne: non c’è mediazione concettuale. Per Testori la pittura è pittura-carne. Pittura che nasce dalla carne, pittura che trasfigura la malattia del corpo e ne resta impregnata, contaminata.

Ma il ragionamento rilancia domande su datazioni storiche: il momento cruciale della peste (1576- 1629 circa) vede il Cairo ancora in Lombardia o esule in Piemonte, con un soggiorno di due, tre anni? A Testori piace pensare un Cairo completamente immerso nel clima dell’epidemia, infettato non tanto dalla peste ma dal suo incubo psichico (la colpa) che continuamente si proietta fuori, tra gli imbrattatori di muri (gli untori) e la colonna infame che sorge sui mucchi di cadaveri. Si disegna così uno scenario macabro, ai limiti del granguignolesco, dove Manzoni viene ricondotto alle sue fonti secentesche, ben più ricche di elementi raccapriccianti. Qui, in questo universo sconvolto, il Cairo scopre il fondo indifferenziato dell’esistere, cioè il lato oscuro, insondabile della realtà. Testori prende un’immagine di Longhi (la prende con forza, rapinosamente, e subito la manipola) dal saggio del 1926 sui manieristi lombardi, dove Longhi aveva individuato una componente «spirituale» di ascendenza nordica, francese o olandese, unita a una tragicità che affiora con riflessi malsani: «il tragico dell’umanismo che aggalla in verità, come il corpo di un annegato». Questo corpo di annegato che affiora, come si accumulano i cadaveri manzoniani vittime della peste, rappresenta il lato oscuro di un passaggio epocale: è finita l’età dei due Borromeo, Carlo e Federico, che avevano tentato «la salvezza del mondo liturgico», e ora inizia un’età buia di cui il Cairo diventa l’interprete, in quanto può sprofondare nella carne viva di un mondo, nella materia che collassa, nell’indifferenziazione delle cellule che si aggregano per produrre una vita («indifferenziazione blastulare») la cui origine è già tragica.

Fin qui (e siamo solo alle prime quattro pagine) Testori sembra non aver fatto critica d’arte: poche attribuzioni, poche ipotesi, poche date. Si è aggirato sugli inizi del Cairo esattamente come secondo lui il Cairo si è aggirato tra i drammi della peste. Ha portato allo scoperto un lato in ombra della creazione artistica, ha ipotizzato consonanze tra una psiche malata e il corpo di un’epoca. Ha cercato di porre le basi per l’analisi del «nucleo segreto dell’esistere» (le sue metafore vanno tutte in un’unica direzione, puntano all’interiorità, al buio, al segreto). Niente è innocente però in queste premesse. Leggere le immagini significa già per Testori scavare dentro un corpo, aprire un corpo, portare alla luce ciò che gli storici dell’arte normalmente non considerano degno di attenzione. Non è solo il metodo di un romanziere che spinge in questa direzione. Anche se il sottofondo manzoniano, la drammatizzazione continua dei dati, l’enfasi del movimento tra le opere indagate possono farci pensare a questo, è piuttosto un tono vicino a certe scritture di analisi dell’io, le confessioni dei mistici, oppure le tirate polemiche contro i piaceri nei discorsi dei padri della Chiesa che sentiamo premere sotto il tessuto della scrittura.

Testori vuole seguire il Cairo in questa discesa infera nei segreti della carne, che poi sono i segreti dell’esistere, vuole affondare il bisturi come un medico che cerca di estirpare le cellule malate separandole da quelle sane, ma non sa bene se esiste un confine preciso tra i due ambiti. Abbassandosi fino all’origine, fino alla cellula, o al primo agglomerato di cellule (la blastula) si scopre improvvisamente la «lotta cieca» da cui deriva la vita, cioè quel nucleo di forze contrastanti e in insolubile frizione tra loro: «termini contrari che conflagrano, repulsione a vivere e attrazione a vivere». Da questa «dialessi», cioè spinta di forze dialettiche, contrastanti, nasce la vita. Testori trasforma la cellula nell’elemento minimale che s’incarna nel pigmento cromatico del Cairo. Se pittura è carne allora il colore è cellula. Passiamo improvvisamente (inaspettatamente) da un discorso che ci aveva condotto verso ipotesi sull’origine fisica dell’esistenza (cellule, morula) all’origine della pittura, che per Testori è colore, cioè materia, prima che forma (se dobbiamo vedere un iniziale distacco da Longhi è da qui che sembra necessario muoversi). E in questo primo grumo di materia-carne, in questa origine della vita-opera ritroviamo il sommovimento di forze vitali che si muovono circolarmente, ansimando e roteando su se stesse. Un sommovimento senza direzione, senza via d’uscita. A un certo punto viene utilizzato un termine esplicito come «follia»: è follia il «moto circolare» che non sceglie alcuna direzione, e se vogliamo inquadrarlo in categorie artistiche possiamo richiamare la definizione di ‘manierismo’, quando le cellule si sviluppano su un tessuto (stilistico) preesistente e lo corrompono. La materia pittorica di Cairo viene turbata da questo stesso movimento, nel momento in cui le figure rappresentate, che ormai hanno vissuto in pieno la loro storia, si rendono conto che coscienza e conoscenza sono inservibili, o sentono una spinta verso la coscienza senza mai raggiungerla. Quanto avviene nella cellula impazzita, avviene allora nella figura: sorge la follia, subentra l’ombra, e si ripete nel corpo intero la stessa dialessi attrazione-repulsione che agisce al momento dell’origine. Nella materialità del colore (colore che è carne, prima ancora che corpo o forma) si ricrea, aumentata di intensità, l’opposizione tra «l’atroce brivido» del contatto e la «violenza iniqua della repulsione». Il colore, come la cellula originaria, trova la vita in questo violento contrasto. Ma Testori, che ha condotto fin qui un lungo ragionamento astratto e intricato, deve risolverlo nella concreta esemplificazione di un’immagine, e sceglie questa immagine dal cuore stesso dell’opera di Cairo, estrae un particolare su cui poi ritornerà ma che costituisce l’esatto corrispondente – se applicato a lui, alla sua opera futura – di quel conglomerato di cellule impazzite in cui la vita vuole trovare un esito e non può trovarlo che proiettandosi nella morte. L’esempio, l’immagine è:

Vive insomma il suo colore d’una dialettica eguale a quella che – in termini iconografici – trascorre tra la mano orrorosa e tremida dell’Erodiade e la testa stroncata del Battista, nelle sue tele che tale soggetto effigiano.[3]

 

2. La testa ‘stroncata’

Testori ci ha dunque condotto attraverso cunicoli continui, gallerie di talpe scavate nell’argomentazione filosofica e psicanalitica, fino a quest’ultimo riferimento, dove ancora l’oggetto è il colore, il colore-corpo della pittura di Cairo. E quel colore si esplicita ora non come apparenza delle cose prodotta dalla luce, o dal contrasto tra luce e ombra, ma viene guardato ancora una volta alla rovescia, dal suo lato oscuro (se è possibile parlare di un lato oscuro del colore). Non è il colore in quanto fatto, ma il colore in quanto forza, espressività, dynamis. In quanto prodotto di forze opposte, di attrazione e repulsione. Esattamente come la mano di Erodiade è sospesa sulla testa mozza del Battista, e non sa se toccarla, seguendo il desiderio erotico, o allontanarla, seguendo l’impulso della paura che nasce dalla colpa. Desiderio e paura, attrazione-repulsione: non si tratta di immagini, o di forme, o di spazi (concetti che invece abbondano nel lessico critico longhiano).[4] Se ammettiamo che anche le immagini abbiano un corpo (non solo quando rappresentano realmente un corpo), allora dobbiamo pensare a Testori come analista dell’interiorità dell’immagine, scrutatore delle viscere dell’immagine, della carne dell’immagine. Ciò che normalmente resta nascosto, perché protetto dalla levigatezza della forma corporea, viene ora portato alla luce. Si tratta di superare i limiti, far saltare la compiutezza, trovare l’organicità della materia sotto la geometria della forma. L’analisi non avviene più in superficie, non segue le superfici, ma entra nel profondo della carne. Dirà, a proposito di Morlotti, a distanza di pochi mesi:

dove ‘Corrente’ poggiava su una ripresa del colore inteso come sentimento, Morlotti indicò subito di poggiare sulla materia, intesa come punto generante della realtà. È la sostanza della materia, parve dire subito, che determina la figura: non la figura che cerca una sostanza, o un sentimento che la illustri. In primis non esiste l’idea […]: né in primis esiste il sentimento: bensì la materia.[5]

Materia significa dunque movimento irrefrenabile di cellule impazzite, aspirazione alla vita e risucchio verso la morte. Il lessico psicanalitico, filosofico, medicale (alle spalle si è ipotizzata la lettura diretta di alcuni testi di Carlo Emilio Gadda) concorre in questo primo atto critico a definire un paradigma che resterà immutato in tutta la scrittura di Testori per l’arte: in un’opera pittorica si incarnano valori esistenziali che l’artista estrae da profondità inconsce per renderle visibili, ma la visibilità è solo un effetto di superficie, dal momento che è necessaria una visionarietà per interpretare il nucleo nascosto dell’opera, è necessario un movimento di discesa dentro la materia pittorica per poter auscultare i valori segreti da cui la materia stessa si origina. Atteggiamento visionario significa «vedere al di là». Cioè superare i limiti dell’immagine. E questo può avvenire solo con una discesa nella profondità della carne. E con la lacerazione del visibile, del corpo del visibile. Per questo la testa tagliata del profeta e la mano di Erodiade sono assunti come emblema della pittura del Cairo, e in generale di ogni atto critico. La testa tagliata indica la lacerazione del corpo, il sangue che esce dalla ferita indica lo svuotamento emorragico del visibile. La mano di Erodiade concentra in sé desiderio e insieme ripugnanza: desiderio nei confronti della testa agonizzante che, attraverso la bocca, esibisce il lato oscuro della carne, l’interiorità molle in cui penetrare, ripugnanza nei confronti di un’interiorità che rischia di attrarre e annullare. Da questo momento in poi, non solo l’immagine della carne, ma anche il riferimento continuo a viscosità, saliva, pus, umori fisiologici serviranno a Testori per far emergere l’aspetto nascosto delle immagini, in una discesa progressiva che tocca livelli pulsionali elementari, spesso ancor più elementari delle pulsioni erotiche. Georges Bataille aveva messo in rapporto la tradizione dei mistici cristiani con l’erotismo, indagando l’analogia tra l’occhio che guarda e la bocca che riesce a incorporare il visibile, a cibarsi del reale.

Nei testi dei mistici la piaga rappresenta quell’entrata nell’interiorità delle apparenze che l’occhio non può permettersi: l’occhio vede il corpo, la piaga (una bocca che si apre nel corpo) consente l’entrata nel corpo (San Matteo di Caravaggio: infer digitum tuum …). Non a caso in alcuni testi mistici (Santa Caterina, per esempio) il bacio della piaga assume un esplicito valore erotico.

L’immagine cristiana [commenta Georges Didi-Huberman, in un discorso su Bataille e sull’apertura delle immagini] – l’immagine chiusa, virginale, elevata, ‘molto elevata’ – sa includere in sé la propria negazione: apertura, vuoto profondo, abiezione.[6]

La scrittura sull’arte di Testori (ma probabilmente anche il suo cristianesimo) ha origine da questa incarnazione, cioè dal movimento che scende nella carne delle immagini per auscultarvi i fermenti primordiali dell’esistere, in una compresenza di tensioni opposte e inconciliabili («una carica innominata, e in affetti, innominabile»: così viene definita, alludendo all’indicibilità, la «vitalità indifferenziata» della cellula-colore, cioè dell’unità primordiale della pittura).

 Francesco Cairo, Erodiade con la testa del Battista, olio su tela, 1633-35c.

 

Ma torniamo a Erodiade. Al momento di affrontare le tre variazioni del tema (quella della Galleria Sabauda, quella di Vicenza e quella di Boston) Testori disegna una curva di drammaticità ascendente che passa attraverso il sangue della testa mozzata e l’animalità della protagonista femminile.

 

 Francesco Cairo, Erodiade con la testa del Battista olio su tela, 1634-1635c. Francesco Cairo, Erodiade con la testa del Battista, olio su tela, 1633-1635c.

 

In rapporto dialettico, sangue e animalità concorrono a definire quell’elemento innominabile (ne-fas) che porta la figurazione all’estremo. Il «connubio sangue-monile» della prima Erodiade fascia la figura in una chiusura di insorgente classicismo, già venato tuttavia di «sacra animalità» (il riferimento riguarda presumibilmente l’inarcarsi del busto femminile in una tensione che fa pensare a un piacere erotico); nella seconda, il sangue sembra trasudare dalla pelliccia («pelo, appena scuoiato»: l’avverbio temporale rimanda all’uso longhiano di proiettare sul presente l’espressività dell’atto pittorico) che copre le spalle della regina, e la bestialità erotica si trasmette allo spillone che infilza la lingua del Battista e che anticipa il desiderio di possedere attraverso la cavità della bocca il corpo del personaggio; nell’Erodiade di Boston, infine, la regina diventa una «pastora», cioè una creatura caravaggesca che ha assorbito l’animalità dalle bestie, e che con il gesto di stringere la lingua del Battista rivela un «eros ancestrale» dove il divino e il diabolico si uniscono. Qui secondo Testori (ed è un’espressione altamente incandescente, ma definitiva per il suo percorso) l’erotismo rivela «il fondo di una materia ab aeterno dannata».

Da questo momento il motivo della testa mozzata incarna un vero tòpos della scrittura di Testori. La testa, la bocca socchiusa che fa intravedere la cavità interna, l’erotismo e la morte, la penetrazione nel cavo vischioso dove si forma la blastula cellulare: e più ancora il rovescio delle immagini, la parte nascosta del corpo, la pelle scuoiata della pittura. Questa testa passa da un testo all’altro, questa bocca parla molte lingue, e parlerà anche il dialetto amato da Testori nella narrativa e nel teatro.

Ricompare, di qui a molti anni, ed è la testa di Caterina di Meda, la conversa di cui parla il Ripamonti nel racconto che riguarda Marianna de Leyva, alias Suor Virginia, alias la Monaca di Monza. Inseguendo una fantasia manzoniana che risorge di volta in volta, e ha origine nella peste che assedia Cairo nel 1630, Testori scrive il suo secondo lungo intervento su Francesco Cairo per una mostra degli anni Ottanta: qui il cortocircuito nasce dall’autoritratto del pittore che viene inaspettatamente messo in rapporto con il volto di Giovan Paolo Osio, alias Egidio, l’amante della sventurata Monaca. Un volto indefinibile, quello del Cairo, «dissidente», «diverso», «divergente», con i segni di una «intellettuale perfidia», che coagulano nella sensazione ripugnante della pelle che sembra un guanto rovesciato, «foderato di liquidi osceni e di sangue». A distanza, il crimine commesso dal Cairo in gioventù (sul quale si aprivano le ipotesi del 1952) si trasforma ora fantasticamente nell’uccisione della conversa, anzi nella sua decapitazione. Ma la testa della ragazza («forse già sfatta, decomposta e marcia»)[7] è fermentata nella scrittura di Testori, ora assume la forza ossessiva di un tema poetico esattamente come Erodiade e Maddalena sono temi pittorici del Cairo. Testori stringe subito l’obiettivo sulla gola della vittima che urla, nel momento in cui viene scannata, e perde la possibilità di pronunciar verbo. La lingua del Battista, che ha gettato anatemi ingiuriosi contro Erodiade, non può invece più parlare, e anzi viene sottoposta a un ulteriore oltraggio da parte della regina, che la prende tra le dita per estrarla dalla gola: oltraggio definitivo, estremo, con cui l’interno della testa (la bocca) viene violentemente portato alla luce. Il lògos di Giovanni, la sua parola suprema, si mostra nella bassezza della carne: la lingua stretta, perforata, torturata. Il «povero muscolo» riesce a emettere un solo soffio, ma è un soffio mortale che provoca subito la morte di Erodiade, come suggerisce una fonte antica, la Legenda aurea: vendetta definitiva che la lingua, come parola, riesce a perpetrare ai danni di chi l’ha umiliata e torturata. Così, attraverso il motivo della testa mozzata (il gesto omicida di Giovan Paolo Osio, il presunto omicidio commesso da Francesco Cairo, la testa della conversa, la testa di Giovanni), passiamo dall’autoritratto del pittore al centro «viscido, sontuoso e buio» della mostra, cioè all’Erodiade di Boston. Di nuovo si ripete il dramma della materia, il principio alternativo alla rappresentazione della realtà, a ogni idea di rappresentazione come «fotogramma».

Testori non si accontenta della definizione di realismo, che pur riconosce nella tradizione lombarda che arriva a Caravaggio (Lotto, Savoldo, Moretto, Romanino). Caravaggio si è mosso in questa tradizione che però ha attraversato con un movimento di immersione. Uno scavo sotto la «scorza», sotto la «pelle». Qui, scuoiando le figure dei suoi precursori, l’artista ha trovato il punto di equilibrio supremo con cui far emergere dagli strati profondi del corpo il dramma di fine secolo, cioè la peste. La peste che ha intriso dunque già le immagini di Caravaggio, prima di diventare «viscida saliva» sulla carne dei personaggi del Cairo. Anche Caravaggio ha però raggiunto il culmine di tensione rappresentativa mettendo in scena il suo rapporto violento con la realtà. Testori individua in un’ulteriore testa mozzata il «sintomo dell’atrocità sadomasochistica» che ha corroso dall’interno (come una peste invisibile) la vita drammatica di Caravaggio: è il fiotto di sangue che cola dalla «sacra testa» del Battista, schiacciata a terra dal carnefice nella Decollazione di Malta.

Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista, olio su tela, 1608

Questo sangue, effusione con cui l’immagine si apre all’esterno, diventa la firma del pittore, diventa scrittura, cioè esibizione di sé, cioè infine autoritratto. Il corpo di Giovanni è profanato, e la sua carne si fa parola, attraverso il sangue, diventa la sigla con cui l’artista lega il suo corpo a quello del santo. Leggendo dentro le immagini di Caravaggio, insinuando lo sguardo nelle piaghe e nelle ferite, Testori prepara così, per la seconda volta, le condizioni per la sua interpretazione di Francesco Cairo, artista di un caravaggismo «divergente», qualora si intenda il verbo come indicazione di un cammino artistico e esistenziale che affonda nella «limacciosa stratificazione dei sotterranei umani», quei sotterranei che Caravaggio, artista della forma, aveva portato alla luce, sottraendoli al buio della storia.

Cairo è invece sceso nel «cunicolo», nel «viscere negro, oscuro e infetto dell’innominabile ventre»,[8] è andato al di sotto del visibile, verrebbe da dire che gli orifizi delle sue figure femminili (le bocche socchiuse delle Erodiadi o delle Maddalene) sono i varchi attraverso i quali è entrato in un corpo insondabile come quello della realtà, da cui ha poi riportato alla luce, spacciandoli per gioielli o pietre preziose, le «gemmanti e violacee putrefazioni», che sono la materia sacra, «la sacralità stessa della materia», «getti e manciate atroci di cellule»: ancora una volta l’origine della vita nella materia. Non la realtà, ma qualcosa che è così interno alla realtà da poter essere percepito «assai più toccandosi e odorandosi che non guardandosi». La pittura raggiunge livelli impossibili per l’occhio, scava, raccoglie, tocca, annusa grumi di materia: di essi si compongono le immagini.

 

3. La realtà fotogramma

La metafora cinematografica viene più volte sfruttata da Longhi per definire l’operazione di Caravaggio. Nel saggio del ’52 l’ipotesi è quella dello specchio usato dal pittore per fissare frammenti di realtà, renderli univoci, delimitarne i bordi:

[…] l’artista stagliò questa sua descrizione di luce, questo poetico ‘fotogramma’, quando l’attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un’evidenza così memorabile, invariabile, monumentale come, dopo Masaccio, non s’era più visto.[9]

Questo l’esito finale di un percorso che consente a Caravaggio di diventare pittore non dell’umano ma del reale, sconvolgendo non solo le partizioni tra le classi sociali ma l’intera disposizione mentale del cosmo: «si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti».[10] Per Longhi questa rivoluzione significa innanzitutto l’affermarsi di una tradizione pittorica fondata sulla luce che lotta con le tenebre per rivelare gli aspetti multiformi del mondo, una tradizione che arriva fino a Manet e a Morandi. Non corpi, non apologetica del corpo umano ma luce e tenebre, forme che emergono dalle tenebre grazie alla luce. C’è anche una giustificazione gnoseologica vera dietro a questo platonismo longhiano (se vogliamo chiamarlo così) ed è stato Cesare Garboli a individuarla, notando come la materialità della pittura – per Longhi – può essere concepita solo se le immagini cambiano di segno, solo cioè se avviene il passaggio «dalla fisicità figurativa a una rappresentazione mentale traducibile in segni discreti».[11] L’arte chiede aiuto alla scrittura, cioè a un sistema di segni più astratto ed evoluto: per questo ogni espressione figurata della scrittura di Longhi è contemporaneamente quella e solo quella immagine pittorica. E la luce di Caravaggio funziona secondo il meccanismo del fotogramma: cioè rivela nella intensità di un istante gli aspetti di un mondo che vengono per sempre fissati e resi eterni. Dunque la luce di Caravaggio non è solo un principio figurativo ma anche – e soprattutto – un principio conoscitivo (basta pensare a espressioni che sembrano rimandare ai progressi della conoscenza più che alla rappresentazione pittorica: «lampo abrupto della luce rivelante tra gli strappi inconoscibili dell’ombra»).

Contro questa concezione, lievitata negli anni dentro di lui, Testori costruisce il grande saggio per il catalogo della mostra su Francesco Cairo del 1983, dove rilegge i suoi inizi di trent’anni prima (il saggio del ’52 su Paragone, per cui Longhi «si vide sommerso da una valanga di lettere, a dir poco stupefatte, allarmate, indignate»), ma anche il suo rapporto con il maestro, che vuol dire il rapporto tra Caravaggio e Cairo, dove la subordinazione del secondo al primo significa anche un’alternativa, una deviazione rispetto alla strada disegnata dal maestro di un intero secolo. Caravaggio è lo Shakespeare della storia della pittura, aveva già affermato Testori nell’introdurre la mostra sui manieristi piemontesi e lombardi (1955). Ma aveva subito corretto la metafora, aggiungendo che in Caravaggio gli spettri, pur consumati dall’ansia e dalla fatica della vita, restano pur sempre uomini, mentre per i pittori del manierismo lombardo gli spettri sono «proiezioni violente» che nascono nella coscienza e vanno ad invadere la vista, senza più lasciare requie ai personaggi. E ora, a distanza di trent’anni, Testori lascia cadere il dubbio a cominciare dalla scelta del titolo, Se la realtà non è un fotogramma …, il che significa implicitamente che la metafora del fotogramma (utile a Longhi per tutte le ragioni che si sono dette) non è più adatta a contenere e esaurire la complessità di una realtà stratificata, fatta di infiniti spessori, una realtà che sprofonda in se stessa, e che diventa, in successione rapida, «pantano», «agonia», «rantolo», «abisso», «rettile», «immonda lumaca». Dove si vede bene che Testori mescola le immagini di sprofondamento nella materia con le immagini di una materia già sprofondata nei livelli organici più bassi: «immonda lumaca» rimanda infatti all’aspetto viscido, colloso, ripugnante che costituisce il versante nascosto della carne, cioè la carne interna dove si muovono le cellule, la carne infetta e marcescente, la parte interna della bocca che fin dal saggio sul Cairo del ’52 serve a esprimere, attraverso l’immagine della testa tagliata, la concezione di una pittura non come superficie, colore o forma («sintesi prospettica di forma-colore» era la grande intuizione critica di Longhi su Piero), ma come lacerazione del visibile, discesa nell’oscurità della materia.

E ora, nella revisione degli anni Ottanta, la rivoluzione del Cairo, e la sua alternativa a Caravaggio, risulta ancora più determinata, soprattutto se la si guarda non come un andare oltre il proprio modello per superarlo ma come uno sprofondare verso quei nuclei interni dell’espressione che il modello aveva portato alla superficie per renderli visibili attraverso la compiutezza della forma. Là dove Caravaggio aveva raggiunto dei punti-limite, oltre i quali la rappresentazione non poteva andare, Cairo si getta a capo fitto dentro di essa: non vuole più alludere al reale (fotografarlo) ma «configgersi nell’ambiguo, protervo e persin oscuro nucleo del suo inizio; configgersi, fondersi, confondersi e perdervisi».[12] Testori sente il bisogno di rendere ancora più esplicito il percorso del suo artista, e moltiplica le allusioni a un movimento regressivo dentro la materia che già avevano caratterizzato il saggio del ’52. Ma non sono gli occhi a guidarlo in questa ricerca, quanto piuttosto sensi più bassi come il tatto e l’olfatto. Toccando grumi di sostanza repellenti (salive, bave, pus, liquidi organici, sperma) e annusandone i miasmi, Testori si abbandona a una caduta progressiva dentro lo spazio vuoto che corrisponde al luogo nascosto e indicibile (un buio cunicolo senza fondo) che le opere di Cairo fanno semplicemente presagire, costituendone una specie di crosta protettiva sotto la quale viene tenuto sotto controllo l’inarrestabile marcire della materia disfacentesi nelle cellule che la compongono. Si inizia dall’autoritratto dell’artista, che diventa subito un involucro di pelle pronto a rovesciarsi come un guanto per far emergere il lato nascosto e invisibile della carne, il rovescio «foderato di liquidi osceni e di sangue»[13] (Bacon è alle porte, ma prima ancora Delacroix). E si arriva, poi, una volta doppiato il luogo oscuro che corrisponde alla testa del Battista e al gesto di Erodiade, al San Francesco in estasi dei musei milanesi, il risultato supremo di un precipitare dell’artista nei luoghi bui e profondi di «quel viscere della realtà e dell’universo».

 Francesco Cairo, San Francesco in estasi, olio su tela, 1630-1633c.

Qui, soffocando e spasimando (come un essere che si è reinfetato e cerca di nuovo un varco attraverso il quale ritrovare la luce, rinascere), Cairo tocca e afferra un «grumo demente di materia», dal quale esce poi la figura del santo, nella sua «contraddittoria, mistica e, insieme, peccaminosa, sacra e, insieme, oscena formulazione pittorica». I quattro aggettivi, a coppie contrapposte (mistica vs peccaminosa, sacra vs oscena) vogliono cogliere la natura complessa e paradossale della rappresentazione. L’immagine ha qui assunto le caratteristiche di una realtà senza forma, e solo perché è senza forma Testori può evocare il punto estremo di un percorso che raggiunge, attraverso questa folle discesa, una parvenza di sacro, grumo di materia che coincide, nella sua sostanza, con le «gocce d’uno sperma pittorico eiaculato contro ogni ordine e ogni legge di natura». Solo così, con l’evocazione di un liquido seminale (materia pittorica ridotta a materia generativa), Testori concepisce la sacralità che s’incarna nell’immagine, anzi è l’immagine nel momento in cui ha perso ogni caratteristica di mimetismo: il corpo mistico del Santo, composto di una materia oscena, l’immagine del rapimento estatico (cioè il massimo di innalzamento) che comprende in sé la propria abiezione. Se l’evocazione di questa materia si pone contro ogni possibile ordine morale, contro ogni legge, riesce però così a recuperare «l’altra e non dicibile legge: quella che chiude ogni labbro». Testori sembra alludere a una verità ultima, ancora una volta indicibile, ancora una volta nefas. E ancora una volta tutto questo complesso esplodere di concetti e di immagini (qui il discorso critico di Testori è intricato, allusivo, ellittico) porta verso la realtà ultima di una bocca che si chiude: bocca mistica, quella del santo in estasi, bocca peccaminosa, quella di Erodiade, bocca che esala l’ultimo fiato, quella del Battista. E poi, come se non bastasse, alle labbra ormai serrate si aggiunge l’immagine della «cavità orale» di viscidi animali: la scomparsa della luce ci porta fin qui, dentro al buio inumano della bocca di un rettile (la scala dell’umano si è rovesciata, dal santo in estasi precipitiamo nel corpo repulsivo di un rettile). In questo buio viscido la luce non può fissare nulla, non può esserci «fotogramma» dal momento che la materia bruta rifiuta una qualsiasi fissazione nell’immagine. Qui non può avvenire «trasfigurazione», ma solo «incarnazione», e quindi regressione dell’umano all’origine primordiale: è l’ultima metamorfosi di uno spazio chiuso e repellente dove è conservata la memoria di qualcosa che ebbe vita prima della Storia. È questo l’esito definitivo di una pagina interamente costruita sulle variazioni di un unico e ossessivo movimento, quello verso il basso, dentro il corpo della materia, con il quale Cairo ha distrutto ogni possibilità di usare il «fotogramma» come strumento di rappresentazione.

Testori ha così operato l’ultima, definitiva contravvenzione al paradigma longhiano. Per Longhi la pittura può diventare oggetto di attenzione mentale, e quindi storico, se emerge nella luce della scrittura che la fa esistere, nell’attimo stesso in cui la scrittura la descrive. Il famoso «logogrifo» è traduzione immediata, irripetibile, di quel particolare dell’opera in quel momento. Testori rifiuta la luce, l’esattezza che fa emergere le forme dal buio e le rende «fotogramma». Per lui la pittura è invece esperienza irripetibile di scavo nelle tenebre, immersione nella materia alla ricerca di un grumo sacro primordiale, là dove nasce la vita-morte. La luce può uscire solo da queste tenebre. Il fotogramma non può cogliere la realtà perché la pellicola impazzisce di buio o di un eccesso di luce, e la superficie dell’immagine perde di consistenza, si annulla. L’opera pittorica è uno scavo nel buio, nel buio della carne, nella carne delle immagini.


1 Andrea Cortellessa si è fermato sul linguaggio kantiano di Testori, riconducendolo a una possibile mediazione di Gadda, nel saggio ‘Discorso sugli occhi di Giovanni Testori’, Il Caffè illustrato, n. 29, marzo-aprile 2006, p. 53.

2 Per i saggi di Testori, si cita dalla raccolta La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, a cura di P.C. Marani, Milano, Longanesi, 1995. Il saggio sul Cairo, col titolo ‘Su Francesco del Cairo, Paragone, 27, marzo 1952, si trova nel volume alle pp. 275-289, e da qui si cita.

3 G. Testori, La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, p. 281.

4 Anche Rinaldo Rinaldi, in uno dei migliori saggi dedicati alla scrittura di Testori per l’arte (nel volume Il romanzo come deformazione, Milano, Mursia, 1985), inizia sottolineando la «tensione al baratro» della scrittura testoriana, e accenna alla distanza, pur nella discendenza, dall’equilibrio su cui si fonda invece la pagina critica di Roberto Longhi. Profondità vs superficie, dunque, e materia vs forma.

5 G. Testori, ‘Appunti su Ennio Morlotti’, Paragone, 33, settembre 1952, p. 24.

6 G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive [2007], tr. it. di M. Grazioli, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 252. In tutto questo discorso sulle modalità con cui Testori guarda l’interno delle immagini mi è stato guida utilissima il libro di Didi-Huberman, che non a caso si occupa di immagini sacre e di forme diverse di ‘incarnazione’.

7 Il secondo saggio sul Cairo, col titolo Se la realtà non è solo un fotogramma …, esce come introduzione al catalogo Francesco Cairo 1607- 1665, Varese 1983, e viene citato sempre dal volume G. Testori, La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, p. 302.

8 Ivi, p. 309.

9 R. Longhi, ‘Caravaggio’ [1952], in Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Miano, Mondadori, 2001, p. 837.

10 Ivi, p. 813.

11 Il saggio di Cesare Garboli, ‘Longhi lettore’, esce su Paragone-Arte, n. 367, 1980, ed è la relazione tenuta al Convegno fiorentino su Roberto Longhi del settembre 1980, di cui scrive lo stesso Testori sul Corriere della Sera, 2 ottobre. Poi viene raccolto nel volume Pianura proibita, Milano, Adelphi, 2002, col titolo ‘Longhi scrittore’, e poi di nuovo col titolo ‘Longhi lettore’ nel volume Storie di seduzione, Torino, Einaudi, 2005 (da qui si cita, p. 158).

12 G. Testori, La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, p. 303.

13 Ivi, p. 301.