D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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È di questi primi mesi del 2015 la pubblicazione, da parte dell’editore Gallucci di Roma, della traduzione italiana di Cataract (2011), uno degli ultimi testi dell’ecclettico critico d’arte, scrittore e intellettuale John Berger (Londra 1926), con il commento a china del disegnatore di origine turca Selçuk Demirel (Artvin 1954), collaboratore di giornali quali Le Monde e The New York Times. Dedicato al Centre Hospitalier National d’Ophtalmologie di Parigi, il libretto nasce da un’occasione specifica, ma contiene riflessioni il cui valore va ben oltre: gli interventi di asportazione delle cataratte, prima dall’occhio sinistro e circa un anno dopo, nel 2010, da quello destro, sono per Berger l’«esperienza che ha trasformato il mio modo di guardare», da cui ricava che «la superficie di tutto quel che guarda è coperta da una rugiada di luce».

La fine tessitura del testo fonde un’esile narrazione autobiografica a spunti saggistici, ma a prevalere sono le registrazioni degli accadimenti di natura visiva, non prive di intonazioni poetiche, il cui senso è amplificato dal doppio codice adoperato: sulla pagina di sinistra quello verbale, di Berger, sulla pagina di destra l’interpretazione figurativa di Selçuk, essenziale e sorridente. Lettura e visione procedono così unite, gli occhi possono cominciare dal disegno oppure dalle parole, e passare da queste a quello più volte.

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Ospitata al Grand Palais di Parigi, il 21 luglio 2014 si è conclusa quella che, a detta di molti, può essere considerata la più imponente esposizione dedicata finora a Bill Viola. Il saggio parte da lì e coglie l’occasione parigina per fare il punto su uno dei più importanti artisti contemporanei, nel tentativo di mostrarne il lavoro al di là del momento e delle tendenze. Come in genere accade per le grandi mostre, anche nel caso di Bill Viola – mostra dal titolo omonimo - tantissime sono state le recensioni della stampa internazionale. Di fronte a questa marea di pagine, alcune delle quali tese a mettere in evidenza, come sempre capita nei confronti di questo artista, l'aspetto ritenuto new age, orientale, spirituale, mistico e via di seguito, chi ne scrive ha sentito il bisogno di un approfondimento. Pur partendo dall’esposizione, il testo prende in esame tutta una serie di aspetti generalmente meno studiati e lo fa con un richiamo anche a opere non contemplate per la mostra. Muovendo da un’analisi dei singoli lavori, il saggio tenta, quindi, di mostrare la poetica di Bill Viola, sconfinando nei vari retroterra culturali che ne hanno permesso la maturazione.

Hosted at the Grand Palais (Paris) for four months, ended on July 21st 2014 what may be considered the most impressive exhibition ever dedicated to the art of Bill Viola. This essay starts from there, to take stock of one of the most important contemporary artists, in an attempt of showing his work beyond the time of the exhibition and the trends. The reason is quickly told. As, generally, occurs in case of major exhibitions - and so it also was for the Paris exhibition dedicated to Bill Viola - the reviews of the international press have been many. Faced with this flood of pages, some of which aimed to highlight, as always happens with Viola, the aspect considered new age, eastern, spiritual, mystical, and so on, it became necessary a deepening which, while taking its cue from the exhibition, takes into consideration a number of aspects generally less developed. Starting from an analysis of his works – not only the exhibited ones – the attempt is to show the poetics of Bill Viola, trespassing in the various cultural backgrounds that have allowed its growth.

 

Per molti artisti della generazione di Viola (New York, 1951), la tecnologia elettronica ha rappresentato una rivoluzionaria possibilità per lavorare con le immagini in movimento. Un’occasione straordinaria rispetto all’offerta data fino a quel momento dalla pellicola, materiale costoso e con una natura comunque statica. Con i suoi molteplici vantaggi – dovuti sia alla simultaneità e duttilità del segnale, che al supporto magnetico – la tecnologia elettronica ha aperto nuovi orizzonti di ricerca e conoscenza, con ripercussioni sorprendenti sulle dinamiche dello sguardo.

L’arte di Viola è parte di questo scenario, ma se ne è anche distinta, diventando un unicum nel contesto della sempre più numerosa famiglia videoartistica internazionale.

L’intero lavoro dell’artista statunitense, uomo colto e attento osservatore della propria epoca, ha tra gli elementi portanti una profonda e aggiornata conoscenza della tecnologia. Il suo utilizzo concorre a declinare una struttura, una forma e gli esiti estetici di una visione che in Viola assume i tratti di una pratica contemplativa. Contravvenendo agli schemi comunicativi dominanti, la visione di Viola è, infatti, innanzitutto un’«idea» al servizio della conoscenza. Per essere alimentata ha bisogno di scorrere lungo le linee del tempo, dello spazio e del sapere che, nelle varie indagini estetiche condotte dall’artista nell’arco della sua carriera, appaiono dilatati, potenziati e infranti nei rispettivi limiti. Inoltre, per essere condivisa, l’idea, o visione, necessita anche di essere tradotta in una forma adeguata, chiaramente accessibile e percepibile dallo spettatore.

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L’esperienza di Testori come critico d’arte prende avvio nel 1952 con la pubblicazione su Paragone, complice la mediazione di Longhi, di un saggio su Francesco Cairo. Fin da questo esordio lo scrivano lombardo mostra un potente intuito nella lettura delle immagini, uno spiccato interesse per la ‘grana’ (impasto) materica del colore, e così va costruendo un nuovo paradigma critico, fondato sul continuo scambio fra letteratura e storiografia, fra cronaca e filologia. Il saggio ripercorre la tensione stilistica dei contributi su Cairo, secondo un minuzioso pedinamento delle definizioni più emblematiche, individua i prestiti longhiani e analizza il superamento testoriano del concetto di fotogramma.

Testori’s activity as an art critic begins in 1952 with the publication of an essay on Francesco Cairo in the journal Paragone, promoted by Roberto Longhi himself. From this debut Testori shows an excellent ability to interpret images and an extraordinary interest in the materiality of colours. He thus establishes a new critical approach combining literature and historiography, chronicle and philology. This paper focuses on Testori’s essays on Cairo and highlights the intertwining with Longhi’s work, aiming at understanding the interpretation of the concept of ‘photogram’ (fotogramma) offered by Testori.

 

1. Francesco Cairo e i segreti della carne

Il battesimo ufficiale di Testori come critico d’arte avviene sul numero 27 di Paragone (1952), la rivista di Roberto Longhi. Testori si è già occupato di pittura, fin da giovanissimo: ha scritto su Dosso Dossi nella rivista del GUF bolognese, ha scritto su Leonardo e Giorgione in una rivista forlivese (Pattuglia), e di qui a pochi mesi, sempre su Paragone, pubblicherà il primo discorso critico su Ennio Morlotti, l’artista contemporaneo a lui più caro.

Ma ora, sia per l’argomento – il pittore lombardo Francesco (del) Cairo – sia per il piglio del saggio, sembra che l’impegno vada nella direzione esplicita di critica d’arte impostata su una scrittura fortemente espressiva, secondo il modello longhiano. In realtà il saggio ancor oggi si rivela un tour de force stilistico e interpretativo, tanto che – volendo ripercorrerlo – bisogna tener presente che è un discorso magmatico che affonda, e si nutre, nel magma pittorico. La scrittura vuole essere l’equivalente della materia pittorica.

Testori conduce il suo ragionamento su due livelli, che continuamente interagiscono uno sull’altro: un livello di ‘critica’ tradizionale (formazione del pittore, modelli, evoluzione) e un livello di interpretazione più ampia, avvolgente, dove il Cairo diventa l’esempio di una prospettiva che riguarda il fare artistico in senso generale, anzi potremmo dire un’idea stessa di pittura. E da qui questa idea si evolverà, saggio dopo saggio, intervento dopo intervento, per tutto il percorso di Testori critico d’arte.

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La lotta consiste nel fatto che il tiratore mira a se stesso – eppure non a se stesso – e così è insieme miratore e bersaglio, colui che colpisce e colui che è colpito.

E. Herrigel


 

Sono dodici le interviste che compongono il volume Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998), omaggio a Cartier-Bresson, edito recentemente da Contrasto a cura di Julie Jones e Clément Chéroux in occasione della più grande retrospettiva mai dedicata al fotografo francese dal Centre Pompidou di Parigi, curata dallo stesso Chéroux che ne dirige il Dipartimento di Fotografia e ancora per pochi giorni a Roma al Museo dell’Ara Pacis.

I testi abbracciano ben mezzo secolo di vita e di carriera dell’artista consentendo di rintracciare la sostanziale continuità, etica ed estetica, che ne ha guidato le scelte, scaturendo questa non tanto da una riflessione sistematica quanto da un’istintiva coerenza nei confronti dei propri princìpi, dalla fedeltà di uno sguardo a se stesso. Le parole di Bresson tuttavia ci restituiscono un’immagine di uomo e di artista niente affatto statica ed etichettabile, le cui scelte e i cui interessi appaiono come il frutto dell’entusiasmo di uno sguardo di volta in volta appagato dai diversi mezzi d’espressione visiva, uno sguardo spettatore e testimone di un mondo attraversato da grandi cambiamenti, i quali hanno inevitabilmente influenzato (in modo negativo secondo Bresson) sia il mestiere del fotografo sia la fruizione delle immagini da parte del pubblico.

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Una donna emerge dal buio: il busto di tre quarti, il volto semicoperto da una veste, una mano alla bocca e le sopracciglia leggermente aggrottate. Lo sguardo cattura l’attenzione, l’unico occhio che le si vede è velato, metallico, innaturale: cieco. Si tratta del ritratto fotografico di una rifugiata, scattato nel 1985 in Mali da Sebastião Salgado.

La voce che ce lo rivela è quella di Wim Wenders, regista del documentario Il sale della terra, diretto a quattro mani con il videomaker Juliano Ribeiro Salgado che ha iniziato la propria carriera seguendo il padre in alcune campagne fotografiche.

È difficile stabilire se il regista tedesco dica la verità quando racconta di aver acquistato la foto in questione da un gallerista molti anni prima, senza conoscerne l’autore, attirato solo dalla forza magnetica del non-sguardo espressivo e dolente di quella donna e dalle ombre pesanti che le disegnano il volto e le mani. O se questo non sia solo un espediente narrativo per mettere in moto la trama del documentario che parla della vita (delle ‘vite’, verrebbe da dire) e delle opere di Sebastião Salgado. Classe 1944, brasiliano, studi in Economia, in fuga dal proprio paese sul finire degli anni ’60 durante la dittatura. Dopo l’arrivo in Europa con la moglie Lelia, Salgado dapprima gira il mondo al seguito di alcune importanti aziende per le quali lavora. Nel 1973, d’accordo con Lelia, decide di abbandonare la professione di economista e di seguire la propria vocazione di fotografo. Si assenta da casa per settimane, e a volte mesi, per inseguire i propri soggetti: lavoratori, profughi, bambini, donne. Si reca più volte in Africa (Mali, Mozambico, Angola), in America Latina, in Medio Oriente, in Artide. E ogni volta che imbraccia la sua inseparabile Leica scandaglia i corpi e le anime delle persone che ritrae, senza mai mancare di rispetto al loro dolore, anzi riesce a tal punto a imprimere nelle immagini le sofferenze dei soggetti ritratti che queste sembrano risuonare attraverso le fotografie. Da tali lunghi viaggi scaturiscono le sue opere, monumentali sia per la quantità degli scatti che per la forza espressiva: Other Americas (1986), frutto del suo lungo soggiorno tra le comunità andine del suo continente; Sahel: Man In Distress (sempre 1986), sulla terribile carestia che aveva afflitto la regione africana; Workers (1993) una sorta di internazionale dei lavoratori di tutte le latitudini; e infine Genesis (2003) monumentale fatica (fino ad un mese fa in mostra anche a Milano) in cui l’elemento umano lascia spazio al paesaggio, in un corpus di immagini che sembra realizzato nella notte dei tempi, all’origine di tutto.

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Leggere questo libro è stato prima di tutto un grande piacere. Un piacere degli occhi e delle mani. Gli occhi che attraversano le fotografie di Zoltan Fazekas; le mani che scorrono tra le pagine con la levità, la gaiezza, la forza che un ebook così costruito sa dare. Perché La regola di Korim è un vero libro digitale (Scrimm Edizioni, Catania 2014) e non la mera trasposizione elettronica di un volume cartaceo. No, questo libro non potrebbe essere analogico.

Non potrebbe esserlo per la misura delle immagini e per i loro dettagli; per la raffinatezza delle note a piè di pagina che scorrono nel loro angolo in maniera tanto funzionale quanto elegante; per le fotografie dentro la pagina, che si possono ingrandire ma anche semplicemente lasciare alla loro dimensione iniziale e osservare una dopo l’altra, non ‘in alternativa’ ma ‘accanto’ al testo scritto; per la possibilità di vedere in anteprima le pagine che compongono un intero capitolo; per l’estrema facilità con la quale si può sottolineare il testo, evidenziarlo, prendere appunti, scrivere note; per la funzione – utilissima – che permette di vedere raccolte in un’unica schermata o in singole ‘schede studio’ tutte le sottolineature e tutti gli appunti presi durante la lettura. Sì, è tutto quello che si fa con un libro stampato su carta ma anche di più, anche meglio e prima. L’eleganza del carattere, delle colonne e dei margini completa la bellezza di questo ‘oggetto’.

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Ci sono a nostro avviso due percorsi di lettura per incamminarsi Verso Klee. Il primo è quello che si interroga sui momenti di incontro della poetica di Tam Teatromusica con l’artista. Il secondo tragitto chiama in causa l’opera di Paul Klee, invitando ad una riflessione su un punto nodale e poco esplorato del suo lavoro: il suo rapporto con il teatro.

Se la forte presenza delle arti visive che segna le pratiche e la poetica di Tam Teatromusica sin dall’origine ne connota i lavori a livello strutturale (in termini di composizione, di originale rielaborazione delle citazioni, di impiego della luce come disegno, forma e colore), nella Trilogia della pittura il gruppo padovano, fondato nel 1980, si confronta in modo più esplicito con figure di pittori. Non si pensi però alla ricostruzione del percorso biografico degli artisti scelti, e tantomeno ad una illustrazione della loro opera.

Anima blu (2007) è un’immersione nella pittura di Marc Chagall che fa affiorare in movimento i motivi della sua opera attraverso l’indagine sulle possibilità della ‘pittura di luce’, intrecciando la semplicità del quotidiano all’universo della fantasia e caricando di sonorità le immagini.

Picablo (2011) sin dal titolo pone l’accento sulla personalità multiforme di Picasso, dispiegata secondo un tempo che ricompone in simultaneità le suggestioni di uno sguardo stratificato.

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Negli ultimi anni l’Europa ospita sempre più frequentemente le creazioni di Saburo Teshigawara, l’artista che qualche anno fa suscitò un certo scalpore e curiosità per una sua coreografia danzata su frammenti di vetro (Glass Tooth, 2006, vista a Romeuropa Festival nel 2009). Non si trattava di un facile effetto giocato sul filo del rischio, ma della tappa di un percorso di ricerca perseguito con coerenza, nell’instancabile rimessa in questione degli esiti raggiunti. Lo dimostrano le ultime creazioni presentate nel nostro paese, in Francia (Parigi ha visto le sue coreografie danzate dall’Opéra – Darkness is hiding black horses –, nel novembre 2013, mentre a maggio il tour francese ha toccato Chaillot, La maison du Japon de Paris, La maison de la Culture, Nîmes, il Festival di Marsiglia) in Germania, con una performance, di cui diremo, alla Ruhrtriennale di Heiner Goebbels. Partecipazioni significative non solo per una semplice questione di risonanza internazionale, ma perché quasi sempre si tratta di nuove creazioni, dunque di progetti ad hoc, quando non pensati (o ri-pensati) specificamente per il luogo. E spesso inseriti in contesti aperti alle interazioni tra le arti, piuttosto che strettamente legati al mondo della danza. È questo il paesaggio in cui si inserisce anche l’iniziativa “Sculture d’aria”, un seminario previsto a Padova il 19 ottobre, durante il quale il coreografo dialogherà col pubblico, esplicitando le intime correlazioni fra materie e linguaggi diversi alla base dei suoi ‘testi’.

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