Henri Cartier-Bresson, Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998)

di

     
Categorie



 

La lotta consiste nel fatto che il tiratore mira a se stesso – eppure non a se stesso – e così è insieme miratore e bersaglio, colui che colpisce e colui che è colpito.

E. Herrigel


 

Sono dodici le interviste che compongono il volume Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998), omaggio a Cartier-Bresson, edito recentemente da Contrasto a cura di Julie Jones e Clément Chéroux in occasione della più grande retrospettiva mai dedicata al fotografo francese dal Centre Pompidou di Parigi, curata dallo stesso Chéroux che ne dirige il Dipartimento di Fotografia e ancora per pochi giorni a Roma al Museo dell’Ara Pacis.

I testi abbracciano ben mezzo secolo di vita e di carriera dell’artista consentendo di rintracciare la sostanziale continuità, etica ed estetica, che ne ha guidato le scelte, scaturendo questa non tanto da una riflessione sistematica quanto da un’istintiva coerenza nei confronti dei propri princìpi, dalla fedeltà di uno sguardo a se stesso. Le parole di Bresson tuttavia ci restituiscono un’immagine di uomo e di artista niente affatto statica ed etichettabile, le cui scelte e i cui interessi appaiono come il frutto dell’entusiasmo di uno sguardo di volta in volta appagato dai diversi mezzi d’espressione visiva, uno sguardo spettatore e testimone di un mondo attraversato da grandi cambiamenti, i quali hanno inevitabilmente influenzato (in modo negativo secondo Bresson) sia il mestiere del fotografo sia la fruizione delle immagini da parte del pubblico.

Surrealista, classicista, fotoreporter, Henri Cartier-Bresson in ogni momento fu «ossessionato dal piacere visivo», dalla scoperta (ma mai dalla costruzione) di un «ordine plastico salvifico», dall’ improvviso organizzarsi della realtà in una ‘forma’ che rendesse eterno e significante ciò che è fugace e contingente nel caotico divenire della vita. È qualcosa di molto simile a ciò che Breton chiamava «caso oggettivo», ovvero quell’ «incontro di una casualità esterna con una finalità interna», e la macchina fotografica sembra essere lo strumento più adatto per cogliere questo ‘caso’, l’intimo, istintivo accordo tra soggetto e oggetto.

 H. Cartier-Bresson, Quai St Bernard, vicino la stazione ferroviaria Gare d’Austerlitz, Parigi, Francia, 1932

Il fotografo francese cattura, tramite la sua Leica, le epifanie della forma che non a tutti è concesso vedere: quello di Bresson è uno sguardo educato innanzitutto dalla pittura («la pittura mi ha insegnato a vedere»), primo e duraturo amore, alimentato da una non casuale predilezione per quei pittori ‘geometri’ come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Van Eyck, Cézanne. Per Bresson l’attenzione verso la composizione si lega e trae forza dall’utilizzo del bianco e nero, al quale egli rimase quasi sempre fedele, intendendolo come un mezzo di astrazione: strumento che trasfigura la realtà e consente una visione non ‘normale’, accentua la potenza emotiva delle immagini e, soprattutto, agisce da mise en relief della forma, sottolinea la struttura delle cose.

 H. Cartier-Bresson, Cicladi. Isola di Sifnos, Grecia, 1961

Uomo più d’azione che di parole, Bresson non ha scritto molto sulla pratica fotografica, pochi testi oltre alla preziosa introduzione di Images à la sauvette, alla cui stesura fu incitato dall’editore ed amico Tériade. Il quasi involontario teorizzatore dell’‘istante decisivo’ racconta in queste interviste di non amare che si parli troppo di fotografia. D’accordo con Matisse, che suggeriva ai suoi allievi di tagliarsi la lingua per imparare a dipingere, Bresson sostiene che «per guardare bene, bisognerebbe imparare a diventare sordomuti», occorrerebbe cioè abbandonarsi alla gioia visiva, smettere di pensare, di volere, di spiegare. Al contrario l’arte nata nell’era del consumismo post-bellico appare intenta solo a ritrarre le proprie ossessioni, a riflettere su se stessa, chiusa in un’arida autoreferenzialità. La vera fotografia, non deve dimostrare una tesi, non è propaganda, va intesa piuttosto come una scintilla di verità estorta al mondo: è una storia raccontata tramite un dettaglio, così come – sostiene Bresson – un romanzo contiene molta più verità e forza persuasiva di un trattato o un pamphlet, poiché non passa solo per l’intelletto ma «per tutti i canali nervosi, per l’immaginazione».

Negli anni Settanta il disegno torna a essere il mezzo d’espressione prediletto da Bresson che perciò abbandona la fotografia, incapace per sua stessa ammissione di dedicarsi contemporaneamente a «due cose così simili e così contrastanti». Se la Leica è un «quaderno di schizzi», lo strumento per un «disegno accelerato», la più grande differenza tra i due medium (matita e obiettivo) consiste proprio nel rapporto col tempo; «la fotografia è l’azione immediata, il disegno, la meditazione», anche se si tratta sempre di «fermare qualcosa, lottare contro il tempo». Ma per Bresson ciò che più conta, al di là del mezzo e della contemplazione del risultato finale, è l’atto del guardare. Emblematico, a questo proposito, è il curioso regalo fattogli da Saul Steinberg: una macchina fotografica di legno attraverso la quale «guardare, trovare l’ordine, diventa quasi un fine a sé».

Tra le pagine del libro scopriamo non solo il fotografo ma anche l’uomo, ne cogliamo il temperamento nervoso e sempre in tensione verso qualcosa, lo spirito avventuriero, il «libertario» refrattario ai dogmi come ad ogni forma di potere, amante della letteratura francese e affascinato dalla filosofia buddhista. Bresson si diverte a raccontare dei suoi viaggi, dell’esperienza umana e cinematografica con Jean Renoir, dei ricordi condivisi con gli amici e colleghi Capa e Seymour, della fondazione dell’agenzia Magnum, e non di rado affiora la nostalgia per un vecchio mondo, e per un’etica del lavoro, ormai perduti a vantaggio del consumismo e della tecnocrazia.

E come suggerito anche da alcune di queste interviste, la vita e l’opera di Cartier-Bresson sembrano riassumersi nel finale dell’Ulysses di Joyce: si tratta di un’unica, vitale, libera, appassionata affermazione nei confronti della vita, si tratta di un «Sì! Sì! Sì!» dello sguardo.