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La lotta consiste nel fatto che il tiratore mira a se stesso – eppure non a se stesso – e così è insieme miratore e bersaglio, colui che colpisce e colui che è colpito.

E. Herrigel


 

Sono dodici le interviste che compongono il volume Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998), omaggio a Cartier-Bresson, edito recentemente da Contrasto a cura di Julie Jones e Clément Chéroux in occasione della più grande retrospettiva mai dedicata al fotografo francese dal Centre Pompidou di Parigi, curata dallo stesso Chéroux che ne dirige il Dipartimento di Fotografia e ancora per pochi giorni a Roma al Museo dell’Ara Pacis.

I testi abbracciano ben mezzo secolo di vita e di carriera dell’artista consentendo di rintracciare la sostanziale continuità, etica ed estetica, che ne ha guidato le scelte, scaturendo questa non tanto da una riflessione sistematica quanto da un’istintiva coerenza nei confronti dei propri princìpi, dalla fedeltà di uno sguardo a se stesso. Le parole di Bresson tuttavia ci restituiscono un’immagine di uomo e di artista niente affatto statica ed etichettabile, le cui scelte e i cui interessi appaiono come il frutto dell’entusiasmo di uno sguardo di volta in volta appagato dai diversi mezzi d’espressione visiva, uno sguardo spettatore e testimone di un mondo attraversato da grandi cambiamenti, i quali hanno inevitabilmente influenzato (in modo negativo secondo Bresson) sia il mestiere del fotografo sia la fruizione delle immagini da parte del pubblico.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

Riprese audio-video e montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato.

 

D: Il suo rapporto con la letteratura è stato da sempre molto intenso già a partire dall’esordio in collaborazione con Leonardo Sciascia: come si gioca per lei questa scommessa della relazione fra fotografia e narrazione?

R: Io ho avuto grande fortuna nel rapporto con la letteratura ma anche una grande difficoltà nel rapporto con la scrittura. Il rapporto con la letteratura nasce dalla mia storia di fotografo, che trova in Leonardo Sciascia il mio interlocutore fondamentale. Quando ho avuto la fortuna di cercarlo e di incrociarlo lui ha avuto nei confronti di quello che io stavo già facendo da un paio d’anni, quello che io chiamo un ‘effetto retroattivo’, perché mi ha fatto capire che io non stavo facendo un lavoro di tipo antropologico-documentaristico ma, bontà sua, diceva: «di racconto, narrazione». Poi c’è stata la costruzione di quel primo libretto, libretto che quando era piccolo era più grande di quello grande. [Feste religiose in Sicilia, Leonardo, 1965]

La struttura di quel libro l’abbiamo fatta insieme. Veniva naturale, perché si trattava di fare un libro nel quale mettevamo insieme dei piccoli reportage su varie feste, quindi era come fosse un’antologia di racconti visivi. E c’era il testo di Sciascia, prima. Però col tempo io, e anche altri, ci siamo resi conto che quel testo non era una prefazione, era consustanziale al libro. Era in un certo senso, per me che avevo vent’anni, addirittura al di sopra delle mie possibilità di gestione di questa visione delle cose, perché la mia enciclopedica ignoranza, che ancora impera, allora era ancora più ciclopica. Ma, per esempio, nella struttura del libro Sciascia aveva fatto precedere ciascuna delle serie sulle feste da un ‘gesto letterario’, per cui c’era un piccolo poema popolare, il retro di un santino, una citazione, a parte quel bellissimo finale con Pascal: quindi il libro si strutturava come un libro letterario. Era come se fosse un libro di racconti che poteva anche essere visto come un libro di antropologia, in definitiva. Così, però, non era, perché la mia scelta snobistica – io sono riuscito ad essere snob prima ancora di avere gli strumenti per esercitare dello snobismo – era quella di non andare a certe feste importanti come il festino di Palermo, la festa di Sant’Agata, i misteri di Trapani, perché erano turistiche. Solo qualche asino che sbagliava strada passava da quelle parti, però io cercavo proprio l’autenticità. Quindi questo libro si presentava come un libro di racconti.

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Ferdinando Scianna nasce a Bagheria nel 1943. Alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo frequenta le lezioni di Cesare Brandi, ma non completa gli studi. Nel 1963 conosce Leonardo Sciascia e, insieme con lui, pubblica il primo dei numerosi libri che sarebbero nati dal loro sodalizio: Feste religiose in Sicilia (1965), con il quale vince il Premio Nadar. Subito dopo lascia la Sicilia e si trasferisce a Milano. Nel 1967 viene assunto dall’Europeo come fotoreporter e inviato speciale. In seguito si trasferisce a Parigi dove vive per dieci anni e continua a lavorare per lo stesso settimanale come corrispondente.

Nel 1982 è il primo fotografo italiano ad essere ammesso alla Magnum, grazie alla presentazione di Henri Cartier-Bresson. Nel 1987 inizia una collaborazione con l’allora esordienti Dolce e Gabbana, che lo introducono nel mondo della moda: lavora con successo internazionale per una decina d’anni. Continua in quegli stessi anni l’attività fotogiornalistica e scrive per diverse testate italiane e francesi articoli di critica fotografica. Una raccolta di questi articoli viene pubblicata nel 2001 da Rizzoli con il titolo di Obiettivo ambiguo.

I più di trenta libri pubblicati in circa cinquant’anni di attività disegnano la mappa delle sue scorribande nel mondo reale ed editoriale, attraversando con disinvoltura con la sua macchiana fotografica e la sua penna continenti come generi e forme di scrittura, dalla Sicilia (La villa dei mostri e Les Siciliens, 1977; Sicilia ricordata, 2001) ai suoi «dintorni» – come scrive Sciascia (Kami: minatori sulle Ande boliviane, La scoperta dell’America, Ore di Spagna, 1988; Viaggio a Lourdes, 1996); dal fotogiornalismo all’inchiesta antropologica fino ai cataloghi di moda (Marpessa, un racconto, 1993; Altrove, reportage di moda, 1995); dai libri tematici, «repertorio» delle sue ossessioni (Città del mondo, 1988; Dormire, forse sognare, 1997; Mondo bambino, 2002) a quelli antologici (Le forme del caos, 1989; La geometria e la passione, 2009); dalle altre «chiacchiere sulla fotografia» – è lui stesso a definirle così –, che fanno seguito a quelle raccolte in Obiettivo ambiguo (Baaria, Bagheria. Dialogo sulla memoria, il cinema, la fotografia, con Giuseppe Tornatore, 2009; Etica e fotogiornalismo, 2010) all’autobiografia (Autoritratto di un fotografo, 2011). La voglia di «raccontare i tatti propri» e, insieme, della grande famiglia allargata delle sue amicizie si è rivelata negli ultimi anni l’istanza più forte, soprattutto nella trilogia fototestuale il cui primo capitolo è costituito dallo straordinario ‘romanzo della memoria’ Quelli di Bagheria (2002), seguito dalle due puntate più recenti di Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014).

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