Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

Riprese audio-video e montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato.

 

D: Il suo rapporto con la letteratura è stato da sempre molto intenso già a partire dall’esordio in collaborazione con Leonardo Sciascia: come si gioca per lei questa scommessa della relazione fra fotografia e narrazione?

R: Io ho avuto grande fortuna nel rapporto con la letteratura ma anche una grande difficoltà nel rapporto con la scrittura. Il rapporto con la letteratura nasce dalla mia storia di fotografo, che trova in Leonardo Sciascia il mio interlocutore fondamentale. Quando ho avuto la fortuna di cercarlo e di incrociarlo lui ha avuto nei confronti di quello che io stavo già facendo da un paio d’anni, quello che io chiamo un ‘effetto retroattivo’, perché mi ha fatto capire che io non stavo facendo un lavoro di tipo antropologico-documentaristico ma, bontà sua, diceva: «di racconto, narrazione». Poi c’è stata la costruzione di quel primo libretto, libretto che quando era piccolo era più grande di quello grande. [Feste religiose in Sicilia, Leonardo, 1965]

La struttura di quel libro l’abbiamo fatta insieme. Veniva naturale, perché si trattava di fare un libro nel quale mettevamo insieme dei piccoli reportage su varie feste, quindi era come fosse un’antologia di racconti visivi. E c’era il testo di Sciascia, prima. Però col tempo io, e anche altri, ci siamo resi conto che quel testo non era una prefazione, era consustanziale al libro. Era in un certo senso, per me che avevo vent’anni, addirittura al di sopra delle mie possibilità di gestione di questa visione delle cose, perché la mia enciclopedica ignoranza, che ancora impera, allora era ancora più ciclopica. Ma, per esempio, nella struttura del libro Sciascia aveva fatto precedere ciascuna delle serie sulle feste da un ‘gesto letterario’, per cui c’era un piccolo poema popolare, il retro di un santino, una citazione, a parte quel bellissimo finale con Pascal: quindi il libro si strutturava come un libro letterario. Era come se fosse un libro di racconti che poteva anche essere visto come un libro di antropologia, in definitiva. Così, però, non era, perché la mia scelta snobistica – io sono riuscito ad essere snob prima ancora di avere gli strumenti per esercitare dello snobismo – era quella di non andare a certe feste importanti come il festino di Palermo, la festa di Sant’Agata, i misteri di Trapani, perché erano turistiche. Solo qualche asino che sbagliava strada passava da quelle parti, però io cercavo proprio l’autenticità. Quindi questo libro si presentava come un libro di racconti.

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Ferdinando Scianna è sempre stato «un fotografo che scrive», ma se in un primo momento parole e immagini sono state da lui utilizzate parallelamente nell’attività fotografica e in quella giornalistica, con Quelli di Bagheria (2002), con La geometria e la passione (2009) e soprattutto con i suoi libri più recenti, ha scelto di coniugare in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale, confermando le sue indubitabili doti di doppiotalento. Nel saggio vengono analizzate proprio quelle opere in cui, a partire da Quelli di Bagheria fino ai Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014), dalla sovrapposizione e dall’accostamento della «scrittura di luce» a quella d’inchiostro nascono straordinari esempi di narrazione fototestuale.

Ferdinando Scianna’s always been «un fotografo che scrive». At the first time he used separately words and images both in photography as in the journalism; in recent years he reveals his ‘doubletalent’, making use of verbality and visuality in the same format.  The aim of this paper is to analyze the books, from Quelli di Bagheria to Ti mangio con gli occhi (2013) and Visti&Scritti (2014), which represent typical examples of phototexts, origined by unusual combination of «light writing» and ink writing.

 

Sin da quel primo straordinario libro d’esordio, che resta forse ancora dopo cinquant’anni il suo testo più affascinante, Ferdinando Scianna ha sempre sentito il bisogno di accompagnare le sue fotografie con le parole. Feste religiose in Sicilia (1965), infatti, oltre ad essere introdotto dal saggio di Leonardo Sciascia Una candela al santo una al serpente e oltre le epigrafi scelte dallo scrittore siciliano in un repertorio vasto che va dai testi letterari alle immaginette votive, presenta nella prima edizione, in appendice, delle brevi didascalie narrative di pugno del fotografo (scomparse poi nella più elegante seconda edizione dell’87) che raccontano le feste rappresentate negli scatti.[1]

Del resto, che fosse «un fotografo che scrive»[2] Ferdinando Scianna lo lascia intuire chiaramente con Quelli di Bagheria (2002) e La geometria e la passione (2009), e in più lo dichiara lui stesso nell’Autoritratto di un fotografo (2011), scritto par lui-même qualche anno fa, mentre continua a ricordarcelo ogni tanto con quelle straordinarie cartoline che appaiono sul portale di Doppiozero. Sembrano proprio queste ultime a suggerire la formula più congeniale a Scianna per far dialogare alla perfezione i suoi scatti e le sue parole e per dar voce ad un racconto che – confermandoci ormai le sue indubitabili doti di doppiotalento – coniuga in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale.

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