Nell’ambito del festival Fotografia Europea di Reggio Emilia, dedicato a Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro, si è conclusa di recente la mostra curata da Laura Gasparini e da Alberto Ferraboschi Paul Strand e Cesare Zavattini. Un paese. La storia e l’eredità (Palazzo Magnani, 5 maggio – 9 luglio 2017). Edito per Einaudi nel 1955, Un paese accoglie l’affascinante connubio tra la poetica neorealista, magistralmente incarnata da Cesare Zavattini, e il rigoroso realismo del fotografo americano Paul Strand, rivestendo un ruolo di primo piano nella storia del fototesto italiano. Chiunque recuperi dalla memoria o legga le oramai rare pagine del volume può vedere come le parole e le immagini in esso contenute sembrino germinare da una comune intenzione, quella di ritrarre la storia e la vita della civiltà contadina a partire da un punto di osservazione privilegiato, Luzzara, piccola città della Bassa padana e paese natale di Zavattini. Sulla conformazione del territorio e sull’economia di Luzzara, sui mestieri e sulle abitudini dei suoi abitanti, si soffermano i testi elaborati da Zavattini, che sotto forma di intervista fungono da corredo verbale alle raffinate fotografie di Paul Strand.

A distanza di più di sessant’anni dalla prima pubblicazione del volume, la mostra ospitata al Palazzo Magnani di Reggio Emilia torna a far vivere quelle immagini, frammenti esemplificativi di una ricerca sui luoghi e sui volti che, complici le impassibili pose e l’estrema cura formale delle fotografie, tende alla rivelazione di un rapporto simbiotico tra l’individuo e l’ambiente di appartenenza. Ad essere esposti non sono soltanto gli scatti di Paul Strand, ma anche quelli della moglie Hazel Kingsbury, che nella prima metà degli anni Cinquanta, durante le fasi di realizzazione del progetto su Luzzara, segue il marito riprendendo a sua volta paesaggi, oggetti, figure umane che rispetto al rigore con cui Strand guarda ai suoi soggetti, restituiscono un’immagine più informale della realtà luzzarese. La celebre fotografia della famiglia Lusetti, riprodotta anche nella copertina del volume einaudiano, può rappresentare un valido esempio dell’eterogeneità dei due sguardi: sul recto, la ricercata geometria e l’austerità delle espressioni visibili nella fotografia di Strand; sul lato opposto, la sorridente spontaneità dello scatto di Hazel.

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

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Ferdinando Scianna è sempre stato «un fotografo che scrive», ma se in un primo momento parole e immagini sono state da lui utilizzate parallelamente nell’attività fotografica e in quella giornalistica, con Quelli di Bagheria (2002), con La geometria e la passione (2009) e soprattutto con i suoi libri più recenti, ha scelto di coniugare in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale, confermando le sue indubitabili doti di doppiotalento. Nel saggio vengono analizzate proprio quelle opere in cui, a partire da Quelli di Bagheria fino ai Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014), dalla sovrapposizione e dall’accostamento della «scrittura di luce» a quella d’inchiostro nascono straordinari esempi di narrazione fototestuale.

Ferdinando Scianna’s always been «un fotografo che scrive». At the first time he used separately words and images both in photography as in the journalism; in recent years he reveals his ‘doubletalent’, making use of verbality and visuality in the same format.  The aim of this paper is to analyze the books, from Quelli di Bagheria to Ti mangio con gli occhi (2013) and Visti&Scritti (2014), which represent typical examples of phototexts, origined by unusual combination of «light writing» and ink writing.

 

Sin da quel primo straordinario libro d’esordio, che resta forse ancora dopo cinquant’anni il suo testo più affascinante, Ferdinando Scianna ha sempre sentito il bisogno di accompagnare le sue fotografie con le parole. Feste religiose in Sicilia (1965), infatti, oltre ad essere introdotto dal saggio di Leonardo Sciascia Una candela al santo una al serpente e oltre le epigrafi scelte dallo scrittore siciliano in un repertorio vasto che va dai testi letterari alle immaginette votive, presenta nella prima edizione, in appendice, delle brevi didascalie narrative di pugno del fotografo (scomparse poi nella più elegante seconda edizione dell’87) che raccontano le feste rappresentate negli scatti.[1]

Del resto, che fosse «un fotografo che scrive»[2] Ferdinando Scianna lo lascia intuire chiaramente con Quelli di Bagheria (2002) e La geometria e la passione (2009), e in più lo dichiara lui stesso nell’Autoritratto di un fotografo (2011), scritto par lui-même qualche anno fa, mentre continua a ricordarcelo ogni tanto con quelle straordinarie cartoline che appaiono sul portale di Doppiozero. Sembrano proprio queste ultime a suggerire la formula più congeniale a Scianna per far dialogare alla perfezione i suoi scatti e le sue parole e per dar voce ad un racconto che – confermandoci ormai le sue indubitabili doti di doppiotalento – coniuga in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale.

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