Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Le realtà alternative, le trame ambigue dei film di David Lynch e i protagonisti che le abitano sono stati spesso forieri di riflessioni sull’estetica delle sue opere, sull’aspetto perturbante che le accomuna e, non da ultimi, sugli stati della mente dei personaggi, presi ad esempio anche nell’ambito degli studi psicanalitici. Nel ripercorrere la filmografia del regista statunitense, il saggio affronta un’analisi delle scene che più concorrono a trasmettere una sensazione inquietante e straniante allo spettatore, rilevando come Lynch abbia scelto di caratterizzare queste particolari scene con elementi che rimandano al teatro o di circoscriverle su un vero e proprio palcoscenico. Si è cercato dunque di dare un’interpretazione alla scelta registica di rinviare all’estetica del teatro nei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere, per mezzo di un’analisi semiologica e iconografica che non manca di approfondire anche lo stile recitativo impiegato in queste cornici perturbanti.

The alternative realities and the ambiguous plots of the movies of David Lynch, together with the protagonists that inhabit them, have been the object of studies about both his aesthetics and the uncanny behaviours of those characters. While tracing a path along the filmography of the American director, the essay analyses some of the most meaningful scenes that inspire eerie and alienating sensations to the spectator, with the aim to highlight how these particular scenes are distinguished by a peculiar theatrical space setting or acting. The author investigates this director’s choice through a semiological and iconographical analysis, deepening also the acting style employed in these uncanny frames that furthermore are often a solution key of the events.

 

 

Chissà perché ho il pallino dei sipari

dal momento che non ho mai fatto teatro.[1]

 

 

Le riflessioni proposte negli ultimi trent’anni sulle opere di David Lynch sono molte, stimolate nella maggior parte dei casi dal singolare modo di raccontare del regista, dalla particolare poetica che sottende i suoi film e soprattutto dal desiderio di aggiungere un’interpretazione alle realtà in essi narrate, spesso ambigue e poco comprensibili. Nel tentativo della ricerca di un senso, molti studiosi si sono avvalsi delle teorie sviluppate in ambito psicologico o psicanalitico, partendo da Sigmund Freud, passando da Jacques Lacan, per finire con Slavoj Žižek.[2] Certo, sin dai primi film Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980) – senza escludere cortometraggi come Grandmother (1969) – la struttura narrativa con cui Lynch compone le sue opere potrebbe essere assimilabile a quella che definisce le realtà vissute da chi soffre di disordini mentali e indagate in ambito psichiatrico. Gli studi incentrati sull’analisi psicologica dei protagonisti e delle loro fantasie non sono però sufficienti a comprendere la poetica lynchiana, per la quale invece andranno prese in considerazione altre questioni di ordine estetico. Se è vero che il fascino perturbante delle opere di Lynch risiede nel suo saperci condurre in mondi oscuri, incomprensibili, i cui confini spesso sfumano in realtà impossibili che dall’inconscio (da stati onirici o allucinatori) trascendono nel soprannaturale, è altrettanto vero che a renderle ineguagliabili è lo sguardo eclettico del regista che fa uso sapiente dei diversi registri – iconografico, musicale, linguistico – per tesserli in un montaggio che si concede i tempi dell’ostensione e le sospensioni per una riflessione. Inoltre, il regista ci pone spesso di fronte all’ostentazione della finzione cinematografica, mostrandoci nel medesimo film realtà apparentemente slegate e confuse tra loro e privandoci, con un sicuro effetto di straniamento, di un’immersione nella diegesi. Ciò avviene per mezzo di una concatenazione di mondi immaginati o sognati dai protagonisti, ma anche tramite l’inserimento di personaggi che, seppur apparentemente umani, palesano un’appartenenza al soprannaturale o si distinguono nettamente come esseri ultraterreni.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Con la pubblicazione di Tre pièces e soggetti cinematografici di Goliarda Sapienza (editi da La Vita Felice nell’ottobre del 2014) si aggiunge un tassello importante all’opera di una scrittrice ingiustamente rimasta nell’ombra fino a poco tempo fa, ma soprattutto si illumina un capitolo fondamentale della sua esperienza artistica. La ‘prima vita’ di Sapienza (così la considera Angelo Pellegrino, curatore del volume, per distinguerla dalla ‘seconda’, dedicata alla scrittura) è infatti legata alla scena e al grande schermo. Come è ormai noto, la scrittrice aveva lasciato la Sicilia appena sedicenne ed era approdata a Roma per frequentare la Regia Accademia di Arte drammatica. Dal 1942, anno del suo esordio con l’interpretazione del personaggio di Dina in Così e (se vi pare), fino al 1960 Goliarda Sapienza si dedica alla carriera di attrice di teatro e al cinema. Nell’ambiente cinematografico ha nel fattempo incontrato Citto Maselli, con il quale collaborerà in molti film, sia nella sceneggiatura che nella regia. Dagli anni Sessanta in poi, le brevi apparizioni sulla scena hanno soltanto una funzione pratica, mentre il teatro e il cinema diventano prevalentemente oggetto della sua scrittura, come queste tre pièce e i tre soggetti cinematografici dimostrano.

Pur appartenendo a periodi cronologicamente differenti (anche se per la verità sulla datazione il curatore dice poco e bisognerà ancora provare a fare chiarezza), i tre drammi presentano elementi tematici comuni e un impianto drammaturgico molto simile. Al centro di ognuno di essi c’è la ‘macchina della tortura’ dei rapporti familiari. Non si tratta di famiglie di sangue bensì di ‘famiglie psichiche’: quella che vive nella comune in cui è ambientata I due fratelli («questa povera famiglia inventata»), la famiglia d’elezione che si stringe attorno ad Anna, protagonista della Grande bugia, o infine il ‘gruppo di famiglia in un interno’ che un po’ casualmente si raccoglie nel finale a casa di Marta e Piera in Due signore e un cherubino. Si direbbe che, pur sovvertendo e forzando i ruoli di genere e di parentela, Sapienza non possa farne a meno per costruire drammaturgicamente la tela di relazioni che lega i suoi personaggi: in ciascuna pièce irrompe sempre un ospite più o meno gradito, capace di innescare un gioco di rivelazioni e svelamenti che tocca l’acme dell’azione. I protagonisti sono chiamati così a raccontare la propria storia e, nel contempo, a indossare e nascondere la propria maschera, a interrogare e decostruire la propria identità. Altro elemento comune, e basso continuo, è la concezione della scena come «sala operatoria» in cui si porta allo scoperto, si illumina e si tenta di estirpare il cancro della menzogna che ammorba i rapporti umani.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →