La realtà oltre il confine nei Teatri di David Lynch

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Le realtà alternative, le trame ambigue dei film di David Lynch e i protagonisti che le abitano sono stati spesso forieri di riflessioni sull’estetica delle sue opere, sull’aspetto perturbante che le accomuna e, non da ultimi, sugli stati della mente dei personaggi, presi ad esempio anche nell’ambito degli studi psicanalitici. Nel ripercorrere la filmografia del regista statunitense, il saggio affronta un’analisi delle scene che più concorrono a trasmettere una sensazione inquietante e straniante allo spettatore, rilevando come Lynch abbia scelto di caratterizzare queste particolari scene con elementi che rimandano al teatro o di circoscriverle su un vero e proprio palcoscenico. Si è cercato dunque di dare un’interpretazione alla scelta registica di rinviare all’estetica del teatro nei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere, per mezzo di un’analisi semiologica e iconografica che non manca di approfondire anche lo stile recitativo impiegato in queste cornici perturbanti.

The alternative realities and the ambiguous plots of the movies of David Lynch, together with the protagonists that inhabit them, have been the object of studies about both his aesthetics and the uncanny behaviours of those characters. While tracing a path along the filmography of the American director, the essay analyses some of the most meaningful scenes that inspire eerie and alienating sensations to the spectator, with the aim to highlight how these particular scenes are distinguished by a peculiar theatrical space setting or acting. The author investigates this director’s choice through a semiological and iconographical analysis, deepening also the acting style employed in these uncanny frames that furthermore are often a solution key of the events.

 

 

Chissà perché ho il pallino dei sipari

dal momento che non ho mai fatto teatro.[1]

 

 

Le riflessioni proposte negli ultimi trent’anni sulle opere di David Lynch sono molte, stimolate nella maggior parte dei casi dal singolare modo di raccontare del regista, dalla particolare poetica che sottende i suoi film e soprattutto dal desiderio di aggiungere un’interpretazione alle realtà in essi narrate, spesso ambigue e poco comprensibili. Nel tentativo della ricerca di un senso, molti studiosi si sono avvalsi delle teorie sviluppate in ambito psicologico o psicanalitico, partendo da Sigmund Freud, passando da Jacques Lacan, per finire con Slavoj Žižek.[2] Certo, sin dai primi film Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980) – senza escludere cortometraggi come Grandmother (1969) – la struttura narrativa con cui Lynch compone le sue opere potrebbe essere assimilabile a quella che definisce le realtà vissute da chi soffre di disordini mentali e indagate in ambito psichiatrico. Gli studi incentrati sull’analisi psicologica dei protagonisti e delle loro fantasie non sono però sufficienti a comprendere la poetica lynchiana, per la quale invece andranno prese in considerazione altre questioni di ordine estetico. Se è vero che il fascino perturbante delle opere di Lynch risiede nel suo saperci condurre in mondi oscuri, incomprensibili, i cui confini spesso sfumano in realtà impossibili che dall’inconscio (da stati onirici o allucinatori) trascendono nel soprannaturale, è altrettanto vero che a renderle ineguagliabili è lo sguardo eclettico del regista che fa uso sapiente dei diversi registri – iconografico, musicale, linguistico – per tesserli in un montaggio che si concede i tempi dell’ostensione e le sospensioni per una riflessione. Inoltre, il regista ci pone spesso di fronte all’ostentazione della finzione cinematografica, mostrandoci nel medesimo film realtà apparentemente slegate e confuse tra loro e privandoci, con un sicuro effetto di straniamento, di un’immersione nella diegesi. Ciò avviene per mezzo di una concatenazione di mondi immaginati o sognati dai protagonisti, ma anche tramite l’inserimento di personaggi che, seppur apparentemente umani, palesano un’appartenenza al soprannaturale o si distinguono nettamente come esseri ultraterreni.

Nel proliferare degli studi dedicati all’opera di Lynch, il discorso intorno ai suoi film si è così avvalso del supporto di teorie psicanalitiche, speculazioni filosofiche e analisi semiologiche al fine di trovare fondamento a una poetica che, come sottolinea Barbara Creed,[3] potrebbe essere iscritta nel surrealismo contemporaneo. Le teorie e la poetica surrealista ci saranno dunque di ulteriore supporto nella comprensione dell’opera del regista statunitense, nella quale la narrazione si fonda talvolta su quei meccanismi dell’automatismo psichico che spezzano la razionalità cosciente. La studiosa spiega infatti come Lynch si avvalga totalmente del potere del cinema di far collidere sogni e realtà e di operare secondo la logica del sogno, tanto da rendere notevoli i suoi film per il ritratto di mondi disturbanti, per i personaggi macabri, gli stati mentali allucinati e le esplorazioni del lato oscuro della psiche umana. Insomma, secondo Creed, essi possono essere associati al surrealismo proprio per il loro potere di abbattere i confini convenzionali tra sogno e realtà, i quali si confondono, creando un mondo ‘ibrido’ che si rivela tanto singolare quanto perturbante. Il continuo alternarsi di mondi reali e onirici (o fantastici), di stati di coscienza e allucinazione, riconduce infatti ai capisaldi del cinema surrealista, come Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel, ma anche La Cocuille et le clergyman (1929) di Germaine Dulac e Le Sang du poète (1930) di Jean Cocteau. Ma rivedendo le opere di Lynch, ciò che ci è parso singolare, e che si è scelto di approfondire in questo studio, è la ricorrenza in queste scene più ‘surreali’ di ambientazioni teatrali. Azioni e personaggi sembrano di volta in volta essere incorniciati in un sipario o delimitati da un palcoscenico, ragione per la quale si è scelto di parlarne come di ‘teatri’. Con la presente ricerca si è cercato dunque di evidenziare le scene che nei film rievocano il teatro e di dare una spiegazione alla scelta del regista di rinviare all’estetica teatrale in alcuni dei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere.

 

1.Viaggi della mente e atmosfere perturbanti

Prima di entrare nel merito dell’indagine che qui proponiamo, è necessario soffermarsi su alcuni elementi ricorrenti che ci permetteranno di meglio comprendere i riferimenti di Lynch al teatro: la dimensione onirica, i viaggi tra mondi, i personaggi ascrivibili al fantastico. Sono questi infatti i fattori che caratterizzano i momenti più perturbanti delle sue opere, e che ritroviamo ostentati sul palcoscenico della mente.

Todd McGowan – studioso che ha dedicato più lavori alle teorie di Lacan e alla loro applicazione allo studio del cinema, in particolare indagando il ruolo di fantasia e desiderio sia nella ricezione dello spettatore sia nelle vite dei personaggi lynchiani – ritiene che l’eccentricità del regista risieda nella sua inclinazione ad esporre situazioni estreme nella vita quotidiana, con il risultato che i suoi film, invece che restituire un’immagine della realtà, assumono più la struttura di una fantasia.[4] Lo studioso cita il caso di Mulholland Drive (2001) – un film che sottolinea il legame tra fantasia e mondo reale, mostrando come la prima possa creare realtà chiaramente strutturate nella mente – a supporto della teoria lacaniana che vede come ciò che è esperito nella realtà sia radicato anche nella fantasia.[5] Nel film Lynch sembra esplorare infatti il ruolo della fantasia dell’essere umano nel restituire a posteriori coerenza e significato all’esperienza che l’individuo ha invece del reale. Vediamo come. La prima parte di Mulholland Drive presenta il susseguirsi logico degli eventi nella fantasia (o il sogno) di Diane Selwyn (Naomi Watts); essi ci vengono però illustrati in modo più attinente alle nostre aspettative concernenti la realtà (siamo a Hollywood, nella soleggiata California) e non con stratagemmi cinematografici che inducano a pensare al sogno. A differenza di quanto ci si aspetterebbe, più grigia e cupa è invece la seconda parte del film, quella che presenta la realtà, quella vera, in cui vive la protagonista, caratterizzata da conversazioni intervallate da lunghe e insolite pause. È dunque per mezzo di una ripresa attinente ai più consueti canoni cinematografici di rappresentazione (Hollywood, appunto) che Lynch invita lo spettatore ad entrare nel mondo ‘inventato’ della protagonista, destabilizzando però la credibilità di chi osserva nel momento in cui la realtà quotidiana di Diane è rappresentata come se fosse un suo viaggio allucinatorio.

Anche in Lost Highway (1997) Lynch, nel ritrarre la psicosi del protagonista Fred Madison (Bill Pullman), separa nettamente le due realtà rappresentate, tanto da portare lo spettatore a domandarsi quale sia effettivamente la vita reale di Fred e quanto del narrato sia invece frutto di una fantasia. La mancanza di profondità di campo e la desaturazione dei colori con i quali Lynch ritrae il mondo ‘reale’ del protagonista creano un senso di piattezza e vuoto e contribuiscono a privare lo spettatore di riferimenti spazio-temporali, avvolgendo la realtà di Fred in un alone di mistero. Ma oscurità e mistero sono invece assenti dal mondo chiaramente illuminato di Peter Dayton (Balthazar Getty), cioè Fred Madison in quella che potrebbe essere la sua fantasia allucinatoria. Il mondo di Peter è in effetti ripreso in modo più tradizionale e realistico e sembra non avere nulla a che fare con quanto visto nella prima parte del film.[6] Una distinzione, questa, che è invece meno evidente nel continuo alternarsi di mondi in Inland Empire (2006), dove a connettere le realtà in modo sinistro e inspiegabile è la surreale sitcom Rabbits che Lost Girl (Karolina Gruszka) sta seguendo alla televisione.

Peculiare nelle opere di Lynch è anche la presenza di personaggi che sembrano abitare più la mente dei protagonisti che la realtà in cui essi vivono. È il caso, in Lost Highway, dell’Uomo Misterioso (Robert Blake), che in diverse e significanti occasioni si manifesta a Fred nel momento di passaggio tra un regno e l’altro, quelli della vita reale di Fred e della sua allucinazione.[7] Un personaggio che sembra coincidere con il super ego del protagonista, l’agente psichico di auto-osservazione: Fred lo invita in casa, permettendogli così di entrare nella propria psiche e infine di rivelargli che Alice, l’amante di Peter (Patricia Arquette), non esiste; per contro, esiste la moglie di Fred, Renée (interpretata dalla stessa attrice). Si potrebbe allora dedurre che l’Uomo Misterioso sia temuto dal protagonista proprio perché dimostra di conoscere più cose su Fred di quante ne conosca lui stesso. Il Mystery Man possiede la conoscenza segreta delle sue fantasie, essendone l’orrorifica manifestazione,[8] ed è al corrente della dualità Fred/Peter e Renée/Alice. Non a caso, quest’uomo vive sotto le spoglie del falsario di documenti che vende nuove identità e con esse l’illusione di una fuga dalla realtà: anche Fred, acquisendo l’identità immaginaria di Peter, tenta di assicurarsi un’evasione dalla realtà che lo imprigiona.

La presenza del doppio, con riferimento invece evidente a un mondo soprannaturale, si riscontra nelle serie Twin Peaks (1990-1991), Twin Peaks: The Return (2017) e nel film-prequel Twin Peaks: Fire walk with me (1992), dove i doppi di Leland Palmer (Ray Wise) e dell’Uomo con un Braccio Solo (Al Strobel) – rispettivamente Bob (Frank Silva) e Mike (lo stesso Al Strober) – come quelli dell’Agente Dale Cooper, Douglas ‘Dougie’ Jones e il doppelgänger di Cooper (tutti e tre interpretati da Kyle MacLachlan) nella stagione 2017, provengono dall’‘altro mondo’ che interagisce con la realtà attraverso il varco che apre la Stanza Rossa. Come ben sottolinea Pierluigi Basso Fossali, i doppi sono qui segno della presenza di due universi paralleli e comunicanti,[9] che in Twin Peaks: The Return si sdoppiano e moltiplicano: nella nuova serie non c’è più un confine a demarcare le diverse dimensioni spazio-temporali e lo spettatore è «chiamato a confrontarsi con le proprie aspettative».[10] Serie televisiva e film sono del resto popolati da personaggi che detengono poteri ultraterreni e sembrano tutti provenire da quel mondo con cui solo l’Agente Dale Cooper e il Sergente Garland Briggs (Don S. Davis) hanno facoltà di interagire: Bob, lo spirito demoniaco che possiede Leland, il padre di Laura Palmer (Sheryl Lee); Mike, suo oppositore; l’Uomo da un altro mondo (Michael J. Anderson), il Gigante (Carel Struycken), Mrs. Tremond (Frances Bay) e il nipote (nella serie, il figlio di Lynch, Austin Jack Lynch; Jonathan Leppell nel film). Questi personaggi sembrano essere preveggenti rispetto allo sviluppo degli eventi e sono spesso portatori di messaggi criptici e apparentemente oscuri. Ne abbiamo un esempio, nel sogno di Cooper, nella prima manifestazione di Mike che porta un messaggio all’agente dell’FBI: «In the darkness of future past/The magician longs to see/One chants out between two worlds:/Twin Peaks: Fire walk with me».[11] O negli indizi premonitori comunicati, sempre a Cooper, dal gigante: «There is a man in a smiling bag»; «The owls are not what they seem»; «Without chemicals, he points».[12] Questi esseri soprannaturali abitano la Stanza Rossa, presente nella serie come nel film, e l’Altra Stanza di Twin Peaks: Fire walk with me: sale d’attesa, luoghi di passaggio tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti. Proprio questa peculiarità, insieme alle caratteristiche estetiche che queste stanze presentano – i pesanti tendaggi che ricordano un sipario e l’arredo disposto come se fosse su di un palcoscenico, esplicitamente rivolto verso lo spettatore –, ma anche per come in esse si muovono i personaggi attenti ad ostentare ogni singola azione, ci permettono di annoverarle tra i ‘teatri’ di Lynch oggetto di questo saggio.

 Twin Peaks, La stanza rossa

In Twin Peaks, l’opera lynchiana che più si affaccia al soprannaturale, anche gli esseri umani presentano spesso doti straordinarie: l’Agente Cooper, viaggiatore nell’altro mondo; Sarah Palmer (Grace Zebriskie) con i suoi sogni premonitori; il Maggiore Briggs che sembra comunicare con le forze della natura; la Signora Ceppo (Catherin E. Coulson) che con i suoi indizi guida Cooper nella giusta direzione; Gordon Cole (lo stesso David Lynch). Tutte queste figure dimostrano di possedere la capacità di vedere oltre la realtà tangibile ed avere poteri extrasensoriali. Non è un caso infatti che in Twin Peaks: Fire walk with me Gordon Cole assegni proprio a Cooper uno dei casi della Rosa Blu, nome in codice che identifica i casi più misteriosi: la rosa blu, che in natura non esiste, indica la necessità di percorrere una via alternativa per ottenere risposte ed è segno della dimensione paranormale in cui sarà coinvolta l’investigazione. L’argomento è ripreso nella stagione del 2017, nel corso della quale Cole e l’agente Albert Rosenfield (Miguel Ferrer) coinvolgono Tammy, agente Tamara Preston (Chrysta Bell) nel gruppo investigativo che indaga appunto i casi irrisolti del ‘Blue Book’ (insabbiati dopo vent’anni di indagini sugli UFO).[13]

In Lost Highway sembra essere invece l’Uomo Misterioso a detenere poteri soprannaturali: il suo apparire e svanire all’improvviso, il suo essere contemporaneamente in due luoghi, il trucco bianco e pesante sul volto, con le labbra vermiglie e il sorriso agghiacciante, fanno pensare più a un essere diabolico che a un uomo in carne e ossa. A rafforzare questa ipotesi è anche il suo potere di guidare e influenzare le azioni di Fred, insieme alla risposta che dà al protagonista nel corso del loro primo incontro, quando Fred gli chiede come sia entrato in casa sua: «You invited me, for it is not my custom to go where I’m not wanted».[14] Come dunque vediamo, Lynch crea i suoi mondi muovendosi tra i meandri della psiche e dell’inconscio umano, tra la dimensione onirica e quella fantastica abitate da spiriti (Twin Peaks), streghe (Wild at heart, 1990) e maghi (Mulholland Drive).

Nel mondo dei film di Lynch la realtà sembra essere multivalente: oggetti ed eventi che paiono separati si scoprono congiunti a un livello nascosto; il racconto non procede mai in modo lineare ma si dirama in dimensioni ‘strane’ e gli avvenimenti si ripetono circolarmente. «I mondi di Lynch sono ripresi attraverso performance innaturali, dialoghi criptici o interrotti, ostentazioni iperboliche di sentimenti, una persistente fascinazione per gli oggetti causali e una deliberata discontinuità narrativa».[15] Gli oggetti stessi vengono caricati di significato, si pensi agli anelli di Twin Peaks (quello dell’Agente Cooper e quello offerto a Laura), alla scatola blu e alla sua chiave in Mulholland Drive, alla giacca in pelle di serpente di Sailor Ripley (Nicholas Cage) in Wild at heart: oggetti che sono sempre investiti di significati perturbanti e poteri magici. David Lynch sembra concepire il film come un mondo dei sogni da lui stesso controllato. Ciò mette lo spettatore di fronte a una «dissoluzione dei codici percettivi»: pur avvalendosi di elementi che indicano la presenza di attività oniriche, il regista non rinuncia alle visioni, alle profezie e alle apparizioni che non trovano mai un’attribuzione definitiva.[16]

Roy Menarini, parlando dell’importanza del mistero nel cinema di Lynch, illustra bene la peculiare presenza di quest’elemento nei suoi film.

 

Lynch percepisce come deludente ogni curva narrativa che si risolva semplicemente nel percorso «mondo tradizionale ˃ evento perturbante ˃ conflitto ˃ sconfitta dell’irrazionale ˃ ritorno al mondo ricomposto». Facendo leva, semmai, sulla perenne esitazione tra spiegazione razionale e irrazionale degli avvenimenti narrati […], egli preferisce dilatare all’infinito il mistero, mantenendone le caratteristiche iniziali di “rottura” ma rinunciando di fatto a una sua riduzione elementare. […] Almeno una ipotesi narrativa capace di contenere la maggior parte degli elementi raccontati è individuabile in tutti i film dell’autore. Non di meno, il mistero è una specie di ritmo di basso continuo che avviluppa il mondo esperito e funge da contatto comunicativo con mondi psichici alternativi, il più delle volte prodotti dalla mente di uno o più personaggi.[17]

L’effetto perturbante nei suoi film è infine raggiunto anche grazie alla scelta registica di un montaggio che vede il veloce alternarsi di piani ravvicinati e di suoni che suscitano ansia e angoscia, come il drone[18] che fa da tappeto sonoro alla serie Rabbits (2002), presente anche in Inland Empire (2006) o talvolta evidenzia gli spazi appartenenti ad altri mondi, come accade per la Stanza Rossa di Twin Peaks.

 

2. I teatri di Lynch

L’estetica delle ambientazioni nei film di Lynch, l’uso che egli fa della luce, i dialoghi, il modo di muoversi e agire dei personaggi, rimandano talvolta a un gusto prettamente teatrale per la messa in scena. Da questa osservazione è nato il nostro interesse per quelle scene e quei momenti che si stagliano dal resto delle altre sequenze per il loro appartenere a un effettivo contesto di palcoscenico o essere vere e proprie performance teatrali. I rimandi al teatro, impliciti o espliciti che essi siano, assumono forme diverse: da veri e propri palcoscenici, ad ambientazioni che rinviano al teatro con l’uso della luce e la disposizione degli arredi scenici, alle performance dei protagonisti.

 Eraserhead, Lady in the radiator

Da una prima analisi della filmografia lynchiana è emerso che, oltre agli elementi sopra elencati, ciò che più contraddistingue questi ‘teatri’ è il loro apparire come mondi con statuti diversi rispetto alla realtà narrata, zone di sospensione spazio-temporale che violano ogni legge della fisica,[19] vie di fuga dalla realtà o porte di passaggio tra mondi. Questi ‘teatri’ costituiscono quasi sempre un’interruzione nella diegesi filmica: in essi il tempo pare allungarsi, stirarsi e dilatarsi come in Eraserhead. Lo spazio, anche quando sembra ben delimitato da porte, muri e tende, dischiude invece nuovi varchi e si concede sconfinamenti che nella maggior parte dei casi lo portano alla sovrapposizione con un altro mondo, sia esso ultraterreno o mentale. Queste particolari scene sono spesso caratterizzate anche da una comunicazione resa difficoltosa a causa del linguaggio parlato (gli abitanti della Stanza Rossa di Twin Peaks parlano al contrario) o della sua totale assenza (la Lady in the Radiator di Eraserhead canta ma non parla con il protagonista). Assistiamo invece a una smaterializzazione della lingua con il canto registrato del Club Silencio in Mulholland Drive, o ci troviamo di fronte a dialoghi che ricordano il teatro dell’assurdo come in Inland Empire.

È interessante allora constatare come, nel tessere le trame sovrapposte e intrecciate di mondi talvolta indistinguibili, il regista scelga il teatro come luogo di rivelazione o di scioglimento degli eventi. Alcuni momenti sono ‘raccontati’ in una dimensione spettacolare che si staglia dalla finzione filmica (già di per sé ripetutamente rivelata) garantendo così l’effetto di straniamento: nell’atmosfera già surreale del film, Lynch spiazza ulteriormente lo spettatore ponendolo di fronte a un nuovo mondo ancor più surreale. Le scene più perturbanti sono infatti inscritte in una cornice che ostenta la finzione, quella del teatro.

Ad abitare queste dimensioni teatrali sono infatti i personaggi più ascrivibili al genere fantastico: se in Eraserhead la Lady in the Radiator ha un volto deforme, in Mulholland Drive, sul palco del Club Silencio a presentare lo spettacolo è un mago-imbonitore; nella Stanza Rossa di Twin Peaks a interagire con Cooper sono nani e giganti; infine, non possiamo tralasciare i conigli antropomorfi della sitcom Rabbits in Inland Empire. È un mondo di ‘freak’, quello teatrale di Lynch, una sorta di regno del perturbante creato per interagire con i protagonisti dei film ma non per sconcertarli. Infatti, nella maggior parte dei casi, essi non sembrano reagire alle stranezze o deformità con cui si relazionano, proprio perché queste sono esibite all’interno della cornice del palcoscenico. A partire da tale considerazione è allora possibile ipotizzare che il ‘Circo Barnum’ dei teatri di Lynch sia rivolto invece allo spettatore: intermezzi destabilizzanti, queste scene popolate da strani esseri portano quasi sempre allo scioglimento dell’enigma (Mulholland Drive), all’acquisizione degli elementi che conducono a una possibile spiegazione (Twin Peaks, Twin Peaks: Fire walk with me, Twin Peaks: The Return), o a destabilizzare lo spettatore con un’inspiegabile sospensione nella diegesi filmica (Blue Velvet e Eraserhead).

 Mulholland Drive, Club Silencio Inland Empire, Rabbits

Certa è invece la valenza di questi teatri come luogo di passaggio e ‘porta d’ingresso per un altro mondo’:[20] vediamone alcuni esempi.

Eraserhead, il primo lungometraggio di Lynch e il suo film forse più surrealista, ci presenta la realtà deforme e mostruosa abitata da Henry (Jack Nance): un mondo post-industriale, cupo e claustrofobico con il quale lo stesso protagonista pare non essere in sintonia. Henry sembra infatti vivere in un incubo per tutto il film, aggirandosi allarmato come se, consapevole della realtà orribile in cui è costretto a vivere, stesse aspettando un risveglio che non giunge mai. Il suo è infatti un mondo onirico, luogo di tristezza e dolore, ma anche terreno di scoperta del sé creativo e di viaggio animico-cosmico.[21] È invece all’interno dell’oscurità del termosifone che egli vede la luce che lo guida verso un palcoscenico vuoto, con il sipario aperto, in attesa che qualcuno lo calchi. La performance a cui assistiamo è quella della Lady in the Radiator (Laurel Near), sinistra caricatura di un essere celestiale che conduce Henry nel suo personale mondo di sogno e che con la sua voce angelica, i capelli cotonati color platino e l’abito bianco, si contrappone all’oscurità che avvolge la vita del protagonista. Il legame della Lady con Henry sembra già qui palesarsi: mentre inscena la sua danza, la donna schiaccia, sorridendo, i vermi-feti caduti dall’alto sul pavimento a scacchi, quasi a voler cancellare l’intrusione del feto-mostro nella vita del protagonista. Nella visione della Lady che canta la celebre «in Heaven, everything is fine; you’ve got your good things, and I’ve got mine»,[22] egli sembra trovare conforto e una via di fuga dalle contingenze del mondo reale. Il teatrino nella fantasia di Henry è dunque uno spazio illusorio e di pura messa in scena e al contempo un luogo tipico di creazione e metamorfosi:[23] nell’ultima sua apparizione, il palcoscenico ospita il protagonista che, dopo aver tentato di raggiungere la sua Lady (che svanisce), subisce una trasformazione perdendo la propria testa, al posto della quale ricompare invece il feto deforme.

Un teatro che richiama invece quello europeo della fantasmagoria di fine Settecento – con i suoi presentatori a introdurre numeri sensazionali resi possibili da trucchi scenotecnici celati – è il Club Silencio di Mulholland Drive, dove il palcoscenico con il sipario rosso e il suo tappeto persiano ospitano un mago-imbonitore (Richard Green) che presenta lo spettacolo specificando in più lingue che «it is all recorded» e «no hay Banda!».[24] È all’interno del sogno della protagonista Diane che compare il teatro al quale la conduce Rita per assistere a una rappresentazione interamente artificiosa. La scena fa da spartiacque alle due parti del film: gli eventi nel sogno di Diane e la vita reale della protagonista, che per affrontare il rifiuto dell’amata Camilla (Laura Harring) costruisce una sua realtà alternativa che occupa la prima parte dell’opera. Diane rivede se stessa come Betty e la sua amante come la misteriosa Rita, coinvolte nella risoluzione di un mistero (recuperare l’identità di Rita, colta da amnesia dopo un incidente d’auto) e in una relazione amorosa. Il Club Silencio agisce in questo caso come una sorta di risveglio dalla vita sognata. È infatti il mago stesso a richiamare l’attenzione delle due protagoniste sull’illusione di quanto stanno vivendo, sottolineando che la performance a cui stanno per assistere è tutta registrata, e obbligando – con l’apparizione della scatola blu nella sua borsa – Betty/Diane a svegliarsi per tornare alla realtà. Durante la performance di Rebekah Del Rio che canta Llorando (versione spagnola di Crying di Roy Orbison), Betty è infatti colta da un tremore innaturale che suggerisce il suo arrivo al punto di chiusura della fantasia. Ancora una volta è l’ostentata finzione a condurre al risveglio: la performance palesemente in playback della cantante californiana, che commuove le due donne tanto da indurle al pianto, prosegue oltre lo svenimento della Del Rio, dopo il quale la sua voce registrata continua a risuonare nel teatro. Il microfono, che perde la sua funzione primaria di amplificazione della voce, proietta nell’ultima scena la luce riflessa diventando esso stesso fonte luminosa: «[…] ricettore dismesso di una comunicazione vocale perduta, la recita è chiusa e il microfono intona un discorso di luce che non abbisogna più d’attori, i quali possono tranquillamente votarsi al silenzio».[25] È in questo momento che compare nella borsa di Betty la scatola blu che apre al mondo reale, alla scomparsa di Rita e al risveglio di Diane, ora consapevole dell’omicidio dell’amata da lei commissionato.

Il teatro garantisce allora la disillusione e il ritorno alla realtà di Diane, ma fornisce anche allo spettatore un importante indizio per l’interpretazione di quanto già visto e di ciò che segue. Tra le riflessioni dedicate a questa scena si distingue quella di Greg Olson,[26] che ipotizza che il mago-presentatore e il palcoscenico siano nel film la metafora che illustra la verità principale della filosofia Hindu, studiata per anni da Lynch, e che considera il nostro mondo quotidiano un’illusione (maya) di dualità e molteplicità dalla quale abbiamo bisogno di svegliarci per percepire l’unica e assoluta realtà (Brahman). Ipotesi, questa, che sembra essere avvalorata dalla citazione di Upaniṣad che apre uno dei capitoli del libro In acque profonde: «sappi che la Natura intera non è altro che un magico teatro, che la grande Madre è il demiurgo supremo, e che la totalità del nostro mondo è popolata dalla moltitudine delle sue parti».[27]

Un teatro come quello di Mulholland Drive compare in Twin Peaks: The Return, stagione in cui Lynch non sembra perdere l’occasione per citare i suoi film, quasi una summa di tutta l’opera del regista. Nell’ottavo episodio, il più perturbante di tutta la serie, una donna in abbigliamento déco assiste all’ascensione fantastica del Gigante che ci ‘illumina’ sul dramma della morte di Laura Palmer. Anche in questo caso lo spazio è la sala di un teatro e la scena, in bianco e nero con pochi particolari a colori, ha luogo tra il palcoscenico e il palchetto che ospita la donna, ma più che ad un teatro d’oggi Lynch sembra fare riferimento al primissimo cinema, – riportandoci a certe ambientazioni o espedienti dei film di Méliès, come L'homme à la tête en caoutchouc (1901) – o alla fantasmagoria, alle apparizioni messe in scena con la lanterna magica da Robertson a Parigi sul finire del Settecento.

Magico teatro e passaggio tra mondi per antonomasia è la celebre Red Room di Twin Peaks (1990-1991 e 2017) e Twin Peaks: Fire walk with me: uno spazio prodigioso in cui l’agente dell’FBI Dale Cooper incontra l’Uomo da un altro mondo e il Gigante, esseri soprannaturali che lo aiutano nell’investigazione fornendogli enigmatici indizi e che sembrano fare da mediatori tra l’altro mondo e quello terreno. Questa stanza senza pareti, delimitata da tende rosse, è uno spazio indefinito, teatro di strani accadimenti: dall’essere luogo d’incontro nelle prime puntate della serie televisiva e nel film, la Red Room si rivelerà alla fine di Twin Peaks come spazio di scissione, disorientamento e paura, per confermarsi ancora una volta nella serie del 2017 quale soglia tra il mondo reale e quello ultraterreno. Sin dalla sua prima apparizione nel sogno di Cooper, questo teatro perturbante disorienta lo spettatore per il suo mostrarsi, con il pavimento zigzagante e l’accurato mobilio déco, come luogo astratto o come ‘nessun luogo’. I suoi abitanti parlano uno strano linguaggio (i dialoghi sono rimandati al contrario) intervallato da pause che lo rendono ancora più innaturale; gli esseri che la popolano si muovono in modo insolito, come l’Uomo da un altro mondo che con il suo abito rosso cammina danzando (anche i suoi movimenti sono ripresi e rimandati al contrario). La Stanza Rossa inscena un mondo alla rovescia, simbolo degli accadimenti che si susseguono nella cittadina di Twin Peaks, quanto quello dell’Altra Stanza, presente in Twin Peaks: Fire walk with me, che ospita gli stessi personaggi che abitano la Stanza Rossa (il nano-Uomo da un altro mondo, Bob, i Tremonds), insieme a quattro figure, una delle quali indossa un abito rosso e copre il volto con una maschera bianca dal lungo naso appuntito (simile a quella dietro cui si nasconde il piccolo Tremond e che rivela poi il volto di una scimmia). L’Uomo da un altro mondo è qui seduto a un tavolo di fronte a Bob, e sembra contrattare con lui la Garmonbozia, la crema di granturco (cereale che in antiche civiltà era considerato cibo sacro ma che in Twin Peaks si identifica più con l’essenza del male) di cui questi esseri sembrano nutrirsi.

In relazione al ruolo rivelatore di questi ‘teatri’ – tra i quali anche la baracca in fiamme di Lost Highway, il salotto dei conigli in Inland Empire – lo studioso Mitch Cunningham evidenzia come queste scene forniscano una distillazione delle chiavi di lettura (dei film) in frasi frammentate e decontestualizzate: «She’s my cousin… but doesn’t she look almost exactly like Laura Plamer?» (Twin Peaks); «It is all recorded… and yet we hear a band» (Mulholland Drive); «It had something to do with the telling of time» (Inland Empire).[28]

Altre stanze nei film di Lynch assolvono il ruolo di collegamento tra mondi e si rivelano il teatro degli eventi impossibili raccontati dal regista. In Inland Empire a segnare il passaggio tra le realtà abitate da Nikki Grace (Laura Dern) – il mondo polacco e quello hollywoodiano – è il salotto abitato dai conigli antropomorfi della sitcom Rabbits, che permette l’accesso tra un mondo e l’altro attraverso una semplice porta. La stanza, con le pareti verdi e arredata in stile anni Sessanta, è caratterizzata da un sonoro di fondo opprimente; il dialogo senza senso dei tre conigli che vi interagiscono richiama, come già accennato, quello del teatro dell’assurdo e ad aggiungere un effetto di maggiore straniamento sono infine le risate fuori contesto e le reazioni del pubblico, registrate come fossimo in una delle più comuni situation comedy. Questi intermezzi di Rabbits hanno l’effetto di creare una sospensione nella diegesi e, anziché aiutare lo spettatore nella comprensione della vicenda narrata, in Inland Empire provocano una sensazione di maggiore spaesamento.

Infine, in alcune opere di Lynch abbiamo la presenza di performance che risultano essere stranianti per come sono inserite nel film. Ci riferiamo a due momenti squisitamente teatrali: l’azione mimata con la quale Lil (Kimberly Ann Cole), la dama in rosso di Twin Peaks: Fire walk with me, trasmette agli agenti il messaggio in codice di Gordon Cole; il secondo è la performance canora di Ben (Dean Stockwell) in Blue Velvet (1986). Questa scena è inserita nel momento in cui Ben Soave, l’amico di Frank Booth (Dennis Hopper) che tiene in custodia il figlio rapito di Dorothy Vallens (Isabella Rossellini), riceve nel suo appartamento Pussy Heaven il malvivente che porta con sé i suoi scagnozzi, Dorothy e il giovane Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan). Ben, alla richiesta dell’amico, inscena una performance speciale: una sorta di drag-show nel quale l’uomo canta in playback In Dreams di Roy Orbison, con una lampada-microfono che illumina il pallore del viso pesantemente truccato. La scena, presentata come un vero e proprio concerto, vede Ben inizialmente solo, in un angolo della stanza incorniciata ai lati da due pesanti tende verdi. Lynch sottolinea il carattere rappresentativo del momento attraverso inquadrature alternate del ‘palco’ drappeggiato di Ben e degli ospiti-spettatori nella stanza attigua – tra i quali sta Frank che fissa irretito la performance – per concludere con un campo lungo che inquadra i due uomini, e permette di vederli insieme sul palcoscenico improvvisato. A rendere ancor più irreale la scena sono la donna alle spalle di Ben, seduta immobile su un divano accanto a una grossa bambola, insieme alla riproduzione del brano musicale che, nonostante la fonte da cui proviene (un lettore di musicassette), è caratterizzata da un suono straordinariamente pieno e pulito. Infine, il momento idilliaco della performance di Ben risulta grottesco proprio per il suo essere inserito nel contesto teso e rumoroso in cui le grida di Frank si alternano al pianto di Dorothy. In Dreams contrasta con la sua melodia innocua la tensione sullo schermo, creando un ponte tra l’immagine confortante della Lumberton diurna e la pericolosa città della notte, abitata da Frank e dai suoi scagnozzi.[29]

 Blue Velvet, Ben Soave

Non è un caso che il teatro scelto da Lynch non richiami la rasserenante rappresentazione di prosa ma guardi piuttosto alle forme di spettacolo più perturbanti, la fantasmagoria e il freak show (The Elephant Man). È una scena, quella di Lynch, che porta sempre con sé delle esagerazioni e in cui ogni personaggio è estremizzazione o macabra caricatura di qualcos’altro. Un teatro in cui anche l’interprete che non è freak viene presentato come tale, come nel caso di Rebekah Del Rio, introdotta al Club Silencio come la ‘Llorona de Los Angeles’.

Nel cinema surrealista di Lynch, in cui i protagonisti si muovono sempre tra mondi paralleli – siano essi visioni psicotiche di menti alterate, luoghi del sogno o realtà davvero soprannaturali –, il regista fornisce ai suoi stessi personaggi e allo spettatore prospettive di lettura o chiavi risolutive per mezzo del luogo che più ostenta la finzione, quello del teatro. Che siano ospitati su veri e propri palcoscenici, nelle stanze della mente o si risolvano in stravaganti performance, questi momenti aumentano l’effetto di straniamento dello spettatore in sala, raddoppiando il fascino senza tempo dei suoi film.

 


1 D. Lynch, Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita, a cura di C. Rodley, Milano, Il Saggiatore, 2016, p. 239.

2 Di Freud si veda, primo fra tutti, il celebre saggio Das Unheimliche (1919), mentre di Lacan ritroviamo tra i più citati i Seminari. Riguardo agli studi che applicano la psicanalisi al cinema, cfr. S. Žižek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, Pasian di Prato, Campanotto, 2004, e Enjoy Your Symptom! Jacques Lacan in Hollywood and out, New York-London, Routledge, 1992.

3 B. Creed, ‘The untamed eye and the dark side of surrealism: Hitchcock, Lynch and Cronenberg’, in G. Harper, R. Stone (a cura di), The unsilvered screen: surrealism on film, London, Wallflower Press, 2007, pp. 115-133.

4 Si vedano di T. McGowan, ‘Lost on Mulholland Drive: Navigating David Lynch’s Panegyric to Hollywood’, Cinema Journal, 43, n. 2, 2004, pp. 67-89 e The Impossible David Lynch, New York, Columbia University Press, 2007.

5 Il riferimento è al Seminario XX. Si veda anche, di T. McGowan, ‘Looking for the Gaze: Lacanian Film Theory and Its Vicissitudes’, Cinema Journal, 42, n. 3, 2003, pp. 27-47.

6 T. McGowan, ‘Finding Ourselves on a “Lost Highway”: David Lynch’s Lesson in Fantasy’, Cinema Journal, 39, n. 2, 2000, pp. 51-73.

7 B. Herzogenrath, ‘On the Lost Highway: Lynch and Lacan, Cinema and Cultural Pathology’, Other Voices, 1, n. 3, 1999.

8 T. O’Connor, ‘The Pitfalls of Media “Representations”: David Lynch’s Lost Highway’, Journal of Film and Video, 57, n. 3, 2005, pp. 14-30.

9 Cfr. P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Pisa, Edizioni ETS, 2006.

10 L. Marmo, ‘Tornando a casa. Desiderio spettacolare e dispersione narrativa in Twin Peaks: The Return di David Lynch’, in SigMa – Rivista di Letterature Comparate, Teatro e Arti dello spettacolo, I, 2017, pp. 537-561.

11 Mike, Twin Peaks, I serie, episodio 3: «Nell’oscurità di un Futuro passato/Il mago desidera vedere/Non esiste che un’opportunità tra questo mondo e l’altro:/Fuoco cammina con me».

12 Gigante, Twin Peaks, II serie, episodio 1: «C’è un uomo in una borsa che sorride»; «I gufi non sono ciò che sembrano»; «Senza medicine, egli morirà».

13 Twin Peaks: The Return, 2017, episodio 12.

14 «Mi hai invitato. Non è mia abitudine andare dove non sono stato invitato». Ricordiamo che nella letteratura fantastica il diavolo e i vampiri hanno bisogno di essere invitati per poter varcare la soglia di una casa ed entrare nella vita delle loro vittime.

15 M. Cunningham, ‘The Ironic Uncanny, Uncanny Ironies and David Lynch’, Consciousness, Literature and the Arts, Vol. 13, N. 1, 2012. Traduzione di chi scrive.

16 Ivi.

17 R. Menarini, Il cinema di David Lynch, Alessandria, Falsopiano, 2002, pp. 15-16. L’esitazione che suscita il mistero o, come indicherebbe Todorov, apre al ‘fantastico’, in questo caso è provocata dall’incertezza interpretativa degli eventi provata dallo spettatore: il dubbio si insinua tra la percezione del reale e l’immaginario della mente del personaggio. Tra le categorie e i temi analizzati dallo studioso, quelli riscontrabili nelle opere di Lynch potrebbero trovare un riferimento nei temi dell’io, in particolare quelli che «riguardano la strutturazione del rapporto tra l’uomo e il mondo» e appartengono al sistema freudiano percezione-coscienza. Cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 2007.

18 Il drone è uno stile musicale, nato dal minimalismo, che enfatizza l'uso di suoni, note estese e ripetuti. Si veda il Rabbits Theme composto e suonato dallo stesso Lynch ed inserito nella colonna sonora della web-serie Rabbits (2002) e di Inland Empire (2006).

19 F. De Bernardinis, Ossessioni terminali. Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Ancona-Milano, Editori Associati, 1990.

20 D. Lynch, In acque profonde. Meditazione e creatività (Catching the Big Fish), Milano, Oscar Mondadori, 2015, p. 21.

21 Cfr. G. Olson, David Lynch. Beautiful Dark, Lanham, Maryland, Toronto, Plymouth-UK, The Scarecrow Press, 2008.

22 «In paradiso tutto è bello; tu hai le tue buone cose, ed io ho le mie». Traduzione di chi scrive.

23 Basso Fossali, Interpretazione tra mondi.

24 «È tutto registrato», «Non c’è un’orchestra». Trad. di chi scrive.

25 Basso Fossali, Interpretazione tra mondi, p. 426.

26 Cfr. G. Olson, David Lynch. Beautiful Dark.

27 D. Lynch, In acque profonde, p. 21.

28 «Lei è mia cugina… ma non sembra proprio Laura Plamer?! (Twin Peaks); «È tutto registrato… eppure sentiamo una banda» (Mulholland Drive); «Ha qualcosa a che fare con l’indicare l’ora» (Inland Empire). Trad. di chi scrive.

29 K.M. Reed, ‘«We Cannot Content Ourselves with Remaining Spectators»: Musical Performance, Audience Interaction, and Nostalgia in the Films of David Lynch’, Music and the Moving Image, 9, n. 1, 2016, pp. 3-22.