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Nel 1983 Francesco (Citto) Maselli traspone per la Rai il racconto di Italo Calvino L’avventura di un fotografo. In questo saggio analizzo i modi e il linguaggio filmico con cui Maselli rielabora il tema e lo stile di Calvino; attraverso una interpretazione benjaminiana del racconto, cerco di mostrare come il film sia costruito su tre dominanti: l’aspetto metapoetico e metacinematografico, il ruolo centrale dei mezzi di riproduzione del reale, e la problematizzazione del discorso erotico.

In 1983, Francesco (Citto) Maselli adapted Italo Calvino’s short story L’avventura di un fotografo for Italian TV network RAI. This essay examines Maselli’s approach and cinematic language in reinterpreting Calvino's themes and style. Employing a Benjaminian interpretation of the story, I explore how the film is constructed around three key elements: the metapoetic and metacinematographic aspects, the central role of reality's means of reproduction, and the problematization of erotic discourse.

1. Benjamin, o dell’avventura

Gli amori difficili sembra essere il libro di Calvino più amato dai registi: nel corpus, in verità assai smilzo se rapportato alla produzione dell’autore e al suo successo internazionale, degli adattamenti cinematografici la maggior parte proviene da questa raccolta: nel 1962 Mario Monicelli trasporta L’avventura dei due sposi nel primo dei quattro episodi di Boccaccio ’70 (vale a dire Renzo e Luciana); l’anno dopo Nino Manfredi gira L’avventura di un soldato (sempre come episodio, questa volta de L’amore difficile); nel 1973 per la televisione tedesca (la ZDF) Carlo di Carlo realizza dall’Avventura di un lettore l’Abenteuer eines lesers; in Messico, dieci anni dopo, Ana Luisa Liguori gira il cortometraggio Amores dificiles.

Infine, nella tarda serata di sabato 9 aprile 1983, la Terza Rete Rai, all’interno del ciclo 10 registi italiani, 10 racconti italiani, manda in onda Avventura di un fotografo, girato, scritto e montato da Francesco (Citto) Maselli. È un lungometraggio particolare, forse fra i più singolari di Maselli (certamente il più interessante fra le trasposizioni degli Amori), e molto distante dal formato dello sceneggiato televisivo tratto da un’opera letteraria: si tratta di un film quasi muto, in cui alle parole molto più spesso si sostituiscono leitmotiv musicali e primissimi piani e l’azione si sfilaccia nella stasi dei personaggi chiusi all’interno di un ambiente domestico. Non è la prima volta che Maselli si confronta con un adattamento, già nel 1963 aveva portato sullo schermo Gli indifferenti di Moravia, nel 1980 realizza quattro puntate televisive da Tre operai di Carlo Bernari e proseguirà con Il compagno di Pavese nel 1998. Esperienze che fanno ben presto maturare nel regista la consapevolezza che «realizzare per immagini un testo letterario è evidentemente scrivere un altro testo»,[1] e in particolare quando si ha a che fare con un racconto così poco narrativo (tanto che nasce, a sua volta, come trasposizione del saggio del 1955, La follia nel mirino).[2] Non a caso le strategie messe a punto tre anni prima con Tre operai, nel caso di Calvino, vengono rovesciate: qui Maselli «tramuta i limiti del piccolo schermo in un’occasione per imbastire un racconto incentrato preminentemente sul materiale plastico e su apparecchiature meccaniche, che contendono ai personaggi in carne e ossa il primato».[3] Il racconto di Calvino, infatti, nella forma di una quête conoscitiva non fa altro che mettere alla prova (questo è il senso proprio dell’avventura del titolo) una serie di possibilità (tutte destinate al fallimento fino all’ultima paradossale soluzione) per catturare e conoscere la realtà attraverso la fotografia e, di conseguenza, per «rappresentare, razionalizzandola, la separazione dal reale che costituisce il nucleo tematico della raccolta e di ogni singola “avventura”».[4] La soluzione a questa «questione di metodo»,[5] com’è noto, è fotografare altre fotografie: ma non si tratta di una mise en abyme o di un approdo alla follia del personaggio, come pure spesso è stato detto. È la scoperta, piuttosto, di un metodo combinatorio che si basa sulla casualità (il caso, d’altronde, è uno degli elementi principali dell’avventura), e sull’accostamento di «un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni».[6] Quella che scopre Antonino Paraggi, il protagonista del racconto, dunque, è una forma di rappresentazione che si basa, se vogliamo, sull’utilizzo di materiali di secondo grado, che vengono rifunzionalizzati attraverso il montaggio dotandosi, così, anche di una funzione sociale (o etico-politica), in grado di unire i destini individuali a quelli generali. La scoperta di Antonino, insomma, è quella dell’allegoria del Dramma barocco e dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin.

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Il saggio, attraverso lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo (Catania, 2009-2010) della regista Maria Arena intorno agli scritti autobiografici Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969), offre uno sguardo sull’eredità artistica e memoriale della scrittrice e attrice Goliarda Sapienza nel contesto contemporaneo.

This essay, through the intermedial show Io ho fatto tutto questo(Catania, 2009-2010) by the director Maria Arena about the autobiographical writings Lettera aperta (1967) and Il filo di Mezzogiorno (1969), looks at the artistic heritage in the new millennium of the writer and actress Goliarda Sapienza.

 

Il soggetto individuale è sempre un evento sociale, e ogni singolo è come una cavità teatrale che riecheggia i diversi motivi e linguaggi della società.

Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente

 

Questo pensiero di Giacomo Marramao racchiude in sé il carattere di fondo della scelta di Maria Arena di portare in scena, nel 2009 a Catania, con lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo, la complessa formazione della scrittrice/attrice Goliarda Sapienza, partendo dal lavoro sugli scritti autobiografici Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno.[1] Al di là dell’impellente necessità testimoniale, negli anni della sua riscoperta in Italia, per la regista era necessario andare oltre l’istantaneità del ricordo per intercettare la memoria di una trasformazione vitale emblematica per la sua «stra-ordinarietà», l’esemplarità di «un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità».[2] Per questo Maria Arena sceglie di mettere in scena non solo il racconto ma anche l’esperienza di una condizione di crisi esistenziale partendo da un un momento preciso della sua biografia legato alla profonda crisi vissuta intorno ai quarant’anni che la portò a due tentati suicidi. Il primo dopo il crollo depressivo seguito alla morte della madre, per cui fu sottoposta a degli elettroshock che ne causarono uno stato di paurosa instabilità e la perdita della memoria. Il secondo fu dato dal fallimento del recupero della riappropriazione di sé attraverso i propri ricordi dopo l’abbandono della professione del suo terapista. Il recupero narrativo attraverso la scrittura si rivelò però il miglior strumento terapeutico per recuperare la molteplicità delle immagini della propria identità. La regista ripercorre quindi il viaggio a ritroso percorso dalla scrittrice nei due testi autobiografici del ’67 e del ’69 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, in cui racconta la riscoperta e la rinascita come scrittrice attraverso un itinerario interiore: dalla vivacità formativa della propria infanzia, vissuta tra le strade del quartiere popolare San Berillo di Catania, sino alla deludente esperienza d’attrice teatrale e cinematografica a Roma.

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L’obiettivo del saggio è quello di mettere in luce un lato assolutamente originale di Goliarda Sapienza, nella sua vita artistica e nel panorama del cinema nazionale. L’indagine sul lavoro di sceneggiatrice, su cui è posta l’attenzione, è condotto attraverso l’analisi dell’intenso e fecondo scambio epistolare inedito tra Sapienza e Maselli, negli anni Cinquanta e Sessanta. Le lettere che risalgono al periodo di gestazione del film I delfini (1960) lasciano emergere con evidenza il ruolo decisivo di Sapienza nella definizione dello script. 

This essay, at highlighting an original aspect in Sapienza, adding a new key point both in her artistic life and in the national film scene. The main focus is on her role as screenwriter as decisively revealed in detail by an intense and rich unpublished epistolary between her and Maselli, over the 50s and the 60s. Thought the letters it was possible bring out Sapienza’s role as screenwriter, especially for the film I delfini (1960).

Forse a taluno queste lettere sembrare potrebbero di nessuna o poca importanza…

Anonimo**

 

 

1. La scrittura che diventa cinema

Su Goliarda Sapienza, scomparsa nel 1996, è in atto una feconda ricerca che indaga soprattutto l’aspetto letterario, avendo i suoi libri varcato i confini nazionali ed essendo diventati dei veri e propri casi editoriali, primo fra tutti L’arte della gioia.[1] Poco sappiamo invece della sua carriera di attrice, di teatro prima e di cinema poi, certamente breve ma molto intensa. Praticamente nulla si sa della sua storia da ‘cinematografara’, come le piaceva definirsi, compiuta passo passo al fianco del suo compagno Citto Maselli, indifferentemente davanti e dietro la macchina da presa. Sapienza è stata protagonista di tre lustri di cinema italiano con un ruolo ben più articolato e dinamico delle sette pellicole, dirette da grandi maestri della regia, che la critica e gli storici hanno riportato di penna in penna, spesso con errori anche grossolani. Ma «l’anonimato, lo sappiamo da molto tempo, è uno stato proprio delle donne», come chiosa Carolyn G. Heilbrun nel suo libro Scrivere la vita di una donna.[2]

Goliarda Sapienza ha vissuto questo statuto nei sedici anni passati accanto al compagno Citto Maselli, regista per il quale ha ricoperto tutti i ruoli: attrice, doppiatrice, assistente alla regia, dialogue coach, sceneggiatrice. Tutto con intensa passione e appunto in anonimato, fatta eccezione per il mestiere di attrice. Proprio dalle sue stesse parole in La mia parte di gioia, scopriamo che Sapienza ha lavorato in «quaranta documentari e quattro o cinque film, fino agli Indifferenti. Ho fatto tutti i mestieri».[3] Tutti i mestieri, compreso quello di sceneggiatrice, che qui proverò a mettere in luce attraverso documenti editi e inediti, come le numerose lettere che si trovano nell’Archivio Sapienza Pellegrino, utili a ricostruire il multiforme e complicato rapporto tra Sapienza e il mondo del cinema.

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Goliarda Sapienza. Tutto è iniziato con la scoperta de L’arte della gioia nel 2008, la lettura appassionata di tutti gli scritti editi e qualche inedito, il desiderio di girare un documentario, l’impazienza e la scelta di mettere in scena uno spettacolo, l’epilogo con un film dedicato a lei ma in cui di lei non si parla, o forse sì. Oggi vorrei ancora lavorare sui suoi scritti ma non so se ciò accadrà. Le sue pagine hanno fatto germogliare in me una pianta che ancora annaffio con cura.

Io ho fatto tutto questo ispirato e dedicato a Goliarda Sapienza – in scena a Catania al centro Zo nel 2009 e nel 2010 – nasce dalla scoperta di una scrittrice straordinaria e dall’urgenza di ricordarla alla sua città d’origine e non solo. Nessuna libreria catanese infatti prima del 2009 aveva i suoi libri, e il suo nome in città per i più sembrava inventato e in Italia quasi sconosciuto. Ho scoperto Goliarda in occasione della pubblicazione di Einaudi de L’arte della gioia nel 2008. Lessi il romanzo in un fiato passando poi, in preda ad un innamoramento appassionato, alla lettura di tutti i suoi testi editi: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Destino coatto, L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio. Tra luglio e settembre avevo letto tutto.

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

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