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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il fondo fotografico Servizio in casa, che comprende il lavoro realizzato dall’agenzia DIAL Press in Italia tra il 1951 e il 1967, custodito presso l’Istituto LUCE, ha la funzione di archivio (ri) organizzatore di discorsi illuminanti per comprendere le tante tensioni legate alla figura femminile in un’epoca di passaggi e trasformazioni. Significativi gli scatti in salotto, la stanza borghese per eccellenza che diventa palcoscenico di nuove prospettive di identità. La casa si trasforma in stimolo per racconti inediti: qui, attrici o donne di spettacolo, sono giovani professioniste coscienti della propria immagine pubblica, non subiscono più il focolare, ma lo abitano quale luogo di espressione consapevole.

The photographic collection Servizio in casa, which includes the work realised by the DIAL Press photo agency in Italy between 1951 and 1967, kept at the LUCE Institute, functions as an archive (re)organising enlightening discourses to understand the many tensions linked to the female figure in an era of transitions and transformations. Significant are the shots in the living room, the bourgeois room par excellence that becomes a stage for new perspectives of identity. The home is transformed into a stimulus for new stories: here, actresses or showbiz women are young professionals who are aware of their public image. They no longer suffer the hearth, but they inhabit it as a place of conscious expression.

 

1. L’archivio illuminante

I 70810 scatti realizzati dell’agenzia americana DIAL Press rappresentano un prezioso strumento per inquadrare la storia della Hollywood sul Tevere nel Secondo dopoguerra, la Roma del grande cinema tra il 1951 e il 1967. Attualmente, il prodotto del lavoro italiano dell’agenzia è custodito dall’archivio fotografico dell’Istituto LUCE, compresa la parte denominata Servizio a casa, oggetto di quest’articolo, fondo che racconta gli spazi privati di personaggi dello spettacolo e della cultura. In prevalenza, gli shooting sono dedicati a volti mediamente noti, che possono vantare in filmografia uno o due titoli di successo; più di qualche servizio è tuttavia focalizzato su dive affermate, o a un passo dall’esserlo. Sono presenti anche svariati personaggi della televisione e del mondo della cultura in generale. Purtroppo non si hanno notizie esaustive sui singoli materiali e sono incerte persino le date di molti scatti. Sicuramente, le fotografie coprono un arco temporale che va dall’inizio del sesto alla fine del settimo decennio del secolo scorso. Con ogni probabilità, le immagini nascono per essere vendute ai giornali allo scopo di arricchire approfondimenti sul ‘nome’ del momento. Se considerata nella sua interezza, in una prospettiva di ‘messa in relazione’ dei documenti (Foucault, 1999), la raccolta Servizio a casa traccia una rete di discorsi che stimola potenziali riflessioni su quanto la quotidianità privata di personalità famose illumini le mutazioni del rapporto delle donne con un ambiente di cui, fino a pochi decenni prima, sono state ‘succubi’, imprigionate nel ruolo dell’‘angelo del focolare’. La ricorsività delle scelte nella composizione delle inquadrature inonda la collezione di ciò che Jacques Derrida definirebbe «unicità violenta» (Derrida, 1996), perché costruita da un solo punto di vista, schiacciata da una prospettiva monotona. Tuttavia, la possibilità di ‘riesumare’ queste tracce, di interpretarle attraverso un’analisi puntuale, genera movimenti differenziali: l’indagine infatti individua alterità che producono nuovo senso (Leghissa, 2020). A un attento esame, nelle decine di fotografie di cucine, camere da letto, salotti, terrazzi dove dive e ‘divette’ si mettono in posa, ogni stanza della casa è suscettibile di essere un palcoscenico esclusivo su cui si può ostentare un aspetto ben diverso da quello più spesso esibito o, al contrario, confermare i cliché legati al proprio personaggio.

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Davide Livermore è uno dei registi d’opera più interessanti e innovativi nel panorama italiano dell’ultimo decennio. In questo contributo si prenderanno in considerazione due suoi recenti allestimenti: Norma di Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021) e Macbeth di Giuseppe Verdi (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). I due spettacoli sono stati scelti per l’originalità delle proposte del regista e per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco alcuni aspetti fondamentali della ‘scrittura scenica’ di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione del repertorio operistico nel panorama culturale contemporaneo. In particolare la ‘scrittura scenica’ di Livermore sarà analizzata alla luce del suo ricorso alle più avanzate tecnologie digitali, della sua tendenza a progettare la drammaturgia visiva in funzione della rimediazione in televisione e nei nuovi media e del radicamento del regista nell’estetica del postmodernismo.

Davide Livermore is one of the most interesting and innovative opera directors on the Italian scene of the last decade. This article will consider two of his recent productions: Norma by Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 September 2021) and Macbeth by Giuseppe Verdi (Milan, Teatro alla Scala, 7-29 December 2021). The two shows were chosen for the originality of the director’s proposals and above all for their exemplariness: their analysis, in fact, allows to focus on some key aspects of Livermore’s ‘stage writing’ and at the same time to address a series of crucial issues relating to the modes of transmission and reception of the operatic repertoire in the contemporary cultural landscape. In particular, Livermore’s ‘stage writing’ will be analyzed in the light of his using the latest digital technologies, of his tendency to design the visual dramaturgy on the basis of remediation in television and new media and the rooting of director’s theatrical language in the aesthetics of post-modernism.

1. Tra partitura e ‘scrittura scenica’

Il 2021 ha visto diversi nuovi allestimenti di Davide Livermore, quasi tutti di titoli verdiani. In ordine cronologico si segnalano Elisabetta regina d’Inghilterra (Pesaro, Rossini Opera Festival, 11-21 agosto 2021), Norma (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021), La traviata (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 17 settembre-5 ottobre 2021), Giovanna D’Arco (Roma, Teatro dell’Opera, 17-26 ottobre 2021), Rigoletto (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 19-24 ottobre 2021), Macbeth (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). In questo contributo si prenderanno in considerazione le messinscene della Norma di Vincenzo Bellini e del Macbeth verdiano. I due spettacoli sono stati scelti non tanto per la loro risonanza mediatica, quanto piuttosto per l’originalità delle proposte del regista e soprattutto per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco talune fondamentali costanti della ricerca drammaturgica di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione delle opere di repertorio nel panorama culturale contemporaneo.

Oggetto privilegiato dell’indagine sarà la ‘scrittura scenica’ che sovrintende entrambi gli allestimenti, laddove per scrittura scenica si intende – per dirla con Lorenzo Mango – «l’insieme degli elementi legati alla messa in scena, considerati non più come tanti fattori collaterali alla artisticità del teatro ma come parte integrante di un progetto creativo che è “scrittura” poiché determina e compone l’opera d’arte teatrale».[1] Del resto gli studi sulla dimensione performativa del teatro musicale, che si sono sviluppati negli ultimi decenni sotto la spinta del ‘Regietheater’, ci hanno insegnato che la messinscena di un’opera può venire presa in considerazione nella sua autonomia estetica rispetto al libretto e alla musica. Come ha evidenziato Clemens Risi,

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  • Arabeschi n. 15→
  • Incontro con Fanny & Alexander →
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Il saggio analizza come il teatro nella poetica di Fanny & Alexander si mescola ad altre arti. In particolare si ripercorrono cronologicamente i principali progetti teatrali della compagnia sotto tre prospettive differenti. La prima riguarda la presenza del cinema nel progetto Ada o ardore. La seconda affronta la potenza dell’immagine nel progetto Oz. La terza e ultima tratta invece il più recente dispositivo, chiamato “eterodirezione”, che ha inaugurato un nuovo procedimento compositivo a stretto contatto con la parola e la letteratura (Progetto Discorsi, Storia di un’amicizia e Se questo è Levi).

The essay analyzes how theater, in Fanny & Alexander's poetics, meets many other arts. In particular, the main theatrical projects of the company are traced chronologically from three different perspectives. The first concerns the presence of cinema in the project Ada o ardore. The second deals with the power of the image in the Oz project. The last deals with the most recent device, called “heterodirection”, that is remote control, which inaugurated a new compositional process involving language, dance and literature (Discorsi Project, Storia di un’amicizia and Se questo è Levi).

 

1. Prologo

Piccole fiammelle tremolanti illuminano la ribalta. Sull’arcoscenico campeggia la frase Ei blot til, lyst, che in italiano significa «non per il solo piacere», un invito, che è anche un ammonimento. I personaggi sono figurine di carta colorata. Un bambino, Alexander, con occhi pieni di immaginazione, contempla il proprio teatrino, prima di alzarsi in piedi, chiamare Fanny ed esplorare la casa della nonna, che tra lampadari di cristallo, tende, drappeggi, antichi quadri alle pareti, un letto con il baldacchino e sedie di legno intagliato che sembrano dei troni, appare, agli occhi del bambino, una reggia. La prima scena del film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (1982)[1] ha un sapore iniziatico. À rebours la scelta della compagnia ravennate – fondata dieci anni dopo l’uscita del film, nel 1992, da Luigi De Angelis e Chiara Lagani – di utilizzare come proprio nome, e marchio di fabbrica, il titolo del film di Bergman, appare quanto mai esatta. Le forme, le atmosfere e i temi ci sono già tutti, o quasi: l’archetipo dell’infanzia, la potenza dell’immaginazione e dell’arte, il piacere della macchineria artigianale e della meraviglia, la costruzione di dispositivi della visione, la complicità di una coppia, un fratello e una sorella… E poi dell’immaginario di Bergman si potrebbero aggiungere i contrasti tra eros libertino e rigore nordico, amore per le grandi opere e ossessione per il dettaglio, fascinazione per una raffinata tradizione borghese e carica innovativa nella rottura delle forme.[2] Fanny & Alexander nasce richiamandosi a un grande regista cinematografico e teatrale, che è soprattutto un artista-intellettuale creatore di mondi.

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

In un’epoca in cui si impone in modo rilevante la questione dell’enigmatica eredità lasciata dalla performance teatrale, della possibilità o meno che le sue tracce, i suoi resti, possano farsi reale memoria e testimonianza, una pubblicazione come Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) del Teatro Valdoca rappresenta un caso del tutto peculiare. I due volumi che compongono l’opera, infatti, sembrano muoversi nella direzione di un tentativo non tanto di rendere conto a posteriori di ciò che uno spettacolo (Giuramenti, 2017) e la sua realizzazione hanno rappresentato, quanto di intercettare le potenze, i flussi di energia, i nuclei di tensione che ne sono stati spinta iniziale e dinamica propulsione costante. Attraverso la parola e l’immagine, messe in campo in un modo capace di far saltare la consueta forma-libro e di spingerla ad accogliere l’ebollizione non addomesticata di una materia così potente, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti non mira all’impossibile meta di riconvertire le ceneri nel fuoco da cui sono nate, ma ci catapulta, piuttosto, nel bruciare stesso che ha generato quel fuoco e che infiniti altri ne può ancora attivare.

In an era when thoughts about the enigmatic heritage of theatrical performance rule and when question about the possibility that its tracks can become an effective memory is being debated, a publication like Teatro Valdoca’s Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) represents a very particular case. Its two volumes don’t try, in fact, to account for a show (Giuramenti, 2017) and for what it has been, but they attempt to intercept the powers, the energy flows and the tension nuclei that have been the initial push and the constant propulsion of it. Fielding words and images in a way capable of blowing up the book-form because of the break-in of a so powerful and non-domesticated material, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti doesn’t try to reconvert ashes into the fire from which they come, but catapults us in the burning that generated that fire and that can still produce infinite pyres.

Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri

Gustav Mahler

 

1. Ciò che innesca il rogo e ciò che resta del fuoco

Il fuoco e le ceneri: si potrebbe condensare in queste due immagini essenziali così strettamente correlate e al tempo stesso così sideralmente distanti, inconciliabili, la questione che la performance teatrale pone rispetto al proprio lascito, alla propria possibilità di convertirsi o meno in traccia significativa, espressiva.

Quando Jacques Derrida scrive che «la rappresentazione teatrale è finita, non lascia dietro di sé, dietro alla sua attualità, alcuna traccia, nessun oggetto da portare via» e che «non è né un libro né un’opera ma un’energia e in questo senso è la sola arte della vita»,[1] descrive un’arte, quella scenica, che come nessun’altra è accostabile all’idea del fuoco, che come il fuoco brucia e si consuma nell’atto vivo e presente, senza possibilità di replica, di reale memoria. D’altronde è della visione artaudiana di teatro che sta scrivendo, di quell’Antonin Artaud che, in un passaggio ormai divenuto celebre, scrive dell’arte scenica come di un’arte capace di farci sentire «come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme»,[2] permettendo a Derrida di descriverla come «l’arte della differenza e del dispendio senza economia, senza riserva, senza riscatto, senza storia».[3] Di un tale fuoco, insomma, sembrerebbe impossibile che si diano dei resti capaci di fornirne testimonianza efficace e potente quanto le fiamme che l’hanno costituito.

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Spinto dal desiderio di confrontarsi con la parola di Giovanni Testori, con la sua potente teatralizzazione della grammatica, Roberto Latini ha portato in scena il famoso monologo testoriano In exitu (1988). Il contributo analizza e interpreta lo spettacolo dell’attore-dramaturg romano attraverso una riflessione sul senso ideologico del testo, sul suo messaggio sociale ancora vivo e urgente. L’itinerario di indagine tracciato è perciò declinato in due momenti: il recap essenziale della storia e dei temi della drammaturgia di Testori che consente di contestualizzare, nella seconda parte del testo, la lettura critica delle forme di recitazione e di scrittura scenica adottate da Latini nella sua performance. La tesi che salda i due movimenti dell’analisi rileva un deciso ‘inarcamento’ di sensibilità artistica che avvicina Latini a Testori; una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ che assegna alla messinscena dell’attore un forte impatto emotivo, e soprattutto la rende paradigmatica del significato profondo dell’opera testoriana, del suo valore espressivo e morale. 

Driven by the desire to confronted with the words of Giovanni Testori, with his strong theatricalization of grammar, Roberto Latini hasstaged the testorian famous monologue In exitu (1988). This paper analyzes and interprets the show of the roman actor-dramaturg through a reflection on the ideologic meaning of the text, on its existing and urgent social message. Therefore the itinerary of research is structured in two moments: the essential recap of history and themes of Testori’s dramaturgy that allows to contextualize, in the second part, the critical reading of the forms of acting and scenic writing adopted by Latini in his performance. The thesis that welds the two movements of the analysis reveals a sharply ‘bending’ of artistic sensibility that brings Latini closer to Testori; a ‘correspondence of loving senses’ that gives to the actor’s performance a strong emotional impact, and makes it paradigmatic of the profound meaning of the testorian work, of its expressive and moral value.  

Lui la vede la sua anima,

un lenzuolo bianco che sbatte in balìa del vento,

fra cielo e Dio.

Markus Hediger

 

 

1. Alla radice del messaggio testoriano

«Essere non o essere» recitava Roberto Latini, con un espressivo capovolgimento del monologo di Amleto nello spettacolo Essere e Non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare (2001). Quasi vent’anni più tardi un imprevedibile fil rouge lega l’interrogativo sospeso fra il niente (l’essere non) e l’essere del giovane Latini all’«angoscia del niente»[1] del giovane Riboldi Gino creato da Giovanni Testori, personaggio che si sottopone ad ogni degradazione possibile, che non ha più nulla da perdere, che raggiunge il limite estremo dell’abiezione, arrivando a sentirsi esso stesso ‘niente’: «Riboldi-niènt, Gino-niènt, Gino-nòsingh, nòsingh-Gino, nòsingh-niènt […]».[2]

L’inclinazione verso un punto di vista esplicitamente esistenziale, affacciato sulla dimensione profonda dell’individuo, in cerca di una «possibile pantografia della condizione umana»,[3] salda l’itinerario di pensiero dell’intellettuale lombardo alla quête artistica dell’attore-regista e dramaturg romano, in una consonanza di sentimenti e ispirazioni che va ben oltre il tracciato biografico. La distanza geografica e storica che separa Testori e Latini si riassorbe e scompare in una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’, incarnata nell’interpretazione dell’attore di uno dei personaggi più forti, dirompenti e difficili della mitopoiesi testoriana: Riboldi Gino, protagonista del monologo In exitu.

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

I rapporti di Elio Vittorini con il teatro sono stati saltuari ma significativi: nel 1941 lo scrittore siciliano cura per Bompiani l’antologia del Teatro spagnolo, per la quale traduce la pièce più famosa e rappresentata di Federico Garcia Lorca, Nozze di sangue; nel ’42 in Americana presenta l’atto unico del drammaturgo Thornton Wilder Il lungo pranzo di Natale; nel ’43, per la collana Il teatro di William Shakespeare diretta da Mario Praz per Sansoni traduce il Tito Andronico; infine nel ’52 cura l’edizione Einaudi delle Commedie di Carlo Goldoni.

A questi episodi di confronto diretto con opere drammaturgiche, si aggiungono tre prove di scrittura teatrale: il breve dramma Due scene, apparso nel 1946 sulla rivista Il Mondo di Firenze; la riduzione per la radio e il teatro di Uomini e no, a cui lavora con Crovi e Vaime e che appare su Sipario nel 1965; e la sceneggiatura incompiuta Atto primo, che Vittorini abbozza a ridosso del romanzo resistenziale, e che è stata pubblicata postuma sulla rivista Il Ponte nel 1973. A proposito di Atto primo, va detto che esce accompagnato da una nota redazionale che ne suggerisce la datazione al 1965; tuttavia, la studiosa Raffaella Rodondi ha messo in evidenza come alcune parti del testo teatrale siano state inserite in modo pressoché identico in un capitolo di Uomini e no, pertanto è lecito spostarne la stesura all’altezza cronologica della prima edizione del romanzo (1945). Tale rimando intertestuale dimostra chiaramente quanto l’officina vittoriniana sia basata sulla commistione di codici e linguaggi.

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Nella città l’inferno di Renato Castellani rappresenta dal punto di vista della performance un caso di collaborazione a quattro mani tra la sceneggiatrice, Suso Cecchi D’Amico, e l’attrice, Anna Magnani; con la messa a punto del personaggio di Egle, l’istrionica detenuta del carcere delle Mantellate interpretata dall’attrice. Il contributo prenderà in analisi alcune scene delle due stesure delle sceneggiature, conservate presso il fondo Castellani del Museo Nazionale del Cinema, in cui il lavoro di scrittura dell’una per l’altra sottende da un lato una profonda conoscenza della Magnani, andando oltre lo stereotipo, e dall’altro una sicurezza avvalorata dalla profonda amicizia che legava le due donne, che ha permesso alla Magnani di valorizzare le potenzialità del suo lavoro attoriale, qui giocato sulla capacità di inserirsi nella scrittura della D’Amico potenziando la performance con l’assoluta padronanza della scena e l’uso dell’idioletto che contraddistingue il personaggio di Egle. 

…and the Wild Wild Women by Renato Castellani represented a case of collaboration between the screenplay and the performance as the result of the deep knowledge and friendship that connected the screenwriter, Suso Cecchi D’Amico, and the performer, Anna Magnani, that is flown into Egle’s character. The proposal is going to analyze some scenes of the two scripts, stored in the Castellani’s archive collection at the National Museum of Cinema, where this collaboration emerges and promoting and strengthening Magnani’s performance. 

 

 

 

Le parole di Suso Cecchi D’Amico poste in esergo offrono un ritratto di Anna Magnani in cui la lucida obiettività di talune affermazioni («non era bella […] le gambe erano magre e leggermente storte […]») viene del tutto sopravanzata dal tono poetico e immaginifico della descrizione («spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano […]»), e dal suo chiudersi sull’improvviso emergere di tratti di splendore («aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi […]»), sino alla resa incondizionata di fronte al suo fascino («Dovunque entrasse in scena, non guardavi altri che lei»). Un ritratto delineato da parte di qualcuno che proprio scrivendo per lei, in qualche modo Ê»di leiʼ, aveva sviluppato con l’attrice e la donna un rapporto di profonda intesa e amicizia, durato molti anni e rievocato in numerose occasioni. Un’amicizia fatta di fiducia, in particolare da parte della Magnani nei confronti di Suso, che confidava nella scrittura della sceneggiatrice, avvertendola rispettosa della sua personalità più che dello stereotipato personaggio Ê»Magnaniʼ e, soprattutto, delle sue qualità di attrice, spesso previste, anticipate, ma mai imposte nei ruoli scritti per lei; una collaborazione che inizia con L’Onorevole Angelina (L. Zampa, 1947) e prosegue con Bellissima (L. Visconti, 1951), Camicie rosse (G. Alessandrini, 1952), l’episodio Anna Magnani (L. Visconti, 1953) in Siamo donne, Nella città l’inferno, di cui si parlerà in questo contributo, e che si conclude con Risate di gioia (M. Monicelli, 1960). Ma se sono note le tappe di un rapporto che conosce una fase calante proprio in concomitanza con l’ultimo film di Monicelli, e che si nutre del sodalizio artistico ma anche di quello umano (con la Magnani che coinvolge l’amica nelle sue crisi sentimentali, nelle incomprensioni con i registi, nelle sue partenze – quella per l’America –, nelle sue Ê»ruzzeʼ notturne), non sempre sono state osservate nel dettaglio le relazioni tra la scrittura dell’una per l’altra, e la performance dell’attrice.

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Lo spettacolo 887 dell’eclettico artista teatrale canadese Robert Lepage è un’incursione nel mondo della memoria, una storia che inizia nei suoi ricordi di infanzia. Attraverso la costurzione di un allestimento scenografico ʻtrasformistaʼ, l’autore si immerge nel cuore della propria memoria, interrogandosi sui suoi meccanismi (Perché ricordiamo il numero di telefono della nostra gioventù, quando dimentichiamo il presente? Perché le informazioni inutili persistono, mentre altre, più utili, evadono?). Il saggio prende in esame il processo creativo dello spettacolo di Lepage alla luce della tecnica dell’ʻautofinzioneʼ, che permette all’artista di alimentare la realtà autobiografica con elementi a metà tra verità e fantasia. 

The show 887 directed by the eclectic theatrical Canadian artist Robert Lepage is a foray into the world of memory, a story that begins in his childhood memories. Through the set-up of a scenographic setting ʻtransformativeʼ, the author immerses himself in the heart of his memory, questioning about his mechanisms (Why do we remember the phone number of our youth, while we forget the current one? Why does useless information persist, while others, more useful, escape?). The essay examines the creative process of the Lepage's show in light of the 'autofiction' technique, which allows the artist to feed the autobiographical reality with elements halfway between truth and fantasy.

 

 

Lo spettacolo 887 (2015), dall’indirizzo della via in cui il regista e interprete franco canadese Robert Lepage ha vissuto la sua infanzia e adolescenza con la famiglia a Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale e collettiva: gli episodi autobiografici, infatti, si intrecciano a eventi legati al periodo del terrorismo separatista degli anni Sessanta. E’ un tentativo di riconciliazione con il proprio passato, un’occasione per ripensare il rapporto con il padre ed un modo per rileggere le contraddizioni politiche del Québec in epoca di piena rivoluzione. «Il teatro è tutto sulla memoria» dice Lepage. «È il grande sport del ricordare. L’unico modo per parlare della storia con la S maiuscola è guardare la storia con una s minuscola. Cercavo la mia famiglia e ho scoperto la storia di Québec».

L’interrogativo del perché ricordiamo e di cosa seleziona la nostra memoria è il tema dello spettacolo, declinato anche in versione contemporanea, ovvero riferito alla memoria offerta dai nuovi strumenti tecnologici.

Così Lepage affronta la materia dello spettacolo:

Il racconto teatrale, fatte queste premesse, va nella direzione di un ibrido di parola e iconicità elettronica, denunciando al tempo stesso uno scetticismo di fondo sui possibili usi distorti dei new media che trasformano la memoria semplicemente in Ê»datiʼ. Nello spettacolo si parla di memoria e contemporaneamente si usano i suoi strumenti attuali: si proiettano foto e video archiviati dentro il nostro cellulare, si mostra una mappa digitale per localizzazione i luoghi, si usa una rubrica telefonica per ricordare i numeri:

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Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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