Lo spettacolo 887 (2015), dall’indirizzo della via in cui il regista e interprete franco canadese Robert Lepage ha vissuto la sua infanzia e adolescenza con la famiglia a Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale e collettiva: gli episodi autobiografici, infatti, si intrecciano a eventi legati al periodo del terrorismo separatista degli anni Sessanta. E’ un tentativo di riconciliazione con il proprio passato, un’occasione per ripensare il rapporto con il padre ed un modo per rileggere le contraddizioni politiche del Québec in epoca di piena rivoluzione. «Il teatro è tutto sulla memoria» dice Lepage. «È il grande sport del ricordare. L’unico modo per parlare della storia con la S maiuscola è guardare la storia con una s minuscola. Cercavo la mia famiglia e ho scoperto la storia di Québec».
L’interrogativo del perché ricordiamo e di cosa seleziona la nostra memoria è il tema dello spettacolo, declinato anche in versione contemporanea, ovvero riferito alla memoria offerta dai nuovi strumenti tecnologici.
Così Lepage affronta la materia dello spettacolo:
Perché ricordiamo il numero di telefono della nostra gioventù, quando dimentichiamo il presente? Perché le informazioni inutili persistono, mentre altre, più utili, evadono? Come una memoria personale trova eco nella memoria collettiva? Che dire della dimenticanza, dell’inconscio, della memoria che viene cancellata nel tempo e i cui limiti sono compensati dagli archivi digitali, dalle memorie virtuali?
Il racconto teatrale, fatte queste premesse, va nella direzione di un ibrido di parola e iconicità elettronica, denunciando al tempo stesso uno scetticismo di fondo sui possibili usi distorti dei new media che trasformano la memoria semplicemente in ʻdatiʼ. Nello spettacolo si parla di memoria e contemporaneamente si usano i suoi strumenti attuali: si proiettano foto e video archiviati dentro il nostro cellulare, si mostra una mappa digitale per localizzazione i luoghi, si usa una rubrica telefonica per ricordare i numeri:
È un tema ora la tecnologia nell’idea della memoria; il pubblico riconosce la propria tecnologia, perché nello spettacolo usiamo il telefono cellulare, la telecamera… La tecnologia non è unicamente il modo di espressione di 887, è anche uno dei temi importanti, perché si parla di affidare la nostra memoria alla tecnologia.
Lo spettacolo non la usa solamente, ma la mette in discussione, le dice la memoria ora è qui.[1]
La neo-oralità di Lepage, se così possiamo definirla, fa affidamento a immagine, suono, e parola in una dimensione multimediale. Nel mondo dell’oralità il cantore per aiutarsi nella memoria usava il canto, il ritmo, la metrica, oppure si avvaleva di scene disegnate, qua Lepage non utilizza più la tela ma uno schermo, un originale contenitore di immagini e una serie di webcam e varie altre strategie di ʻvisioni mediateʼ. Le fotografie, i video fissati nel nostro archivio digitale o nel grande archivio Internet, ci fanno tornare in maniera meccanica alle stesse informazioni, ricontemplare gli stessi oggetti del passato seguendo tutte le volte il medesimo percorso; ma queste testimonianze, per sottrarsi alle continue sollecitazioni automatiche a ʻricordareʼ, e per riempire quel vuoto emotivo provocato dall’eccesso di accumulo delle memorie nei dispositivi, necessitano di una volontaria ricerca, o di una rievocazione istintiva, improvvisa e spontanea. La rievocazione non è qualcosa di passivo: «La memoria non è un deposito di attributi fissi o codificati che possono essere richiamati e messi insieme in maniera replicativa, come avviene nei computer. La memoria cerebrale, a differenza del computer, è inesatta».[2]
Alla sensazione di smarrimento di fronte alle numerose banche dati di cui ci circondiamo per archiviare il nostro vissuto, Lepage contrappone la memoria umana associativa e immaginaria, con la sua labilità e le sue falle, che nel continuo rielaborare e riorganizzare i ricordi è quell’ombra indelebile che ci accompagna e ci plasma nel nostro cammino; ed è su questo sguardo di oggi rivolto alle vicende drammatiche del passato, personali e collettive, questo viaggio all’indietro verso le profondità del tempo interiore, rivissuto in scena come un flashback quasi in forma di ʻterapia psicoanaliticaʼ, che lo spettacolo instaura il suo ʻpattoʼ con lo spettatore.
I ruoli del personaggio e dell’autore si scambiano e si sovrappongono in un’insolita autoanalisi teatrale, che nasce da un’oggettivazione del sé, dalle relazioni irrisolte all’interno della famiglia, dalla proiezione di dubbi e paure inconsce, ma anche dall’evocazione di momenti di intima felicità familiare.
Lepage confonde il pubblico proponendo uno spettacolo che non è reportage, non è autobiografia e neanche unicamente finzione, ma forse è tutte queste forme, scoperta e insieme invenzione, in cui la memoria personale e ʻin soggettivaʼ è protagonista con la costruzione della propria immagine.
Uscire da se stessi ed entrare nella propria messa in scena: non è sbagliato attribuire a questa originale scrittura teatrale, che dà spazio a singoli ricordi staccati e a frammenti della propria vita significativi ma incompleti, il valore di una ʻseconda nascitaʼ, di una maschera che ci mettiamo da soli raccontando la nostra storia, reinventandoci per «diventare alla fine quello che si è», come ben descritto dal filosofo Aldo Giulio Gargani:
Noi siamo noi stessi e poi siamo ancora qualcosa di più di noi stessi e la nuova nascita che attribuiamo alla scrittura è lo sguardo rinnovato che trema nella dismisura dell’indecisione tra quello che noi siamo in quanto persone definite dai contorni della nostra esistenza passata e quello che in noi stessi si spinge in avanti come ciò che non ha stabilità.[3]
Lepage nei suoi spettacoli ci ha abituato al tema della memoria: ripercorrere a ritroso le vicende personali e comuni, che hanno segnato vite e destini, attraverso le lenti distorte e imperfette della memoria dà anche una chiave per interpretare l’oggi; da Le sept branches de la rivière Ota (su Hiroshima e il ricordo della bomba atomica cinquant’anni dopo) a La Face cachée de la Lune (sulla morte della madre) la memoria per il regista è qualcosa di vivo e dinamico, fatta di rimandi, persistenze, connessioni.
In 887 Lepage ovviamente non guarda solo alla memoria d’archivio, delle fotografie e dei testi scritti:
La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti o visivi per immortalare il passato, per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli, la qual cosa rende più difficile per la storia trasformarsi in mitologia. Le persone si dispiacciono della non affidabilità della memoria, ma dovrebbero esserne felici, e usarla come strumento creativo.[4]
Con queste premesse non è difficile arrivare alla conclusione che in 887 il racconto della famiglia di Lepage e della Révolution tranquille del Québec, passando attraverso il filtro soggettivo del narratore, diventa una ripetizione ʻcreativaʼ della vicenda reale con continue ramificazioni e diversioni, cioè variazioni, tutte a modo loro legittime. Rendendo contemporanea la lezione dell’epica, Lepage sembra suggerirci che a teatro ʻripetere a memoriaʼ vuol dire rivivere e far rivivere una vicenda, far venire alla luce una situazione e da qui partire per ricrearla, prendendo come guida le parole e i volti che ci hanno maggiormente coinvolto e impressionato. Ideare uno spettacolo come esplorazione del passato, come archivio della memoria, significa non solo raccogliere, catalogare e conservare, ma anche ripensare, mostrare e raccontare.
L’artista, parlando in prima persona durante il Prologo, spiega che lo spunto per lo spettacolo gli venne da un episodio – vero o presunto che sia – riguardante la sua difficoltà a memorizzare un componimento poetico in occasione del Festival dei 40 anni della Poesia contemporanea in Québec.
Il componimento Speak white (Parlez blanc) scritto da Michèle Lalonde nel 1968 parlava anch’esso di memoria, la memoria politica delle vicende del Québec separatista. Il titolo del poema infatti altro non è che l’ingiuria sprezzante rivolta ai franco-canadesi da parte degli inglesi.
In qualche modo lo spettacolo a questo punto è già definito: un contesto storico e geografico di riferimento – che unisce, se non tutti, almeno quelli che conoscono la breve ma intensa stagione caratterizzata dal Fronte di Liberazione del Québec (FLQ) negli anni Settanta – e un racconto autobiografico, quello del giovane Lepage, terzo di quattro fratelli, figlio di un ex militare della Marina poi diventato tassista e di una casalinga, che già in giovane età coltiva la propria vocazione attoriale.
I fatti vengono narrati con stili diversi: si comincia da quello più formale della conferenza, con tanto di proiezione di slide per spiegare al pubblico dove si genera la memoria nel nostro cervello, per passare poi al racconto intimista in prima persona enunciato in alessandrini, il verso di Moliere e Racine.[5] Così lentamente si va verso il teatro, e contemporaneamente verso una ricomposizione dell’io tramite la memoria e la poesia:
Sicuramente il fatto di lavorare con delle parti del testo in rima mi permetteva di portare una certa forma di teatralità in uno spettacolo dove c’erano due cose che non stavano bene insieme: lo stile da conferenza e il teatro. Non riuscivo a creare un legame tra le due parti, era troppo scioccante passare dallo stile di conferenza a quello teatrale! Tra i due ci voleva una forma di narrazione che stava in mezzo, tra il racconto e il teatro. L’idea di usare le rime alessandrine, come passaggio da uno all’altro, mi sembrava buona. Gli spettatori accettavano che la narrazione diventasse all’improvviso in rima, prendendo una forma poetica, ma anche una forma teatrale, visto che erano degli alessandrini. Questo permetteva di scivolare pian piano verso il teatro.[6]
La memoria del personaggio è contenuta nell’edificio in miniatura presente in scena, che raccoglie tutti i luoghi e tutti i tempi. In questo processo di ritorno al passato il protagonista, aiutato nel suo percorso di memoria dall’architettura - fedelissima ricostruzione della casa familiare - vede se stesso percorrere i luoghi d’infanzia, il padre piangere dentro il taxi per la morte della madre, la sorella con cui giocava a fare il teatro, il fratello con cui si contendeva i programmi tv e i vicini. Ricostruisce la vita intorno a quel palazzo, con i suoi rumori e le sue musiche. I personaggi sono resi in forma di piccole bambole mosse dallo stesso Lepage, per raccontare le loro relazioni e le loro storie, fatte di drammi ordinari. La memoria è letteralmente evocata in forma di stanze e camere-scatole, e porta Lepage a rievocare episodi della sua giovanile vocazione teatrale, associati sia a momenti di bellezza (il ricordo delle prime prove teatrali) che a momenti dolorosi e paurosi (gli attentati a firma del FLQ).
L’edificio in scena, poco più alto dello stesso Lepage, è una struttura mobile, scomponibile e in alcuni casi anche praticabile. Come tipico dei suoi allestimenti scenografici ʻtrasformistiʼ, bastano pochi movimenti, una rotazione a 45° e un gran numero di tecnici e servi di scena dietro le quinte, per avere davanti agli occhi diversi scenari in poco tempo. Cucina con arredo (con tanto di tavolo e frigo), sala con tv, ma anche interno di un taxi, un locale notturno, un fast food. Questi momenti hanno il fascino di una commossa rievocazione interiore: la memoria, esattamente come la scenografia che appare e scompare sotto agli occhi dello spettatore, è una scatola che si apre e si squaderna, in cui inaspettatamente tornano alla luce dettagli insignificanti collegati a sentimenti personali, e dove episodi centrali si perdono nell’oblio.
Lepage sembra drammatizzare proprio il processo di memorizzazione, e visualizzare nella scenografia, l’antica arte mnemotecnica detta anche ʻpalazzo della memoriaʼ che utilizza come strategia di ricordo, le immagini di un luogo familiare associato a un elemento da ricordare. Questa tecnica richiede di riportare alla mente luoghi che conosciamo molto bene: la nostra abitazione, una via che percorriamo tutti i giorni, un luogo di cui abbiamo presenti anche i minimi particolari.
Il riferimento è alla ars memoriae rinascimentale e a Giulio Camillo (1480 circa -1544), personaggio eccentrico, umanista e filosofo del Cinquecento, vicino a Bembo e a Tiziano, e lodato da Ariosto. Camillo è l’ideatore del Teatro della Memoria, materializzato in un modello dipinto in legno disposto su 49 luoghi, ispirato all’architettura del teatro romano e in cui si immagina di catturare l’intero universo. Il teatro (da theatron, l’atto del vedere) è come un grande repertorio di immagini della memoria: come afferma Lina Bolzoni, la massima esperta di Giulio Camillo, egli «aveva costruito la biblioteca definitiva».
Spiega Bolzoni:
Questo teatro della memoria di Giulio Camillo è una macchina per catturare il segreto della bellezza, riflettere le strutture profonde dell’universo, mettere insieme le tradizioni platoniche, ermetiche e la cabala e cercare una verità che unisca le differenze. Non si tratta di mnemotecnica: questo teatro funziona come una scacchiera che, grazie al movimento e alla combinazione delle sue componenti, è in grado di generare nuovi significati e nuovo sapere come una mente artificiale, cosicché ricordare diventa pericolosamente simile a creare, o ricreare, il mondo.[7]
Il metodo di scrittura teatrale, dalla memoria alla sua ri-creazione, alla messa in scena di un’identità semi-fittizia, viene svelato dallo stesso Lepage: è l’ʻautofinzioneʼ. Si tratta di un genere letterario in cui l’autobiografia viene alimentata da elementi e situazioni possibili ma non avvenuti, a metà tra verità e fantasia: «È tutto vero ma la verità è riorganizzata», dice Lepage a proposito di 887. E ancora: «Storie, personaggi, contesti, situazioni sono tutti veri. Naturalmente, il narratore o il poeta deve abbellire le cose. La licenza poetica consente di mentire in qualche modo o di esagerare certi legami così che lo spettacolo diventi questa “menzogna che dice la verità”, come ha detto Cocteau».[8]
Spettacolo come album dei ricordi, archivio privato, viaggio introspettivo per l’autore-attore e insieme abile mascheramento auto-mitografico. Il nuovo sguardo sul passato sottende a una rinascita che si compie mentre si racconta ciò che siamo stati e il dolore attraversato.
Guardarsi e essere guardati: lo spettacolo alterna il bisogno di scoprirsi per una necessaria comprensione di sé, interpretando percorsi e segni del passato, all’insofferenza del ruolo pubblico e dell’immagine da costruire a futura memoria secondo il ricordo che si vuole lasciare. Significativo a questo proposito è l’episodio in cui il protagonista viene a scoprire dall’amico che esiste un ʻcoccodrilloʼ già pronto per lui, e il testo con il quale il giornale lo ricorderebbe da morto non è esattamente ciò che avrebbe voluto: «Non vogliono dire niente trentacinque anni di teatro? Vale solo la mia partecipazione di cinque minuti a un programma comico su Radio-Canada?».
È una critica alla memoria distorta dei media che opacizza e rende tutto uguale, una memoria breve che seleziona per sintesi eccessiva, che consegna al futuro solo ciò che è stato registrato, fotografato, impresso su un dispositivo e per questo replicabile all’infinito.
887 non è teatro documentario (per quanto in alcuni momenti vengano proiettate foto d’epoca e pagine giornalistiche che testimonierebbero la veridicità dei fatti narrati) né un monologo-confessione: la scelta della tecnica dell’autofinzione per la scrittura, in questo senso, appare determinante:
Nell’autofiction, l’autore estrae un filo dal tessuto che è la sua vita e, più che tagliarlo, lo segue, lo taglia, lo riattacca, lo sfilaccia, lo riannoda. Non tenta di mostrare al lettore, attraverso il racconto, un cappotto fatto del tempo passato, un abito che veste tutta la persona. L’autore di autofiction mostra allo sguardo di chi lo tiene tra le mani sotto forma di libro, soltanto un quadro generale, volontariamente, e non solo inconsciamente, alleggerito, consapevole del fatto che non potrà dire tutto di se stesso, poiché c'è stato di mezzo Freud, e poiché non arde dal desiderio di raccontarsi tutto, di raccontare tutto di sé, o, semplicemente, di raccontare tutto. L’autore di autofiction è un cacciatore. Di se stesso, ma anche - e questo vale soprattutto nei casi migliori - un cacciatore dell’altro, che lo fa esistere.[9]
L’autore Lepage è a caccia del Robert immaginario, quello da consegnare alla memoria del teatro attraverso qualche episodio emblematico della sua infanzia: ed ecco in scena il dodicenne immerso nel clima di paura degli attentati degli anni Sessanta, perquisito dalla polizia mentre distribuisce giornali nel quartiere del premier Jean Lesage, la cui politica aveva alimentato la Rivoluzione tranquilla. Il racconto è in alessandrini:
Je m’relève lentment / sous son œil de guerrier
Pour détendre l’atmosphère / accepte de faire la paix
Mais chaque fois que j’repars / j’ai juste envied’crier:
Sont dans ma tête mes bombes… / pas dans mon sac, épais!
In questa originale rimessa in scena della Storia il giovanissimo Robert ascolta insieme al padre, che era stato militare in Marina ed era un federalista simpatizzante, la lettura del Manifesto dell’FLQ in televisione, ed è sempre con il padre al Parc des Braves ad assistere al comizio del presidente Charles De Gaulle, mentre la folla infervora con la frase «W le Québec libre!».
Lepage non ha mai dimostrato affezione per il movimento nazionalista ed è sempre stato poco incline a passare per l’artista impegnato e ribelle (spesso si è definito un ʻtiepido separatistaʼ, un ʻseparatista occasionaleʼ); tuttavia questi episodi narrati, dei quali il giovanissimo Robert si trova suo malgrado ad essere testimone, non solo evidenziano la critica di Lepage al generalizzato clima di violenza dell’epoca, ma anche una presa di posizione attuale e molto personale - per quanto ancora un po’ ambigua - sulle vicende storiche, all’interno di uno spettacolo considerato dalla critica il più ʻpoliticoʼ della sua carriera.[10]
Infatti il tema del rapporto della minoranza linguistica del Québec con il Canada inglese diventa lo specchio con cui il regista scava la sua complicata relazione con il padre che aveva combattuto nella seconda guerra mondiale difendendo la Marina britannica, e che aveva voluto che i suoi figli andassero a studiare in una scuola di lingua inglese.
Non a caso sembra davvero sintomatico l’evento scatenante la trama dello spettacolo: l’impossibilità di ricordare a memoria la poesia simbolo del movimento indipendentista, Speak White; quelle parole un tempo familiari ora sono diventate estranee, rimosse e poi riemerse solo dopo che l’autore è sceso nelle profondità delle sue verità anche dolorose. Come se per comprenderne il messaggio Lepage avesse dovuto ripercorrere a ritroso tutta la sua vita, le ragioni della pragmatica adesione del padre all’inglese - per avere più chance economiche e con lui certa classe lavoratrice – e le motivazioni dell’indipendentismo, il tutto prima di scegliere la propria versione della storia.
Lepage, infatti, oggi rilegge e rivive quegli scontri come una sorta di ʻlotta di classeʼ tra ceti sociali:
La gente dimentica che l’intero movimento separatista a Québec non era una cosa franco-inglese quando è iniziato. È diventato così a un certo punto, ma all’inizio era una lotta di classe operaia ed è accaduto che la classe povera parlava principalmente francese e la classe superiore inglese. Quel movimento è diventato qualcosa di completamente diverso. Penso che sia necessario fare uno spettacolo sulla memoria per dire: “Beh, ricordati da dove proveniva quell’idea”.[11]
In questo senso il poetico omaggio al padre, al quale dedica una toccante serie di ricordi recitati in alessandrini, assume la forma di un incontro, tardivo ma salvifico, con quella parte di noi che ci è stata a lungo estranea o addirittura indifferente, ma che continua ad accompagnarci come un’ombra.
Ricorderà alla fine la poesia di Lalonde, ma solo dopo aver passato in rassegna le discriminazioni subite (quando fu escluso dalla scuola di teatro, pur avendo superato brillantemente ogni prova, a causa del lavoro poco retribuito del padre), le restrizioni economiche, le ineguaglianze sociali. La rabbia accumulata con la memoria servirà come grido di liberazione per il personaggio e per l’autore stesso, che nel finale declamerà Speak White senza indugio e con passione, come fece Michèle Lalonde nel 1970 al Festival della Poesia.
Se questo finale preannunci una maturata presa di posizione pro-indipendentista dell’artista, o sia solamente un modo per fare ordine nel suo passato, reale, immaginario o intimo, non è dato saperlo. In sostanza: fu vero trauma? Come osserva giustamente Richard Sander:
La vera difficoltà che Lepage ha nel memorizzare l’esortazione sarcastica di Michèle Lalonde a “parlare chiaro come a Wall Street”, cominciamo a sospettare che sia psicologica: è la difficoltà che ha nel rifiutare suo padre e allineare se stesso con i nazionalisti di Québec. Solo quando ci crederà davvero imparerà il poema: l’intero spettacolo riguarda la sua riconciliazione, il suo venire a contatto con il nazionalismo del Québec.[12]
Tutto il percorso del protagonista all’indietro nella memoria sembra essere un faticoso cammino per acquisire consapevolezza della propria ombra (e nello spettacolo questa immagine viene resa concreta con l’ombra della figura trattenuta in scena anche dopo che il corpo si distacca da essa), cioè di quell’insondabile lato dell’inconscio personale venuto alla luce tardivamente. Un finale filosofico che sembra combaciare perfettamente con la riflessione di Gargani:
Noi siamo e poi anche non siamo, ed è questa ambiguità che sfugge al linguaggio ordinario denotativo, il quale non afferra il cono d’ombra che l’irrealtà del nostro essere proietta su ciò che siamo e su ciò che siamo diventati, sottraendo la nostra persona alle sue astrazioni, alle sue idealizzazioni proiettive e agli arbìtri della volontà, in cui ci illudiamo che la nostra realtà consista, e restituendola al gioco tra sfere chiare e oscure nelle quali per la verità la nostra esistenza trascorre e si declina. È questa condizione indivisa di essere e non essere, di sogno e veglia, di zone illuminate e di recessi oscuri della nostra coscienza che va al di là del linguaggio ordinario, il quale uncina soltanto fatti opachi, sordi e muti, che costituiscono la pelle indurita della nostra persona, ma sotto la quale scorre la nostra esistenza alla ricerca del suo sogno oscuro. Ed è questo sogno oscuro lo scenario possibile ed eventuale di quella trasformazione di noi stessi che può culminare in una nuova nascita. Noi siamo al tempo stesso attori e spettatori di un grande dramma dell’esistenza.[13]
1 Intervista a Lepage, a cura di Anna Maria Monteverdi, Lione, novembre 2015.
2 P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio, Bologna, il Mulino, 1991, pag. 204.
3 A. G. Gargani, Il testo del tempo, Bari, Laterza, 1992, pag. 5.
4 R. Lepage in dialogo con Rémy Charest, TCG, 1995.
5 Alessandrino (fr. alexandrin) è il verso tipico della poesia francese. Consta di dodici sillabe; nella poesia classica è sempre diviso in due emistichî di sei sillabe, cosicché gli accenti principali cadono sulla 6ª e 12ª sillaba; i secondari sono variamente distribuiti. Appare la prima volta nel Viaggio di Carlomagno a Costantinopoli e a Gerusalemme (che è, con ogni probabilità, del principio del sec. XII). Nel sec. XIII esso va sostituendo il decasillabo nei poemi epici, ma poi il suo uso regredisce. Rimesso in onore da Ronsard e dalla Pleiade, regolarizzato da Malherbe, nel secolo classico della poesia francese esso diviene il verso francese per eccellenza e la sua struttura ritmica viene stabilita. Voce ʻAlessandrinoʼ in Treccani.it.
6 Intervista a Lepage, a cura di Anna Maria Monteverdi, Lione, novembre 2015.
7 Conferenza di Lina Bulzoni al Festival della mente, Sarzana (Sp), settembre 2015. Rimandiamo al suo libro La stanza della memoria, Torino, Einaudi, 1995; e a Giulio Camillo. L’idea del theatro con L’idea dell’eloquenza, il De Transmutatione e altri testi inediti, a cura di L. Bolzoni, Milano, Adelphi, 2015.
8 Intervista di J. L. Perrier a Lepage su Theatre-contemporain.net.
9 Prendiamo la definizione di ʻautofictionʼ da Isabelle Grell, studiosa di letteratura e specialista di autofiction, membro dell’équipe Sartre (ITEM-ENS, CNRS, Paris) e responsabile della collana Le livre – La vie presso la casa editrice Cécile Defaut; la Grelle co-dirige il sito http://autofiction.org, creato nel 2003 con l’obiettivo di approfondire lo studio di questa pratica letteraria: «L’autofiction è un racconto connotato da uno stile, socialmente riconoscibile e impegnato, interamente riconosciuto da un IO che è l’autore. Racconto, per evitare il termine del romanzo o di autobiografia, connotato da uno stile, perché è proprio lo stile, la sottile musica poetica che ogni autore percepisce quando scrive, che distingue l’autofiction dall’autobiografia classica, che si inscrive piuttosto nella cronaca di una vita. Socialmente riconoscibile e impegnata, perché in una autofiction non viene riportato il racconto di tutta la vita del protagonista, ma solo di una parte, che è in situazione, se si vuole riprendere l’espressione di Sartre» (Intervista a Isabelle Grell, a cura di G. A. Falco, Grecart.it, gennaio 2014).
10 Una bell’articolo che confronta la politica degli anni Sessanta con lo spettacolo di Lepage è questo: R. Sander, Rebel rebel. On Lepage, Québec and forgetting, Partisanmagazine.com, 25 Agosto 2015, <http://www.partisanmagazine.com/reviews/2015/8/19/rebel-rebel > [accessed december 2017]
11 V. Ahern, ʻRobert Lepage reflects on personal and collective memories of Quebec in 887ʼ, News1130, 15 luglio 2015.
12 R. Sander, Rebel rebel. On Lepage, Québec and forgetting.
13 A. G. Gargani, Il testo del tempo.