4.2. Vittorini e il teatro. Uno sguardo su Conversazione in Sicilia di Gianni Salvo

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I rapporti di Elio Vittorini con il teatro sono stati saltuari ma significativi: nel 1941 lo scrittore siciliano cura per Bompiani l’antologia del Teatro spagnolo, per la quale traduce la pièce più famosa e rappresentata di Federico Garcia Lorca, Nozze di sangue; nel ’42 in Americana presenta l’atto unico del drammaturgo Thornton Wilder Il lungo pranzo di Natale; nel ’43, per la collana Il teatro di William Shakespeare diretta da Mario Praz per Sansoni traduce il Tito Andronico; infine nel ’52 cura l’edizione Einaudi delle Commedie di Carlo Goldoni.

A questi episodi di confronto diretto con opere drammaturgiche, si aggiungono tre prove di scrittura teatrale: il breve dramma Due scene, apparso nel 1946 sulla rivista Il Mondo di Firenze; la riduzione per la radio e il teatro di Uomini e no, a cui lavora con Crovi e Vaime e che appare su Sipario nel 1965; e la sceneggiatura incompiuta Atto primo, che Vittorini abbozza a ridosso del romanzo resistenziale, e che è stata pubblicata postuma sulla rivista Il Ponte nel 1973. A proposito di Atto primo, va detto che esce accompagnato da una nota redazionale che ne suggerisce la datazione al 1965; tuttavia, la studiosa Raffaella Rodondi ha messo in evidenza come alcune parti del testo teatrale siano state inserite in modo pressoché identico in un capitolo di Uomini e no, pertanto è lecito spostarne la stesura all’altezza cronologica della prima edizione del romanzo (1945). Tale rimando intertestuale dimostra chiaramente quanto l’officina vittoriniana sia basata sulla commistione di codici e linguaggi.

L’interesse dello scrittore per l’universo del teatro si manifesta inoltre in una riflessione teorica sulle leggi interne al genere, spinta dalla volontà di rinnovare i canoni del palcoscenico borghese attraverso una poetica antirealistica, ad alto tasso simbolico, e distante da una scrittura mimetica e referenziale. Scrive Vittorini già nel ’33:

 

L’opera d’arte teatrale, sia melodramma verdiano o sia tragedia shakespeariana, o sia altro, suscita con le parole stesse (o il canto) dei suoi personaggi un’atmosfera speciale, un clima, un ambiente che è soltanto di quell’opera d’arte e di nessun’altra. Un’atmosfera, dunque, che non è la “storica” dell’epoca in cui i fatti del tale dramma hanno luogo, e che non è, tanto meno, la “realistica” che ogni opera d’arte, in quanto si riferisce alla realtà, può sottintendere (Vittorini 2016, p. 67).
 

Sia il melodramma, con la sua fusione di musiche e parole, sia la rappresentazione scenica, con le sue dilatate potenzialità espressive, per Vittorini rappresentano delle modalità comunicative che, di più rispetto alla forma romanzo, riescono ad estendersi oltre i confini del reale e i limiti dettati dalla verosimiglianza storica. Sostenuta da questo tipo di considerazioni (si veda anche la riflessione sul rapporto tra melodramma e letteratura nella prefazione a Il garofano rosso) la scrittura di Vittorini si modula nel segno della contaminazione di stili e di generi, accogliendo dentro il testo-romanzo dispositivi e strategie – il registro dialogico, lo stile illustrativo, la dimensione lirico-simbolica, la comunicazione non verbale – che pertengono al testo-teatro.

La volontà di superare il codice narrativo tradizionale ottocentesco, trasferendovi all’interno elementi di teatralità, è particolarmente evidente in Conversazione in Sicilia, opera-totem non soltanto del macrotesto vittoriniano ma dell’intero panorama culturale e ideologico del Novecento.

La teatralità dei contenuti e delle soluzioni formali adottate in Conversazione in Sicilia risente dell’influsso del modello di Shakespeare – non a caso la metafora teatrale/shakespeariana è un Leitmotiv della narrazione –, e dello straniamento tipico del teatro di Wilder, che Vittorini traduce nel principio del ‘due volte reale’, per cui «il viaggio memoriale diviene viaggio o spettacolo teatrale nell’interpretazione straniata del protagonista Silvestro» (Ferrara 2013, p. 407).

Va detto che lo stesso autore, in una lettera all’amico Silvio Guarnieri del 7 giugno 1938, scrive della sua opera, ancora in fase di elaborazione, «non è un romanzo, è una suite di dialoghi» (Vittorini 1985, p. 87); e qualche anno più tardi, in un’intervista comparsa su Sipario, dichiara «Non ho commedie né edite né inedite. Non ho che delle parti di romanzo scritte, in prima stesura, sotto forma teatrale. Molte pagine di Conversazione in Sicilia, del Sempione e anche delle Donne di Messina sono state scritte, in prima stesura, sotto forma teatrale» (Vittorini 2008, II, p. 639).

Non ci sono dubbi, pertanto, che Conversazione in Sicilia sia un dramma narrativo, nato in forma di teatro e poi sviluppato nei modi di una ‘conversazione’ polifonica, tutta giocata sulla trasversalità metaforica e sul recupero di suoni, gesti, mimiche e movimenti propri della scrittura drammatica. È proprio questa drammatizzazione dell’epos narrativo del testo che ne ha alimentato la fortuna scenica, la quale si inserisce nel contesto generale di un’attenzione crescente da parte del teatro verso l’opera dello scrittore siciliano.

Tra le diverse riscritture teatrali del romanzo, che spaziano dalla versione italo-francese Sicilia! (1998) dei registi Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, all’adattamento per pupi catanesi Astratti fuori siciliani (2012) realizzato dai fratelli Napoli, abbiamo rivolto uno sguardo ravvicinato allo spettacolo del regista Gianni Salvo, fondatore, nel 1966, del Piccolo Teatro di Catania. Non solo regista ma anche attore e organizzatore culturale, Salvo è una delle personalità artistiche più carismatiche della scena catanese, che in oltre cinquant’anni di attività spettacolare ha reso il Piccolo un riferimento per la città etnea, riattivando i classici della tradizione letteraria e drammaturgica nella misura dell’azzardo e della sperimentazione.

Il suo spettacolo Conversazione in Sicilia, basato sulla riduzione originale scritta dalla moglie Luisa Fiorello, debutta al Piccolo Teatro di Catania nel novembre del 1989, ed è riproposto in una nuova edizione nel marzo del 2001. Il remake della messinscena vede i cast attoriale e tecnico completamente rinnovati (protagonisti sono Vittorio Bonaccorso – Silvestro – e Anna Passanisi – Concezione –), e nell’analizzarla ci riferiamo a questa seconda versione di cui abbiamo recuperato, grazie alla disponibilità di Gianni Salvo e di Simone Raimondo, una preziosa registrazione video.

L’impianto drammaturgico offre una restituzione attenta della trama del romanzo, della graduale discesa di Silvestro «nel reame lontano della fiaba iniziatica» (Sanguineti 1966, p. X). Ma è il montaggio registico delle sequenze sceniche che amplifica l’escursione narrativa della pagina vittoriniana, di per sé ‘mossa’ da una duplice affabulazione: concreta e allusiva, particolare e assoluta, quotidiana e emblematica. La forza del viaggio al centro di Conversazione sta proprio nell’essere un itinerario che ‘vale doppio’, poiché al tempo stesso «rigorosamente e realisticamente geografico, verso la Sicilia del nido familiare, e nell’inconscio, verso le origini prenatali, verso la condizione naturale sepolta dalla cultura e dalla civiltà a cui Silvestro è approdato» (Bárberi Squarotti 1987, p. 150). Questa ‘divaricazione’ della dimensione del viaggio nello spettacolo è espressa dallo spazio scenico articolato in ambienti separati ma contigui: location che consentono di distillare il movimento di Silvestro in vari ‘quadri’ performativi, alcuni densi di attività dialogica, altri fatti di silenzi e pensieri.

Se bastano delle grandi ruote poste davanti a dei sedili di legno per ‘materializzare’, iconograficamente per sineddoche, i treni su cui viaggiano i primi interlocutori del protagonista (l’Uomo delle arance, Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo), è lo spazio ‘sprofondato’ di un grosso cratere al centro della scena che rappresenta la casa della madre Concezione: uno spazio-grembo viscerale e antirealistico, che diviene metafora di quel mondo archetipo che (re)esiste prima dell’offesa, protetto dentro le certezze dell’infanzia, della terra, delle madri [figg. 1-2]. Lo scarto fra gli ambienti e le scene che vi si svolgono è davvero minimo, ma vale a scandire le tappe del percorso di Silvestro e a contestualizzarne le figure-simbolo, qui trasformate in dramatis personae capaci di incarnare la tensione lirica e sonora contenuta in ogni stringa testuale.

L’operazione scenica e drammaturgica di Gianni Salvo rivela con grande nitore la ‘teatrabilità’ del romanzo di Vittorini, e costituisce un caso di sicuro interesse nella mappa spettacolare della sua fortuna scenica; nel contempo rappresenta una lettura critica e personale dell’opera, intrisa di suggestioni ed esperienze sedimentate nell’arco di una ‘vita teatrale’. Per queste ragioni abbiamo voluto rivolgere al regista catanese alcune domande sul suo lavoro, aprendo una conversazione d’intenso respiro, tra lucide memorie e nuove consapevolezze.

 

Laura Pernice: Il suo spettacolo è tratto da uno dei romanzi-chiave del Novecento; che cosa l’ha spinta a portare in scena Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini?

 

Gianni Salvo: C’è da dire che io appartengo ad un filone della cultura isolana un po’ anomalo, un po’ dissidente: non mi sono mai identificato con la cultura dell’isola. Vittorini per me ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un momento liberatorio, di rapporto con quello che è stato il senso di una cultura europea. Quest’opera per me ha rappresentato un punto fermo perché qui Vittorini guarda l’Italia, e la Sicilia in particolare, ma la guarda con gli occhi da europeo. C’è questo ritorno ancestrale, mitico, verso la Sicilia e verso la madre, e c’è il rapporto con il matriarcato: le donne possono partorire degli uomini, gli uomini possono partorire solo la guerra, questo è il senso che si può cogliere. L’opera di Vittorini ha diverse sedimentazioni, e tutte le volte che vi sono tornato per me sono stati momenti di inquietudine e turbamento positivo. Ma lo rifarei ogni giorno. C’è da dire, poi, che questo spettacolo è legato alla nascita dell’attuale sede del Piccolo Teatro, di cui è stato la prima messa in scena nel novembre dell’89.

 

L. P.: Parliamo dell’adattamento teatrale del romanzo realizzato da sua moglie Luisa Fiorello: è una forma di riscrittura-riduzione?

 

G. S.: Chiaramente c’è stata una riduzione del romanzo in alcune parti, che sono state asciugate sul piano delle descrizioni. Penso, tuttavia, che questa riscrittura abbia rispettato l’essenzialità del testo, e che sia stata anche vincente per quanto riguarda la ricezione. C’è poi un’idea che sta sopra a tutte e due le parti, letteraria e drammaturgica, ed è l’idea che viene dal lontano senso greco della parola ‘conversazione’. Conversazione significa dialogo: per conversare bisogna essere almeno in due. Da qui la necessità di far passare tutto attraverso l’uomo, e il Piccolo Teatro si è identificato sempre – in tutte le sue scelte drammaturgiche, da Kafka, a Arrabal, etc. – per questo tipo di ‘fuoco’ al centro del quale è stato posto l’uomo. Anche in questo caso, è attorno alla figura dell’uomo che sono nate tutte le speculazioni dialettiche sul testo e sulla messa in scena.

 

L. P.: Quali sono state le tappe fondamentali del suo lavoro regia?

 

G. S.: Vi sono stati tanti segni, percorsi, strade, ma la prima sollecitazione è stata la parola di Vittorini, il suo grande fascino. La mia ricerca, però, è stata legata anche a filoni che venivano dall’esterno: pensiamo agli ‘astratti furori’ del personaggio di Silvestro, lì non c’è solo Vittorini. Certo è presente come portatore di interessi e di poesia, ma dietro c’è anche Sartre con La nausea. Nel romanzo non c’è una parola che non possa subito uscire dallo Stretto…

Mentre facevo questo spettacolo pensavo anche a Lo straniero di Camus; e quando poi ho fatto Lo straniero mi tornava in mente la scrittura di Vittorini. Questo perché mi piace creare rapporti di contaminazione, restando fuori da quella che può essere una grammatica accademica. Comunque i primi motivi alla base del mio lavoro sono stati il respiro di natura europea che c’è nel personaggio di Silvestro, e la figura di Vittorini, che per me è stata una finestra che si affaccia sull’Europa e su una cultura extra-europea. Mi sono nutrito di tutti questi filoni esterni. Per esempio, sul piano delle gestualità e delle posture, ho pensato di poter ‘affidare’ questo spettacolo a Pina Bausch. Inoltre, tutta la storia è legata al viaggio inteso come segno utopico, e sulla scena vi era un trenino giocattolo che viaggiava su un binario, diventando così un modo di recuperare una realtà attraverso una miniatura. Un treno alla Chagall.

 

L. P.: A questo proposito, ci sembra che la tensione lirico-simbolica dell’opera di Vittorini emerga con decisione nello spettacolo. È stato ricercato quest’effetto di ‘concentrazione poetica’?

 

G. S.: Certamente io mi sono posto con questo desiderio e questa gioia, questo ‘gioco’ di restituire anche questa dimensione, ma può darsi che sia rimasta solo un’intenzione. Il bilancio finale va affidato a chi fruisce dello spettacolo. Sicuramente all’interno della rappresentazione c’era anche il senso di un teatro epico, di quello che per me è un altro dio: Brecht. Per cui, per esempio, il dialogo tra madre e figlio poteva anche diventare uno stralcio, un frammento, di Madre Courage di Brecht, pur parlando di melanzane, pomodori, aringhe… Segni che da un punto di vista antropologico sono tipicamente nostri, e che ho voluto inserire per il piacere di ‘giocare’ con i materiali.

 

L. P.: La scena, spoglia e essenziale, si presenta articolata in micro-ambienti, ciascuno volto a ospitare un momento della ‘conversazione siciliana’ di Silvestro. Ci sembra che alcuni di questi ambienti siano tendenzialmente realistici, come il vagone del treno, mentre altri decisamente metaforici, come la buca-cratere che rappresenta la casa di Concezione. Da cosa nasce questo spazio scenico, sia realistico che simbolico?

 

G. S.: Questa divisione di spazi nasce anche da un meccanismo di teatro epico. Nel teatro epico il siparietto porta una didascalia con cui viene presentata la scena successiva, perciò lo spettatore prende atto di questa ponendovisi con un rapporto critico. Io ho prelevato da quel teatro questo senso ‘aperto’, non certo utilizzando didascalie, ma giocando con i movimenti dello spazio quel tanto che bastava per potere fare capire. Nella versione dell’89 la scena era diversa: erano rappresentati quattro vagoni di treno e tutta l’azione, compreso l’incontro di Silvestro con la madre, si svolgeva al loro interno. In un vagone c’era un tavolo con delle sedie che restituiva un’immagine rustica molto precisa, ma nel contempo essenzializzata. Inoltre, la collocazione di questi oggetti in un vagone ferroviario dava un effetto surreale, per cui non venivano letti come elementi realistici [fig. 3]. Nei vagoni il viaggio era colto in un momento statico, da cui venivano fuori i personaggi; e allora io mi chiedevo: è uno spazio dentro cui posso raccontare l’odissea di Silvestro, o è Silvestro che immagina questo spazio? C’era questa ambiguità tra realtà e immaginazione, che è il confine impalpabile del romanzo, la sua poesia. Penso che in Sicilia pochissimi scrittori riescano ad esprimere questo confine: c’è Vincenzo Consolo, e poi c’è il poeta Giuseppe Bonaviri, il cui romanzo Il sarto della stradalunga fu scoperto e sostenuto proprio da Vittorini, e che io ho messo in scena per il Piccolo.

 

L. P.: Sul versante della recitazione gli attori come si sono confrontati con il linguaggio, essenziale e allusivo, della pagina vittoriniana?

 

G. S.: Non c’è stata una ricerca particolare sulla recitazione. Con questo non voglio auto-attribuirmi una neutralità; certamente c’erano degli elementi qua e là più marcati, ma partivano sempre dalla parola di Vittorini come prima tensione. È dalla parola che veniva fuori il linguaggio gestuale e dinamico (non a caso prima ho citato Pina Bausch). Soprattutto alcuni movimenti del sellaio Ezechiele e dell’arrotino Calogero erano legati agli oggetti. In una scena Ezechiele si presenta con un telo rosso, che prima diventa una pagina di sangue su cui fanno finta di scrivere, poi lentamente si trasforma nel mantello di Macbeth con cui si avvolge Silvestro. La recitazione è stata legata all’utilizzo di questi elementi in senso surreale e poetico [figg. 4-5].

 

L. P.: L’input del viaggio di Silvestro è una lettera del padre che evoca in lui un’immagine teatrale: il ricordo di quest’ultimo come attore amatoriale nel ruolo di Macbeth. Secondo lei qual è il significato di quest’evocazione teatrale/shakespeariana legata alla figura del padre, che ricorrerà più volte all’interno del romanzo?

 

G. S.: Sicuramente il riferimento a Shakespeare è importante perché rientra tra gli amori di Vittorini, insieme a Cervantes. A me pare che questo riferimento valga come segno di ricordo: il padre di Silvestro gli ha lasciato delle immagini, e la citazione della sua messa in scena shakespeariana sta come rievocazione di un passato, di una memoria. Stando al romanzo, però, secondo me il padre di Silvestro viene fuori di più come poeta, che scriveva versi per tutte le donne dei cantoni. In questo ricordo di Silvestro si avverte una sorta di tenerezza, mentre nelle recite di Macbeth c’era nel padre un tentativo di esibizione, di promuovere un interesse che coinvolga una micro-comunità.

 

L. P.: Come ha risposto il pubblico a questa versione teatrale di Conversazione in Sicilia?

 

G. S.: Qui apriamo un argomento un po’ complesso e amaro, per tanti motivi. Con la prima messa in scena feci una piccola tournée nelle città più importanti della Sicilia, ma allora Vittorini veniva letto sempre come ‘autore siciliano’ e non europeo, non c’era stata la scoperta che c’è stata in seguito. In generale, tutte le edizioni hanno ricevuto l’attenzione e l’interesse del pubblico, anche delle scuole. Penso, però, che questo spettacolo oggi non avrebbe più lo stesso consenso: l’atemporalità del romanzo di Vittorini non può essere estesa al pubblico di oggi. Nel tempo si è verificato un continuo degrado, il pubblico è stato minato dai nuovi mezzi di comunicazione – anzi, direi di ‘in-comunicazione’! –. La televisione e poi la terra del digitale hanno abbassato drasticamente la soglia dell’attenzione, e con essa l’interesse verso il teatro; quest’ultimo non può essere fatto come una lettura per conto proprio, ha bisogno di interlocutori, che oggi purtroppo mancano.

 

Bibliografia

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