3.4. Vittorini e Straub-Huillet: Conversazione in Sicilia e Sicilia!

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Quando scrive Conversazione in Sicilia Elio Vittorini ha trent’anni, è autore di un romanzo – Il garofano rosso – che è stato sequestrato dall’autorità fascista e vorrebbe partire per la Spagna accanto ai repubblicani. Di lì a poco, nel 1939, si trasferirà a Milano, città che non abbandonerà più; nel ’41 esce l’edizione Bompiani della Conversazione, quando si pubblica anche l’antologia Americana, con i testi tradotti dallo scrittore ma senza le sue note di commento. Conversazione in Sicilia precede dunque Uomini e no, dedicato ai giorni convulsi della guerra in pagine dettate dalla clandestinità e dall’urgenza di raccontare, e disegna piuttosto un affondo nella memoria, una sorta di nostos nel tempo dei ricordi che ne rilancia i motivi nel presente e di lì a poco nella lotta, e nella scrittura, della Resistenza.

 

1. Mappare la memoria

Il racconto del viaggio di Silvestro, il narratore, verso il paese natale, e dell’incontro con la madre dopo quindici anni di lontananza, assume movenze quasi dantesche nell’alternarsi continuo di sonno e veglia («mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia», Vittorini 1966, p. 11), così da disegnare sulla pagine una sorta di mappa del ricordo lungo una regressione memoriale in una «quarta dimensione» di una «Sicilia ammonticchiata di spiriti» (p. 92) che mescola lo sguardo del presente alle suggestioni deformate delle memorie d’infanzia. Così Vittorini:

 

«Ma guarda, sono da mia madre», pensai di nuovo, e lo trovavo improvviso, esserci, come improvviso ci si ritrova in un punto della memoria, e altrettanto favoloso, e credevo di essere entrato a viaggiare in una quarta dimensione. Pareva che non ci fosse stato nulla, o solo un sogno, un intermezzo d’animo, tra l’essere a Siracusa e l’essere là, e che l’essere là fosse effetto della mia decisione, d’un movimento della mia memoria, non del mio corpo (pp. 41-42).

 

Quella dello scrittore è una Sicilia mitica, viva nella geografia memoriale di un «intermezzo d’animo» e vicina alle suggestioni di un paesaggio – più favoloso che reale, in verità – che Giuseppe De Santis e Mario Alicata suggeriranno in quel giro di anni come sfondo e matrice di un nuovo cinema nazionale, la «Sicilia omerica e leggendaria» dei romanzi di Giovanni Verga (Alicata, De Santis 1941). È una terra intessuta di colori – il bianco delle chiazze di neve, il rosso dello scialle della madre e del cappello dei capistazione – e di odori – le carrube, l’aringa affumicata, l’afrore delle case antiche e povere – che disegnano un paesaggio di fiaba, come fiabesco è l’avvio del percorso, con una lettera di un padre lontano e la casualità di un manifesto in un’agenzia di viaggi. Vittorini tratteggia un itinerario nel tempo che si appunta su toponimi che da reali divengono paesi del mito – «solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela», scrive nella chiusa, e del resto «tutti i manoscritti vengono trovati in una bottiglia» (p. 186): Sortino, Palazzolo, Monte Lauro, Vizzini, Grammichele, e poi Serradifalco, Acquaviva, San Cataldo, Racalmuto sono luoghi concreti e insieme suoni che rimbalzano nella memoria e si mescolano con i ricordi dei fratelli e dei cibi dell’infanzia e con la voce della madre in una realtà che si fa «reale due volte» giacché acquista «l’in più di ora»:

 

Era questo, mia madre; il ricordo di quella che era stata quindici anni prima, venti anni prima quando ci aspettava al salto del treno merci, giovane e terribile, col legno in mano; il ricordo, e l’età di tutta la lontananza, l’in più d’ora, insomma due volte reale. […] E questo era ogni cosa, il ricordo e l’in più di ora, il sole, il freddo, il braciere di rame in mezzo alla cucina, e l’acquisito nella mia coscienza di quel punto del mondo dove mi trovavo; ogni cosa era questo, reale due volte; e forse era per questo che non mi era indifferente sentirmi là, viaggiare, per questo che era due volte vero […], tutto reale due volte, e in viaggio, quarta dimensione (p. 46).

 

Il romanzo è dunque una sorta di atlante della memoria che muove all’indietro lungo le vie dei ricordi in un affondo nel tempo e degli affetti, giacché lo sguardo dello scrittore sovrappone le immagini del passato alle figure del presente e come in uno stereoscopio le vede una dentro e sopra l’altra, accostando alla superficie dell’ora la profondità del tempo passato.

Il tessuto sonoro del romanzo muove nella stessa direzione. L’andamento anaforico delle frasi, che indugiano spesso in espressioni ripetute di rigo in rigo a segnare anche nella grafica l’andare cadenzato della pagina, trasforma la prosa in una poesia dove ricorrono rime e ritornelli, quasi una filastrocca da cantilenare simile a quelle che accompagnano i giochi infantili. La voce «alta e chiara» della madre (p. 43), quella stridente del grido dell’arrotino (p. 125) e la musica delle zampogne si mescolano ancora una volta con i suoni del passato, come il rumore dei carri merci che cozzavano l’uno contro l’altro (p. 61). Allora la conversazione in Sicilia narrata da Vittorini muove al ritmo di memoria e affetti e mette in dialogo presente e passato, giacché è questo il motivo sotterraneo del parlare nel romanzo: ogni parola è un rimando a ieri e un rilancio verso l’oggi.

 

2. Fotografie, superfici, profondità

Come mostrano i due documentari di Pedro Costa e Jean-Charles Fitoussi che ne hanno seguito riprese e montaggio, Sicilia! di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet è stato girato tra la primavera e l’estate del 1998 prima a Buti, in provincia di Pisa, e poi a Grammichele, vicino a Siracusa. Il film trova il suo carattere nel punto esclamativo del titolo: la conversazione delle pagine di Vittorini pare tradursi, almeno a prima vista, nell’immediatezza priva di profondità segnalata dalla punteggiatura. Il bianco e nero luminoso della fotografia sostituisce il colore; le figure e i volti dei non-attori si stagliano decisi nelle inquadrature dal taglio netto, ripresi ora a figura intera, ora in primo piano, mai in movimento. L’affondo nel tempo e nello spazio evocato dalla scrittura sembra dissolversi nelle superfici ampie dei muri, nelle pareti bianche delle stanze, nelle facciate degli edifici che non paiono avere prospettiva. Sono soprattutto le epidermidi dei volti a disporsi in un’immagine che sembra piatta: i visi della madre, di Silvestro, dell’arrotino, del Gran Lombardo sono superfici prive di psicologia, squadernate sullo schermo e come imposte nel loro disegno di linee e forme [figg. 1-4]. Il film parrebbe risolversi nella fotogenia dei volti e delle cose: nel loro disporsi armonico dentro il quadro, come accade nella ripresa prolungata e fissa del cartello ferroviario che segnala la stazione di Catania [fig. 5], con le linee orizzontali e verticali che marcano l’inquadratura – i binari, il rettangolo del segnale, i pali – e i piccoli movimenti degli uccellini a spezzare la geometria rigida; o quando Silvestro varca la soglia della casa della madre e la camera rimane all’esterno, a osservare il muro bianco tagliato solo dalle linee di porta e finestra [fig. 6]; o ancora il monologo della madre, in piano americano sulla sinistra dell’inquadratura, le spalle alla finestra, accanto a lei il muro candido e liscio [fig. 7].

Riprese da un punto di vista costante, come voleva Robert Bresson e cercato in estenuanti e rigorosi tentativi – lo mostra il documentario di Fitoussi −, le sequenze si snodano affiancate le une alle altre e separate da stacchi netti, la camera immobile se non nelle rare panoramiche, dove lo sguardo – ma chi stia osservando non è chiaro – scorre avanti e indietro a raccogliere il paesaggio; poi uno stacco getta di nuovo chi guarda in medias res, imponendo le immagini nella purezza netta e decisa delle loro forme ritagliate dalla luce impietosa del bianco e nero. A questo effetto di figuratività pittorica lavora anche la recitazione antinaturalistica; come consueto nei film di Huillet e Straub, il testo è citato e non recitato. «On n’a pas demandé aux interprètes de “jouer” leur texte de quelque façon, mais de le réciter selon une partition bien définie», ha scritto il regista (Straub 2012, p. 35), e le parole si dipanano come suoni quasi privi di significato, pura cantilena composta di suoni ora amalgamati, ora stridenti, in una dizione incurante della punteggiatura e dei difetti di pronuncia (le esse sibilanti di Silvestro) modulata da Straub con i gesti di un direttore d’orchestra – ancora nelle immagini di Fitoussi − che incanta chi ascolta come farebbe una nenia.

La colonna sonora impasta le parole ai rumori e ai suoni dentro il racconto; solo i titoli di testa e di coda accolgono una melodia popolare e il quartetto per archi di Beethoven op. 132, in una cornice che racchiude il film; se il quartetto torna in apertura e nel finale, alla composizione popolare fa eco, dopo i titoli di coda, una fotografia di Vittorini, ripreso di tre quarti, lo sguardo sfuggente [fig. 8].

Appare riemergere allora un effetto di profondità dietro all’apparente superficie piatta delle immagini. Il film s’inabissa dentro i confini segnati dai materiali che lo compongono: un volto, quello di Vittorini, che evoca la matrice letteraria, un canto a suggerire il luogo dove quel racconto muove, un commento ‘autoriale’ – Beethoven – scelto dai fautori dell’opera. E mi pare che la profondità memoriale del romanzo venga alla luce proprio in questo stagliarsi delle immagini che emergono, come a sbalzo, dalla loro cornice e si squadernano sullo schermo con il loro essere suono e parola depurati dalla performance e dal racconto. Le immagini esibiscono – sfrontatamente, si direbbe – la materia del cinema: la consistenza delle sonorità, il disegno dei volti e dei paesaggi. Quello che si vede dentro e dietro le immagini è il gesto di vedere; il movimento delle pupille sulle figure dello schermo, il reagire ai suoni e alle parole. La memoria e i ricordi si fanno sguardo e in questo senso affondano negli occhi di chi sta davanti al film e li accoglie.

 

Bibliografia

M. Alicata, G. De Santis, ‘Verità e poesia: Verga e il cinema italiano’, Cinema, VI, 127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217.

J.M. Straub, D. Huillet, Écrits, Paris, Independencia Éditions, 2012.

E. Vittorini, Conversazione in Sicilia [1941], introduzione di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1966.

 

Filmografia

Sicilia!, di J.M. Straub e D. Huillet, Italia/Francia, 1998.

Sicilia! Si gira, di J.C. Fitoussi, Francia, 2001.

Danièle Huillet Jean-Marie Straub cinéastes – où gît votre sourire enfoui?, di P. Costa, Francia/Portogallo, 2001.