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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Quando scrive Conversazione in Sicilia Elio Vittorini ha trent’anni, è autore di un romanzo – Il garofano rosso – che è stato sequestrato dall’autorità fascista e vorrebbe partire per la Spagna accanto ai repubblicani. Di lì a poco, nel 1939, si trasferirà a Milano, città che non abbandonerà più; nel ’41 esce l’edizione Bompiani della Conversazione, quando si pubblica anche l’antologia Americana, con i testi tradotti dallo scrittore ma senza le sue note di commento. Conversazione in Sicilia precede dunque Uomini e no, dedicato ai giorni convulsi della guerra in pagine dettate dalla clandestinità e dall’urgenza di raccontare, e disegna piuttosto un affondo nella memoria, una sorta di nostos nel tempo dei ricordi che ne rilancia i motivi nel presente e di lì a poco nella lotta, e nella scrittura, della Resistenza.

 

1. Mappare la memoria

Il racconto del viaggio di Silvestro, il narratore, verso il paese natale, e dell’incontro con la madre dopo quindici anni di lontananza, assume movenze quasi dantesche nell’alternarsi continuo di sonno e veglia («mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia», Vittorini 1966, p. 11), così da disegnare sulla pagine una sorta di mappa del ricordo lungo una regressione memoriale in una «quarta dimensione» di una «Sicilia ammonticchiata di spiriti» (p. 92) che mescola lo sguardo del presente alle suggestioni deformate delle memorie d’infanzia. Così Vittorini:

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Paolo Benvenuti (Pisa, 1946) ha una formazione pittorica e si avvicina al cinema nella seconda metà degli anni Sessanta attraverso la frequentazione di seminari dedicati al cinema d’avanguardia, all’underground e a Roberto Rossellini. Nei primi anni Settanta segue sui loro set prima Rossellini e poi Jean-Marie Straub, i quali, in modo diverso, segneranno la sua rigorosa e coerente concezione di cinema. Sempre in quel giro di anni Benvenuti comincia a girare i primi documentari, tra cui Del Monte pisano (1971) e Medea, un Maggio di Pietro Frediani (1972), che rimangono testimonianze importanti di un recupero della cultura contadina come depositaria di moduli recitativi e narrativi che influenzeranno molti dei suoi lavori a venire. Nel 1974 è la volta del lungometraggio Frammento di cronaca volgare, incentrato sull’assedio di Pisa da parte dei fiorentini dal 1494 al 1509. Benvenuti comincia qui il suo lavoro sulle fonti documentarie che costituiscono la base di partenza della gran parte dei suoi film, ma Frammento di cronaca volgare risente eccessivamente del magistero straubiano e Benvenuti attraverserà un momento di crisi che si risolverà qualche anno dopo con il notevole corto Il cartapestaio, nel quale il regista si emancipa dai suoi modelli e chiarifica la sua idea di cinema.

Dopo altre prove documentarie, nel 1988, alla Settimana della Critica della Mostra del cinema di Venezia, Benvenuti presenta il lungometraggio Il bacio di Giuda, film dall’andamento ieratico e solenne che trae spunto dal libro di Mario Brelich L’opera del tradimento, nel quale viene riconsiderata sotto altra luce la figura di Giuda Iscariota. Il film scatenerà enormi polemiche che ne renderanno difficile la distribuzione. Quattro anni dopo è la volta di Confortorio, che racconta di come i padri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato tentarono di convertire due ebrei condannati a morte per furto con scasso. Il film, caratterizzato da scelte cromatiche e luministiche che rendono alla perfezione il senso del tormento, vincerà il Premio della Giuria dei Giovani al Festival di Locarno e il Gran Premio della Giuria al Festival di Montpellier. Nel 1996 esce Tiburzi, elegia dedicata alla mitica figura dell’omonimo bandito maremmano, mentre nel 2000 Gostanza da Libbiano – messa in scena degli atti processuali relativi al processo per stregoneria di Monna Gostanza – vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Locarno. Nel 2003 porta in concorso alla Mostra di Venezia Segreti di Stato, che getta nuova luce sui fatti relativi alla strage di Portella della Ginestra e dà forma filmica a parte delle meticolose ricerche compiute da Danilo Dolci intorno a quella vicenda. Il film è una sorta di impegno preso da Benvenuti nei confronti di Dolci stesso, cui è dedicato. A Venezia Benvenuti tornerà nel 2008 con Puccini e la fanciulla, evento speciale fuori concorso. Il film, privo di dialoghi e tutto giocato su sperimentazioni contrappuntistiche di musica e rumori, ripresenta la tragica storia di Doria Manfredi, la servetta di casa Puccini morta in circostanze misteriose. Anni di ricerche hanno portato Benvenuti e i suoi collaboratori a compiere scoperte straordinarie che hanno cambiato anche la storia biografica di Giacomo Puccini. Attualmente, Paolo Benvenuti sta lavorando ad un progetto sul Caravaggio.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell'intervista. Si ringrazia Livia Giunti per l'ospitalità e l'assistenza.

Riprese audio e video: Livia Giunti; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; Animazioni: Gaetano Tribulato

D: Il tuo incontro con il cinema si perfeziona attraverso il rapporto con due registi tra loro diversi come Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub. Puoi dirci qual è stato il tuo percorso, cosa ti hanno dato l’uno e l’altro e perché hai sentito che erano quelli i modelli da seguire?

R: La mia storia cinematografica non comincia con Rossellini e Straub ma comincia, praticamente, da quando sono nato, perché in casa mia mio padre faceva il documentarista: il puzzo della pellicola io in casa l’ho sempre sentito. Non solo, la cosa interessante è che i fratelli Taviani, che sono di San Miniato e che sono venuti a studiare all’università a Pisa, amando il cinema hanno conosciuto mio padre e insieme a lui hanno realizzato alcuni documentari, per cui quando ero piccolo io ho visto mio padre con la cinepresa, ho visto i Taviani e mio padre che lavoravano ai loro documentari. Ma, forse, proprio perché il cinema era il linguaggio di mio padre, io crescendo non mi sono avvicinato al cinema con interesse, anzi, devo dire che al cinema andavo a vedere i film di cowboy e indiani, ma del Cineclub che mio padre organizzava sempre con i Taviani e dei film cosiddetti ‘intellettuali’ e ‘culturali’ io non ne volevo sapere assolutamente niente. Per me il cinema era uno svago e basta.

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Since the very beginning, method is a crucial matter in Paolo Benvenuti’s cinema. It represents both the premise and the goal of all his movies. This method is the outcome of a very peculiar film education, which is quite clearly detectable in every phase of Benvenuti’s career. By focusing on his method, or at least trying to shape up a convincing depiction of it, this paper aims to show the coherence of Benvenuti’s poetics and philosophy of film with respect both to his models and his personal beliefs about cinema. At the same time the paper shows his ability to make this method suitable for the different kinds of inquiry he has been dealing with in more than forty years. Benvenuti’s work is still tightly tied to the same matter: what is the nature of film and how to narrate and show it.

Uno dei maggiori elementi di fascino della storia cinematografica di Paolo Benvenuti sta nel fatto che la si può leggere molto chiaramente in due sensi, ottenendo sempre una precisa restituzione del suo composito e multidisciplinare approccio al film. Si può partire dall’origine, e dunque dalla scelta del cinema, dalla ricerca di un grado zero della scrittura cinematografica. Una ricerca che si coagulava tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta da una parte intorno a figure modello che diventeranno maestri e dall’altra intorno a un bisogno di capire cosa significava il cinema nell’esistenza di un gruppo di giovani pisani in cerca delle alchimie segrete che legano la vita civile a quella artistica e intellettuale.[1]

In altri termini, si può cercare di capire come il cinema arrivi a Benvenuti – che non fa mistero di essersene in sostanza disinteressato fino intorno ai vent’anni – attraverso esperienze di spettatore tra loro diverse, ma assimilate in maniera molto feconda. L’amato/odiato cinema underground e la scoperta di Dziga Vertov rappresentano i modelli decisivi per la messa a fuoco di cosa debba essere e non essere il cinema, ma si ritroveranno poco nella produzione benvenutiana, rimarranno cioè unicamente indicativi di una rottura – quella operata nei confronti della pittura – e di un nuovo e consapevole orientamento. Nello stesso giro di anni, invece, la scoperta di Rossellini, per il tramite soprattutto del più ‘sessantottino’ dei suoi film, Europa 51,[2] e poi quella di Straub, per il tramite del più coinvolgente dei suoi film, Cronaca di Anna Magdalena Bach, rimarranno come traccia indelebile al fondo dell’idea di cinema di Benvenuti, colpiranno così nel profondo da spingere il giovane pisano a seguire sul set prima Rossellini e poi Straub.

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