Uno dei maggiori elementi di fascino della storia cinematografica di Paolo Benvenuti sta nel fatto che la si può leggere molto chiaramente in due sensi, ottenendo sempre una precisa restituzione del suo composito e multidisciplinare approccio al film. Si può partire dall’origine, e dunque dalla scelta del cinema, dalla ricerca di un grado zero della scrittura cinematografica. Una ricerca che si coagulava tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta da una parte intorno a figure modello che diventeranno maestri e dall’altra intorno a un bisogno di capire cosa significava il cinema nell’esistenza di un gruppo di giovani pisani in cerca delle alchimie segrete che legano la vita civile a quella artistica e intellettuale.[1]
In altri termini, si può cercare di capire come il cinema arrivi a Benvenuti – che non fa mistero di essersene in sostanza disinteressato fino intorno ai vent’anni – attraverso esperienze di spettatore tra loro diverse, ma assimilate in maniera molto feconda. L’amato/odiato cinema underground e la scoperta di Dziga Vertov rappresentano i modelli decisivi per la messa a fuoco di cosa debba essere e non essere il cinema, ma si ritroveranno poco nella produzione benvenutiana, rimarranno cioè unicamente indicativi di una rottura – quella operata nei confronti della pittura – e di un nuovo e consapevole orientamento. Nello stesso giro di anni, invece, la scoperta di Rossellini, per il tramite soprattutto del più ‘sessantottino’ dei suoi film, Europa 51,[2] e poi quella di Straub, per il tramite del più coinvolgente dei suoi film, Cronaca di Anna Magdalena Bach, rimarranno come traccia indelebile al fondo dell’idea di cinema di Benvenuti, colpiranno così nel profondo da spingere il giovane pisano a seguire sul set prima Rossellini e poi Straub.
Rossellini ha insegnato a Benvenuti almeno tre cose fondamentali. La prima è che non si può essere schiavi dello stile, che non esiste un apriori autoriale cui sottostare, né una sacralità del linguaggio cinematografico da salvaguardare. La seconda, complementare in un certo senso alla prima, è che se ci si pone in una posizione ‘di servizio’ rispetto alla storia che si vuole raccontare e si mantiene come obiettivo quello di narrarla in modo chiaro, diretto e privo di rumore, si potrà pervenire ad una limpidezza di stile che va al di là delle strettoie teorico-analitiche che erano piuttosto tipiche degli anni in cui Benvenuti ascoltava Rossellini. Da qui procede la massima sul posizionamento della macchina da presa, rivelatrice perché ci riconduce al grado zero di cui dicevamo, all’atto fondatore del fare cinema. Dove va messa questa macchina da presa, chiede Benvenuti al maestro. E la folgorante risposta è: «un soggetto può essere ripreso da infiniti punti di vista, ma ce n’è uno solo giusto, ed è quello che dà il maggior numero di informazioni allo spettatore».[3] Benvenuti non dimenticherà più questa lezione, sulla quale innesterà una serie di considerazioni personali circa la giustezza del quadro cinematografico, che andranno dalla scelta ostinata del formato 4:3 alla volontà di pervenire a quell’unico e giusto punto di vista attraverso il minor numero di elementi possibile. Il suo stile sarà il risultato di queste operazioni, di volta in volta intrecciate alle necessità documentali e iconografiche richieste dal soggetto. La terza e ultima eredità rosselliniana la si ritrova nella considerazione del pubblico. Il progetto pedagogico rosselliniano, che è già maturo quando Benvenuti e Rossellini si incontrano, identifica nelle potenzialità narrative del cinema un metodo di ragionamento che rende il mezzo uno strumento adatto a provocare pensiero e a rinsaldare la relazione tra il nostro passato e il nostro presente, e il pubblico deve essere presupposto da questo progetto attraverso un racconto che – parafrasando ciò che scrisse Goffredo Fofi di Benvenuti – dice e non ricatta, indica e non trascina, «chiama in gioco la mente più che il cuore e le viscere».[4]
Straub, per parte sua, insegna a Benvenuti la maniacalità della ricerca, la perfezione degli oggetti, dei materiali e le forme di risonanza e contrappunto delle materie che compongono il film. La ‘faciloneria’ rosselliniana si sgretola di fronte al rigore straubiano, che pure dimostra una volta di più a Benvenuti come la scelta del punto di vista e il perseguimento dello stile siano parte di un percorso materialista e pragmatico lontano da cascami idealistici, ma anche da certe provocazioni sperimentali. Apprendimento tecnico e morale procedono di pari passo, direbbe ancora Fofi, l’inquadratura presuppone un’etica che si trasferisce immediatamente sul punto di vista rispetto alla storia narrata[5] – una morale dell’oggetto cinema che ci riporta agli strumenti del mestiere e che Adriano Aprà ha ricondotto alle prime prove documentarie sul mondo contadino toscano: «quella che può apparire un’esperienza d’avanguardia è in realtà una morale “contadina” del fare cinema che dovrebbe essere alla base di ogni film».[6]
Da questa prospettiva, se Frammento di cronaca volgare (1974) viene bollato come punto di non ritorno rispetto all’imitazione straubiana, va però ricordato che è quello il film in cui Benvenuti testa, all’incrocio tra i moduli del francese e le riletture storiche rosselliniane, il suo metodo di lavoro, che fa precedere al film puntigliose indagini storiche che in molti casi confluiscono in volumi nati insieme ai film o addirittura a partire dai film.[7]
Dicevo all’inizio che questo percorso di ricerca delle fonti e dei modelli di Benvenuti, così chiaro se seguito cronologicamente e al traino degli incontri cruciali della sua vita, ha senso anche se lo si compie a ritroso. Ciò non significa che Benvenuti non sia andato maturando una sua personale idea di cinema, né che non abbia saputo discutere e aggiornare gli insegnamenti ricevuti negli anni della sua formazione. Significa piuttosto che le domande che il regista ha cominciato a porsi giovanissimo e per le quali ha sentito la necessità di confrontarsi con chi riteneva capace non di fornire risposte, ma di rassicurarlo sulla giustezza delle domande, sono rimaste le stesse. Andando a ritroso, cioè analizzando Puccini e la fanciulla (2008), Segreti di Stato (2003), oppure studiando anche il progetto Caravaggio e ciò che stava dietro al corto documentario Il volto del Santo (2013), ritroviamo la ricerca dell’essenza del film, la scomposizione della sua materialità, l’ostinata visione dello scheletro, della griglia che filtra dalla trama dell’immagine, ma anche dalla trama della Storia. E ci rendiamo conto che, sia per un verso che per l’altro, c’è una forza di attrazione che ci porta ad una data decisiva e ad un film, un cortometraggio, che rimane il perno del sistema cinematografico benvenutiano: 1977, Il cartapestaio.
Si saldano in quel piccolo film le due fasi della carriera cinematografica di Benvenuti: da una parte la fase della ‘ricerca’, cominciata con gli incontri di cui abbiamo parlato e proseguita con prove di rilievo come i documentari Del Monte Pisano nel 1971 e Medea, un maggio di Pietro Frediani nel 1972, messa in discussione dall’esito di Frammento di cronaca volgare e poi sorprendentemente portata a compimento nel Cartapestaio. Dall’altra parte si ritrova la fase della ‘messa a punto’ del metodo, cominciata con l’esordio nel lungometraggio e coincidente con l’apparente abbandono del documentario – apparente perché non verrà mai meno la metodologia documentaria, nemmeno quando si tratterà di raccontare storie.[8] Una volta perfezionato questo metodo, nell’arco di cinque lungometraggi, Benvenuti sentirà il bisogno, come vedremo, di farsi ancora alcune domande sul significato del suo cinema, di tornare, per così dire, al Cartapestaio.
Nei lungometraggi Benvenuti sperimenta le possibilità che il cinema ha di ‘informare’ e in quella parola si ritrova da una parte il grande tema dell’ «informazionalità» rosselliniana come base morale del cinema,[9] e dall’altra la sua etimologia, cioè il dare forma, lo strutturare un evento che si ritrova sparso in forme diverse e che viene riconfigurato attraverso la forma del film, vale a dire in una sintesi fatta di immagini, parole e suoni. Il cinema di Benvenuti, da Il bacio di Giuda (1988) a Segreti di Stato (2003), ci mette di fronte a qualcosa che al cinema non si era mai visto, per lo meno in una forma così ostinatamente ricercata di film in film: la messa in scena del documento, o, se si preferisce, la drammatizzazione della fonte.
Segreti di Stato, che gli amanti del cinema di Benvenuti hanno considerato come un film in minore del regista pisano, una trasferta su temi e modelli iconografici non suoi, rappresenta invece il punto di arrivo del suo metodo cinematografico, la contaminazione del cinema dei maestri con una filosofia di ricerca e di racconto che gli era venuta in quel caso dal folgorante incontro con Danilo Dolci.[10]
In quel film convergono le questioni decisive del cinema di Benvenuti, che costituiscono l’ossatura di una pratica di ricerca che saprà poi farsi teoria e filosofia del cinema. Anzitutto l’indagine storica che, come dice lo stesso regista, «non riguarda soltanto i documenti storici o d’archivio che sono la base del lavoro, ma è anche una ricerca sullo sguardo e sul tempo»[11] e dunque non si svincola dalla ricerca iconografica, che nel caso di Segreti di Stato non guarda alla storia dell’arte, ma a quella del cinema, e che è parte della singolare pratica di re-enactment benvenutiana. A esse si lega l’interrogazione del documento – scritto, visivo, o orale che sia –, la sua messa in discussione e la sua revisione, che era già stata al cuore di Frammento di cronaca volgare. L’interrogazione del documento lascia emergere il problema dell’ufficialità del racconto e Benvenuti combatte contro le storie ufficiali, intende, per sua stessa ammissione, il revisionismo storico in maniera positiva, cerca l’incrinatura in un sistema di racconto storico sfidandolo sul territorio comune della narrazione. Vero, falso e finto, per richiamare le categorie di Ginzburg,[12] sono appunto il centro del lavoro di Benvenuti e Segreti di Stato costituisce una sorta di punto di non ritorno, il massimo del contributo storico-politico,[13] la sublimazione del film d’inchiesta, la teorizzazione di una maieutica filmica, l’incontro fugace con la grande distribuzione. La famosa e indimenticabile scena delle carte pazientemente composte e poi sparigliate dal vento – idea il cui merito va riconosciuto alla prima collaboratrice di Benvenuti, la moglie Paola Baroni –, è come la metafora non solo di tutto il film, ma di un percorso di decenni. Eppure, ciò che mi pare davvero significativo, è che Segreti di Stato rappresenti anche un momento di congedo e apra una terza fase, ancora breve, in cui Benvenuti piega il suo metodo ad un’ambiziosa ricerca dei modi del farsi delle opere d’arte.
C’è una frase sibillina che si trova in un’intervista rilasciata da Benvenuti subito dopo la fine della lavorazione di Segreti di Stato e prima ancora che il film venisse presentato alla Mostra di Venezia del 2003:
Adesso vorrei fare un film neutro, però; un film che mi ridia un po’ di chiarezza e mi faccia ripartire da zero. Voglio fare un film sulla pittura. Sto lavorando da un po’ di tempo sul quadro di Caravaggio Il Seppellimento di S. Lucia di Siracusa. Vorrei fare un film sulla realizzazione di quel quadro.[14]
Ora, come si legge, un «film neutro» non è tanto un film non connotato o non connotabile, un film che rifiuta prese di posizione, un film che non intende prendere di petto i grandi temi religiosi o quelli inerenti le relazioni tra potere politico e criminalità – sia essa quella romantica di Tiburzi o quella organizzata di Segreti di Stato –, ma è piuttosto un film che intende resettare un metodo. Benvenuti, che poco prima di dichiarare la sua volontà di fare un film neutro, aveva detto che il suo metodo non era mai cambiato e rimaneva sostanzialmente quello di creare film come «sistemi attraverso i quali lo spettatore potesse pensare», sente in quel momento la necessità di fare di nuovo un passo indietro. Giocando appena con le parole, potremmo dire che Benvenuti vuol dare ancor più respiro al suo modo processuale di fare e pensare il cinema e tornare a zero significa allora processare il farsi di un’opera, capire la materialità di quel procedimento, la tecnica, la piccineria addirittura e infine, naturalmente, la miracolosa grandezza. Dopo Segreti di Stato, Benvenuti sente il bisogno di avviare una nuova fase, fatta di film che si interroghino sul concetto di creazione, film che documentino, se è possibile, come si crea un’opera d’arte. Il metodo è sempre quello: ricerca sul campo, negli archivi, collaborazione con studiosi, ora perfino indagini empiriche e infine un film, che ci dirà in realtà mille altre cose, ma che al suo centro manterrà quell’unica domanda: di cosa è fatta un’opera d’arte?
Il modello, d’improvviso, torna a essere Il cartapestaio, che oggi possiamo a buon diritto ritenere il primo «film neutro» di Paolo Benvenuti. In quel 1977, il regista pisano veniva da due ottimi documentari di cui uno – Del Monte Pisano – si era portato in dote uno strascico di polemiche da parte del PCI di Pisa, mettendo per la prima volta Benvenuti di fronte all’irriducibilità ideologica del suo modo di fare film, mentre il secondo – Medea – era apparso così impressionante che non ritengo fuori luogo la boutade benvenutiana secondo la quale il film ebbe un effetto concreto sulle successive produzioni di Straub.[15] Poi c’era stato Frammento di cronaca di volgare a complicare tutto e dunque, per riavere un po’ di chiarezza e ripartire da zero, arrivò Il cartapestaio. Questo cortometraggio racconta l’«arte sacra del Cavalier Pietro Indino», maestro leccese della cartapesta. La bottega di Indino è un antro buio, nero, con due tavole d’assi e una sedia impagliata; poi secchi, carta, paglia e una piccola stufa arrugginita con accanto alcuni attrezzi. Lentamente le mani dure del vecchio artigiano legano un po’ di paglia e la issano sopra un palo di legno posato su un tavolo, poi, su un altro tavolo, lavorano carta e colla, che vengono appiccicate alla paglia informe. Da lì si procede alla meticolosa formazione di una piccola mano, di una testa. Il palo con sopra la paglia prende forma d’uomo. Altri ritocchi, pressioni e tagli: il volto è quello di Cristo. Poi le aste roventi incidono la carne della statua, il fumo invade la piccola bottega e il costato e il petto vengono feriti in profondità dal cartapestaio che cesella le varie parti del corpo e della veste. In ultimo la statua, ora magicamente liscia, viene dipinta: una panoramica verticale ci mostra nella sua interezza l’opera, mentre Indino è sparito e dei suoi secchi, dei suoi ferri, della sua paglia non c’è più traccia.
Quella che potremmo definire la sparizione delle materie era già presente anche negli altri film, in cui era il documento a lasciare spazio alla sua drammatizzazione, ma qui il discorso è più letterale: le materie spariscono davvero perché altro non sono che i residui di un racconto che veicolerà un altro significato – la statua di cartapesta. La materia di cui è fatta la statua non è paragonabile ai documenti che informano la narrazione che, seppur ridiscussi, resistono come origine e polo dialettico; quella materia è il non detto, il mai detto, l’elemento neutro, appunto, che può essere plasmato solo dall’artista/artigiano. Un «film neutro» potrebbe essere allora un film sulle materie più che sui documenti, anche se per Benvenuti è difficile rinunciare allo studio e alle ricerche d’archivio e così si avrà un cinema sulla materia che passa per il documento, ma non più un cinema che ricostruisca e metta in scena il documento scritto.
Il film che doveva seguire Segreti di Stato e inaugurare la nuova stagione di Benvenuti, permettendo al regista di ritrovare una nuova origine, era quello sul Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio. Un progetto ambizioso e affascinante, per il quale, mentre scrivo, Benvenuti sta ancora cercando di mettere in piedi la produzione, nonostante il film sia più che scritto – ne è venuto fuori un «romanzo storico in forma di sceneggiatura» come si legge sul fascicolo del progetto – e tutto nella mente e negli occhi di Benvenuti. L’idea è quella di chiedersi come poteva un uomo scapestrato, disordinato e di dubbia moralità come Caravaggio radunare forze ed energie per creare i suoi capolavori. Il film deve essere una specie di Cartapestaio in cui i colori, la terra, la luce, le lenti, i corpi degli uomini concorrono a formare un capolavoro fatto di linee perfette, di incroci simbolici e di segreti di bottega. Una messa in scena cinematografica ante litteram, come scrive il regista pisano nella prima pagina di presentazione del suo progetto:
Sappiamo con quanto rigore filologico il Merisi affrontasse ogni episodio che doveva dipingere: trovata la chiave espressiva della vicenda, egli l’ambientava scandalosamente nel «suo» presente, cercando per la strada gli attori che avrebbero dovuto interpretarla: uomini, donne o ragazzi che, a suo giudizio, aderivano ai ruoli dettati dalla storia. Poi li dirigeva, facendo recitare loro l’azione drammatica prevista. Azione che, solitamente, egli collocava in un luogo buio, privo di confini, dove pochi elementi suggerivano l’ambiente della rappresentazione: una lastra tombale: un sepolcro, un ramo d’albero: un bosco, un tavolino: un interno. Poi, con uno specchio, orientava la luce del sole su quei corpi facendoli affiorare plasticamente dalle tenebre. Con quel lampo improvviso, bloccava l’attimo assoluto del dramma, consegnando i suoi umili attori all’immortalità. E il cinema non compie forse lo stesso miracolo?[16]
Il progetto però si blocca. Caravaggio, come era già accaduto a Gostanza, deve aspettare e nel frattempo irrompe Puccini: nuova ricerca, nuove scoperte, e finalmente il «film neutro» annunciato alla fine della lavorazione di Segreti di Stato.
Non mi soffermerò qui sulle straordinarie scoperte di Benvenuti, fatte mentre preparava il film – un figlio segreto del Maestro, nuovi eredi che non si sapevano tali, una valigia carica di indizi e chiusa per decenni in una soffitta con al suo interno addirittura un film del 1915 su Puccini a Torre del Lago girato probabilmente da Giovacchino Forzano.[17]
Quel che ci interessa è vedere cosa succede di rilevante rispetto al discorso sul metodo che abbiamo delineato in queste pagine. Tutto nasce da un’indagine storica per un cortometraggio documentario nato in seno alla scuola di cinema “Intolerance” che Benvenuti dirigeva al tempo a Viareggio. I ragazzi indagano sulla vicenda di Doria Manfredi, servetta di casa Puccini, morta suicida coperta di vergogna, ritenuta amante del Maestro e invece semplice messaggera d’amore tra il compositore e la di lei cugina Giulia Manfredi. Dietro il giallo pucciniano si nascondeva la dura dialettica padroni/servi, il minuto regno di Torre del Lago su cui Puccini dominava come cacciatore di folaghe e fanciulle, un mondo piccolo cui uno dei più grandi musicisti del globo non sapeva rinunciare. Perché, si chiede Benvenuti, Puccini continua a comporre a Torre del Lago e non a Milano, non a New York?
Arrivati a questa domanda si apre un bivio, che schiude al regista la possibilità di mettere a nuova prova la sua idea di cinema. Una prima strada procede da un’intuizione del giornalista Aldo Valleroni, secondo cui Puccini per poter scrivere delle grandi eroine delle sue opere doveva ogni volta innamorarsi di una donna che somigliasse a quell’eroina.[18] All’appello di queste donne reali divenute immortali eroine pucciniane manca la Minnie della Fanciulla del West, nata proprio nel periodo del caso Doria. Che possa essere l’esile, scialba e timida servetta il modello per la donna-cowboy che verrà? Impossibile. E allora ecco spuntare la figura di Giulia, cugina di Doria, che lavora nella «Terrazza di Emilio» proprio sul lago, serve da bere a paesani e cacciatori come in un saloon, sa sparare e va a caccia. Questa è la strada della mystery story pucciniana, una strada lastricata di lettere e ricerche di archivio, la strada classicamente benvenutiana, in cui si riscrive la storia ufficiale e si propongono nuove domande allo spettatore, guidandolo all’interno di un labirinto di superfici riflettenti – gli specchi, le grandi finestre di villa Orlando, il lago – che ci restituiscono un Puccini piccolo borghese privo di scrupoli. Come dice il primo cartello didascalico del film, Puccini e la fanciulla si ambienta nel 1909 a Torre del Lago, mentre il Maestro sta componendo La fanciulla del West e la sua cameriera Doria Manfredi si suicida: «Il film racconta i fatti che ne determinarono la morte». In realtà, il film racconta molto di più e siamo alla seconda strada del bivio.
Questa strada procede dalla domanda riguardo l’ostinata permanenza di Puccini a Torre del Lago e investe direttamente il suo modo di scrivere. Puccini, secondo quanto Benvenuti ci dice, necessita dei valori visivi e sonori del lago di Massaciuccoli, di un contatto col popolare che gli è assicurato da quell’habitat che si conforma attorno a lui. Scrive Benvenuti, nelle pagine di presentazione che precedono la sceneggiatura del film:
In particolare, lo studio di alcuni brani della partitura della Fanciulla del West consentirà, in una sorta di percorso a ritroso, di risalire alle fonti primarie della creazione dell’Opera attraverso le suggestioni offerte al Maestro dagli elementi naturali, come i suoni e le mille voci del lago di Massaciuccoli. E di individuare, poi, quei passaggi musicali le cui fonti siano state ricavate da musica popolare, da opere di altri autori e da sonorità e ritmi tra i più vari, raccolti dal Maestro nei suoi viaggi. In questo modo, nel film rivivrà, almeno in parte, la complessità del percorso musicale con cui è stata realizzata La fanciulla del West, Opera che ha dato inizio alla storia della musica moderna. […] Nella sua essenza, questo progetto mira a costruire un dialogo continuo e aperto tra il divenire dell’espressione cinematografica e quella musicale, fino ad arrivare al fondersi dei due linguaggi.[19]
Qui comincia il vero discorso del film, il cui tema è la creazione della Fanciulla del West, per cui quel Puccini e la fanciulla – o La fanciulla del lago, com’era in origine il titolo del film – allude a Minnie e non a Doria, in qualche misura fa giustizia a Doria ma ci restituisce Minnie, che ha la sostanza dell’arte, pur essendo fatta del sangue innocente di Doria, dei canti popolari delle donne di Torre del Lago, della boria padronale del suo autore. Puccini nel film è portatore di morte – e il titolo, stavolta, reca in sé l’eco della Morte e la fanciulla – e piega materie e umori umani al volere della sua arte. Come ha scritto Fantuzzi, Puccini «ha bisogno di far morire tra spasimi atroci le eroine delle sue opere per ottenere dal pubblico un successo al quale non potrebbe rinunciare nemmeno se volesse».[20]
Alla fine a noi rimane La fanciulla del West e Doria e Giulia sono materie residue, come i ferri a la paglia del Cavalier Indino. E come in quel breve film, Puccini e la fanciulla è privo di dialoghi, nessun personaggio è portatore di testo stavolta, non ci sono documenti da far parlare – se non poche lettere a scandire la storia –, c’è piuttosto un paesaggio sonoro da ricostruire, come mirabilmente ha fatto il fonico Mirco Mencacci. Dietro il tentativo di giocare tutto, di rischiare tutto sulla potenza significante dell’esperienza audiovisiva pura, del ritmo che pervade anche i gesti e le occhiate degli attori, c’è la volontà di tornare a chiedersi come parla il cinema, che è come chiedersi di quali sostanze è fatta un’opera d’arte.
Il discorso sul metodo di Benvenuti riparte da qua, si apre forse una terza fase nel suo cinema, come potrà confermare il progetto Caravaggio. Che ci auguriamo di vedere presto.
1 Benvenuti ha ripercorso in diverse interviste (ed anche in quella che accompagna questo focus di «Arabeschi») gli anni della sua formazione. Rimane comunque un riferimento importante P. Benvenuti, Trent’anni di cinema, in G. Fofi, Paolo Benvenuti, Alessandria, Falsopiano, 2003, pp. 62-76.
2 Si veda quel che dice Benvenuti al riguardo nell’intervista ad «Arabeschi» contenuta in questo numero.
3 Cfr. G. Menon (a cura di), Dibattito su Rossellini, nuova edizione a cura di A. Aprà, Reggio Emilia, Diabasis, 2009, p. 130.
4 G. Fofi, Paolo Benvenuti, cit., p. 8.
5 Cfr. G. Roncaglia, Inquadratura, etica e storia. Il cinema di Paolo Benvenuti, Palermo, Edizioni della Battaglia, 2003.
6 A. Aprà, Prefazione, in V. Fantuzzi, Paolo Benvenuti, Corazzano (PI), Titivillus, 2004, p. 6.
7 In questo primo caso, Benvenuti ha lavorato con lo storico Michele Luzzati, che aveva nel frattempo pubblicato il volume Una guerra di popolo: lettere provate del tempo dell’assedio di Pisa (1494-1509), Pisa, Pacini, 1973. Poi, si vedano: P. Benvenuti, Tiburzi. Dalla sceneggiatura al film, Santa Croce sull’Arno (PI), Il Grandevetro/JacaBook, 1999; L. Caretti (a cura di), Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, Pisa, ETS, 2000; P. Baroni, P. Benvenuti, Segreti di Stato. Dai documenti al film, a cura di N. Tranfaglia, Roma, Fandango, 2003; infine, il più sperimentale P. Benvenuti, E. Cei, Puccini e la fanciulla. Anatomia di un film, Lucca, Living, 2012.
8 Com’è stato notato da Tullio Masoni, la ragione di stile che Benvenuti insegue presuppone «da un lato il documentario inteso non come genere, ma come metodo di racconto e dall’altro la reinvenzione e, in ultima istanza, il piacere estetico». Cfr. T. Masoni, Paolo Benvenuti: il fascino della verità, «Bianco & Nero», 4, 2000, p. 18.
9 Si veda al riguardo A. Aprà, In viaggio con Rossellini, Alessandria, Falsopiano, 2006, p. 39 e quanto scrive Benvenuti nel suo già citato intervento al Dibattito su Rossellini.
10 Sull’incontro con Dolci si veda P. Benvenuti, Le ragioni di un film, in P. Baroni, P. Benvenuti, Segreti di Stato. Dai documenti al film, cit., pp. 93-95.
11 R. Chiesi, Il tempo dello sguardo. Intervista a Paolo Benvenuti, «Cineclub», 38, 1998, p. 43.
12 Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2006.
13 Si legga la Prefazione di Nicola Tranfaglia in P. Baroni, P. Benvenuti, Segreti di Stato. Dai documenti al film, cit., pp. VII-XII.
14 In G. Fofi, Paolo Benvenuti, cit., p. 47.
15 Su questo si legga l’intervista rilasciata ad «Arabeschi».
16 P. Benvenuti, Ipotesi Caravaggio, dattiloscritto non pubblicato.
17 Su questo film mi permetto di rimandare al mio breve A Day with Puccini: Making Movies in Torre del Lago in 1915, in R.J. Moretti, Puccini Experience, Bologna, Ut Orpheus, 2009.
18 A. Valleroni, Puccini minimo, Ivrea, Priuli e Verlucca, 1983.
19 P. Benvenuti, P. Baroni, La fanciulla del lago (melodramma in due atti, un prologo e un epilogo), Arsenali Medicei/Intolerance, dattiloscritto, p. 4.
20 V. Fantuzzi, Metafisica di un film. Puccini e la fanciulla di Paolo Benvenuti, «Cinemasessanta», 297, 2008, p. 6.