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C’è l’Africa di Pasolini. C’è il Friuli di Pasolini. C’è persino la Tuscia di Pasolini che a Chia, provincia di Viterbo, comprò una torre medievale dove visse gli ultimi anni della sua vita o almeno i fine settimana. Un luogo misterioso e isolato. Poco raccontato dalla mitologia pasoliniana. C’è anzitutto la Roma di Pasolini. Ma poiché si tratta di una città che si contendo in molti, sarebbe più corretto dire che c’è il Pigneto di Pasolini. Quella tra Pasolini e il Pigneto è un’associazione più forte e radicale del legame che unisce Fellini alla Fontana di Trevi o via Veneto. Un legame al riparo dalle contaminazioni turistiche, o in genere così si pensa. Se però cerchiamo un alloggio da queste parti su «airbnb» subito ci spiegano che «Pigneto is known as one of the most fashionable and artistic Rome neighborhoods, famous as the favourite set of Pasolini and Neo Realism cinema and a trendy area mixed with the flavor of the old and authentic Rome». Nel 1961, durante le riprese di Accattone, il Pigneto non era molto trendy. Per realizzare il film furono scelti vari luoghi della città. Quartieri popolari come il Testaccio, Centocelle, la borgata Gordiani. Ma di tutta la mappa urbana di Accattone – che include anche luoghi celebri come il ponte di Castel Sant’Angelo – il Pigneto rappresenta al meglio la sintesi tra la Roma letteraria di Ragazzi di vita o Una vita violenta e quella cinematografica di Accattone. Stretto la via Prenestina e la Casilina, il quartiere era all’epoca un borgo di case popolari con strade sterrate e baracche. Per il cinema non si trattava di un quartiere qualsiasi. Qui Rossellini ha girato molte scene di Roma città aperta. Qui è ambientata la celebre sequenza della morte di Anna Magnani, icona del neorealismo e del nostro immaginario resistenziale e repubblicano. Alla metà degli anni Cinquanta, il film di Rossellini circola di nuovo nelle sale di parrocchia e nelle arene di quartiere allestite d’estate nella città. Pasolini rievoca «l’epico paesaggio neorealista» nella celebre poesia dedicata a una visione di Roma città aperta che comparirà poi nella raccolta La religione del mio tempo, uscita proprio nel 1961:

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Roma, 2 febbraio 2015

Riprese audio-video e montaggio: Simona Sortino; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato

 

La poderosa impresa del Lessico del cinema italiano, voluta e curata da Roberto De Gaetano per Mimesis e di cui è ora in libreria il primo dei tre volumi, ci porta anzitutto in dote un sentimento nuovo del nostro cinema. Un sentimento ambiguo, che mentre scopre l’effettiva inazione del pragmatismo italiano, ne rivela però la forza vitale che prende corpo nella rappresentazione e, in modo particolare, nella rappresentazione cinematografica.

Nella sua introduzione, che fissa con chiarezza il metodo e la libertà dell’opera, De Gaetano osserva infatti come questa forza il cinema abbia saputo esprimerla con più energia di qualsiasi altra arte nel corso del ventesimo secolo, senza mai darsi il progetto di formare un sentimento identitario, ma preferendo piuttosto restare «vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia». Si può immaginare quanto complesso sia misurare queste «forme di rappresentazione e di vita» (come si legge nel sottotitolo del libro), e nello stesso tempo quanto sia avvincente intendere il cinema italiano come campo di forze nel quale precipita una tradizione culturale che proprio su quel campo ritrova la sua italianità, in un processo di distanziamento e frantumazione dell’idea nazionale che la rivela, in perfetta coerenza, così irriducibilmente italiana.

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Paolo Benvenuti (Pisa, 1946) ha una formazione pittorica e si avvicina al cinema nella seconda metà degli anni Sessanta attraverso la frequentazione di seminari dedicati al cinema d’avanguardia, all’underground e a Roberto Rossellini. Nei primi anni Settanta segue sui loro set prima Rossellini e poi Jean-Marie Straub, i quali, in modo diverso, segneranno la sua rigorosa e coerente concezione di cinema. Sempre in quel giro di anni Benvenuti comincia a girare i primi documentari, tra cui Del Monte pisano (1971) e Medea, un Maggio di Pietro Frediani (1972), che rimangono testimonianze importanti di un recupero della cultura contadina come depositaria di moduli recitativi e narrativi che influenzeranno molti dei suoi lavori a venire. Nel 1974 è la volta del lungometraggio Frammento di cronaca volgare, incentrato sull’assedio di Pisa da parte dei fiorentini dal 1494 al 1509. Benvenuti comincia qui il suo lavoro sulle fonti documentarie che costituiscono la base di partenza della gran parte dei suoi film, ma Frammento di cronaca volgare risente eccessivamente del magistero straubiano e Benvenuti attraverserà un momento di crisi che si risolverà qualche anno dopo con il notevole corto Il cartapestaio, nel quale il regista si emancipa dai suoi modelli e chiarifica la sua idea di cinema.

Dopo altre prove documentarie, nel 1988, alla Settimana della Critica della Mostra del cinema di Venezia, Benvenuti presenta il lungometraggio Il bacio di Giuda, film dall’andamento ieratico e solenne che trae spunto dal libro di Mario Brelich L’opera del tradimento, nel quale viene riconsiderata sotto altra luce la figura di Giuda Iscariota. Il film scatenerà enormi polemiche che ne renderanno difficile la distribuzione. Quattro anni dopo è la volta di Confortorio, che racconta di come i padri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato tentarono di convertire due ebrei condannati a morte per furto con scasso. Il film, caratterizzato da scelte cromatiche e luministiche che rendono alla perfezione il senso del tormento, vincerà il Premio della Giuria dei Giovani al Festival di Locarno e il Gran Premio della Giuria al Festival di Montpellier. Nel 1996 esce Tiburzi, elegia dedicata alla mitica figura dell’omonimo bandito maremmano, mentre nel 2000 Gostanza da Libbiano – messa in scena degli atti processuali relativi al processo per stregoneria di Monna Gostanza – vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Locarno. Nel 2003 porta in concorso alla Mostra di Venezia Segreti di Stato, che getta nuova luce sui fatti relativi alla strage di Portella della Ginestra e dà forma filmica a parte delle meticolose ricerche compiute da Danilo Dolci intorno a quella vicenda. Il film è una sorta di impegno preso da Benvenuti nei confronti di Dolci stesso, cui è dedicato. A Venezia Benvenuti tornerà nel 2008 con Puccini e la fanciulla, evento speciale fuori concorso. Il film, privo di dialoghi e tutto giocato su sperimentazioni contrappuntistiche di musica e rumori, ripresenta la tragica storia di Doria Manfredi, la servetta di casa Puccini morta in circostanze misteriose. Anni di ricerche hanno portato Benvenuti e i suoi collaboratori a compiere scoperte straordinarie che hanno cambiato anche la storia biografica di Giacomo Puccini. Attualmente, Paolo Benvenuti sta lavorando ad un progetto sul Caravaggio.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell'intervista. Si ringrazia Livia Giunti per l'ospitalità e l'assistenza.

Riprese audio e video: Livia Giunti; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; Animazioni: Gaetano Tribulato

D: Il tuo incontro con il cinema si perfeziona attraverso il rapporto con due registi tra loro diversi come Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub. Puoi dirci qual è stato il tuo percorso, cosa ti hanno dato l’uno e l’altro e perché hai sentito che erano quelli i modelli da seguire?

R: La mia storia cinematografica non comincia con Rossellini e Straub ma comincia, praticamente, da quando sono nato, perché in casa mia mio padre faceva il documentarista: il puzzo della pellicola io in casa l’ho sempre sentito. Non solo, la cosa interessante è che i fratelli Taviani, che sono di San Miniato e che sono venuti a studiare all’università a Pisa, amando il cinema hanno conosciuto mio padre e insieme a lui hanno realizzato alcuni documentari, per cui quando ero piccolo io ho visto mio padre con la cinepresa, ho visto i Taviani e mio padre che lavoravano ai loro documentari. Ma, forse, proprio perché il cinema era il linguaggio di mio padre, io crescendo non mi sono avvicinato al cinema con interesse, anzi, devo dire che al cinema andavo a vedere i film di cowboy e indiani, ma del Cineclub che mio padre organizzava sempre con i Taviani e dei film cosiddetti ‘intellettuali’ e ‘culturali’ io non ne volevo sapere assolutamente niente. Per me il cinema era uno svago e basta.

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The long relationship between Paolo Benvenuti and Virgilio Fantuzzi is the story of a fascinating confrontation between a filmmaker and a film critic who comes from widely different cultures and hold apparently opposite ideas on religion. Nonetheless, even if from different sides, they have been able to meet on the common ground of narrative ethics and intellectual rigor through which they basically ask the same question to a movie. This paper reconstructs the phases of such a relationship and analyzes Benvenuti’s feature films as the possible point of convergence between these different sensibilities

I miei rapporti personali con Paolo Benvenuti hanno inizio con una lite furibonda. Avevo visto e rivisto Il bacio di Giuda, film che esercitava su di me uno strano fascino, ma che si presentava come un enigma del quale non riuscivo a trovare la soluzione. Lui a Pisa, io a Roma, ci incontravamo di tanto in tanto in quel periodo, sempre per riprendere il solito, interminabile battibecco. Io pensavo, e mi sbagliavo, che la soluzione dell’enigma avrebbe dovuto fornirmela lui. Ma le nostre discussioni, che culminavano inevitabilmente con l’affermazione cocciuta, da entrambe le parti, di verità apodittiche, reciprocamente inconciliabili, non mi consentivano di pervenire a una conclusione accettabile.

1. Una fede diversa

Secondo Paolo, Gesù, protagonista del suo primo lungometraggio, che, per modestia, cede all’antagonista l’onore del titolo, non è un personaggio storico, ma metastorico. Da sacerdote e gesuita come sono, ritenevo che fosse mio dovere sostenere nelle nostre discussioni esattamente il contrario. Nulla togliendo alla dimensione metastorica del personaggio Gesù, che è assolutamente evidente, il fatto che Cristo debordi, come ogni cristiano sa, dai limiti della storia per farsi contemporaneo (nei secoli e nei millenni) di tutti coloro che in lui credono e a lui si affidano, non esclude che, quando era vivo in quel lembo di terra che si chiama Palestina, dentro la storia ci sia stato, e come! «Crucifixus – sono parole del Credo – sub Pontio Pilato passus et sepultus est». Muro contro muro. Il confronto finiva lì.

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Since the very beginning, method is a crucial matter in Paolo Benvenuti’s cinema. It represents both the premise and the goal of all his movies. This method is the outcome of a very peculiar film education, which is quite clearly detectable in every phase of Benvenuti’s career. By focusing on his method, or at least trying to shape up a convincing depiction of it, this paper aims to show the coherence of Benvenuti’s poetics and philosophy of film with respect both to his models and his personal beliefs about cinema. At the same time the paper shows his ability to make this method suitable for the different kinds of inquiry he has been dealing with in more than forty years. Benvenuti’s work is still tightly tied to the same matter: what is the nature of film and how to narrate and show it.

Uno dei maggiori elementi di fascino della storia cinematografica di Paolo Benvenuti sta nel fatto che la si può leggere molto chiaramente in due sensi, ottenendo sempre una precisa restituzione del suo composito e multidisciplinare approccio al film. Si può partire dall’origine, e dunque dalla scelta del cinema, dalla ricerca di un grado zero della scrittura cinematografica. Una ricerca che si coagulava tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta da una parte intorno a figure modello che diventeranno maestri e dall’altra intorno a un bisogno di capire cosa significava il cinema nell’esistenza di un gruppo di giovani pisani in cerca delle alchimie segrete che legano la vita civile a quella artistica e intellettuale.[1]

In altri termini, si può cercare di capire come il cinema arrivi a Benvenuti – che non fa mistero di essersene in sostanza disinteressato fino intorno ai vent’anni – attraverso esperienze di spettatore tra loro diverse, ma assimilate in maniera molto feconda. L’amato/odiato cinema underground e la scoperta di Dziga Vertov rappresentano i modelli decisivi per la messa a fuoco di cosa debba essere e non essere il cinema, ma si ritroveranno poco nella produzione benvenutiana, rimarranno cioè unicamente indicativi di una rottura – quella operata nei confronti della pittura – e di un nuovo e consapevole orientamento. Nello stesso giro di anni, invece, la scoperta di Rossellini, per il tramite soprattutto del più ‘sessantottino’ dei suoi film, Europa 51,[2] e poi quella di Straub, per il tramite del più coinvolgente dei suoi film, Cronaca di Anna Magdalena Bach, rimarranno come traccia indelebile al fondo dell’idea di cinema di Benvenuti, colpiranno così nel profondo da spingere il giovane pisano a seguire sul set prima Rossellini e poi Straub.

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