I miei rapporti personali con Paolo Benvenuti hanno inizio con una lite furibonda. Avevo visto e rivisto Il bacio di Giuda, film che esercitava su di me uno strano fascino, ma che si presentava come un enigma del quale non riuscivo a trovare la soluzione. Lui a Pisa, io a Roma, ci incontravamo di tanto in tanto in quel periodo, sempre per riprendere il solito, interminabile battibecco. Io pensavo, e mi sbagliavo, che la soluzione dell’enigma avrebbe dovuto fornirmela lui. Ma le nostre discussioni, che culminavano inevitabilmente con l’affermazione cocciuta, da entrambe le parti, di verità apodittiche, reciprocamente inconciliabili, non mi consentivano di pervenire a una conclusione accettabile.
1. Una fede diversa
Secondo Paolo, Gesù, protagonista del suo primo lungometraggio, che, per modestia, cede all’antagonista l’onore del titolo, non è un personaggio storico, ma metastorico. Da sacerdote e gesuita come sono, ritenevo che fosse mio dovere sostenere nelle nostre discussioni esattamente il contrario. Nulla togliendo alla dimensione metastorica del personaggio Gesù, che è assolutamente evidente, il fatto che Cristo debordi, come ogni cristiano sa, dai limiti della storia per farsi contemporaneo (nei secoli e nei millenni) di tutti coloro che in lui credono e a lui si affidano, non esclude che, quando era vivo in quel lembo di terra che si chiama Palestina, dentro la storia ci sia stato, e come! «Crucifixus – sono parole del Credo – sub Pontio Pilato passus et sepultus est». Muro contro muro. Il confronto finiva lì.
Nelle scuole teologiche da me frequentate mi avevano insegnato a discutere con tutti coloro che non la pensavano come me: con i laici, con i miscredenti, con gli avversari della religione. Con tutti avrei dovuto trovare una linea di ragionevolezza, cercando insieme dei punti nei quali fede e ragione si possono incontrare… Con Paolo non era così.
Per lui, non solo Gesù, ma Pilato, Caifa, Erode e gli altri personaggi indicati dai Vangeli come comprimari del dramma della Passione erano tutti frutto di invenzione. Tra Vangeli canonici e Vangeli apocrifi non faceva nessuna differenza. La sua preferenza andava decisamente ai secondi perché più conformi al suo modo di pensare.
«Guarda, Paolo, che in Terra Santa è stata trovata una stele marmorea nella quale è incisa un’iscrizione che dice pressappoco: questa stele l’ha fatta erigere il procuratore Pilato in onore dei mani (diis manibus) dell’Imperatore Tiberio». Piuttosto di recedere dalle sue convinzioni, avrebbe preferito pensare che si trattasse di un falso, o di una storia inventata. Inutile parlare con lui delle fonti storiche extraevangeliche. Diffidava dell’attendibilità scientifica degli studi biblici di fonte cattolica perché li riteneva inquinati da pregiudizi favorevoli alla posizione ufficiale della Chiesa.
Aveva litigato con il suo maestro Roberto Rossellini perché nel Messia (film realizzato dal padre del Neorealismo nel 1975) aveva trattato Gesù come se fosse una persona realmente esistita e non come un personaggio inventato con lo scopo di veicolare attraverso di lui un’idea religiosa. Accompagnarlo nei dibattiti dove certe signore impellicciate pendevano dalle sue labbra come se in lui parlasse un oracolo, è stata per me – devo ammetterlo – un’esperienza penosa. Questo testa a testa è durato all’incirca nove mesi, più o meno il tempo che ci vuole per far nascere un bambino.
La sua mancanza di ragionevolezza era così radicale, la sua rigidità così assoluta che, alla fine, mi sono dovuto arrendere. Non mi trovavo di fronte a un uomo che ragionava in una maniera diversa dalla mia, ma a un credente «fanatico» che a me, credente «ragionevole», proponeva una fede diversa dalla mia.
Mi sono lasciato convincere da lui? Mi sono convertito alla sua religione? Evidentemente no. Ho smesso semplicemente di pensare che lui fosse un miscredente, un uomo imbevuto di razionalismo e relativismo come ce ne sono tanti nell’attuale mondo secolarizzato, e ho cominciato a considerarlo come uno che appartiene a una sorta di setta eretica, la quale non ha probabilmente altri adepti al di fuori di lui. Ma veniamo a Il bacio di Giuda e al suo enigma.
Visto in superficie, il film sembra avallare le idee proposte a voce dal suo autore, ma letto in profondità (seguendo cioè le indicazioni contenute nei riferimenti simbolici, che abbondano nelle immagini, contrassegnate da precise connotazioni di stile) può dire tante altre cose, comprese quelle che penso io, anche se so che Paolo non è d’accordo con me. Ho deciso di seguire un procedimento di questo genere (che privilegia il contenuto simbolico delle immagini rispetto al significato letterale della storia), lasciando perdere le discussioni sui princìpi fondamentali, e alla fine mi sono accorto che, al di là del piacere reciproco che provavamo nel contraddirci punto su punto, Paolo e io avevamo anche delle idee che potevamo condividere pacificamente.
Mi viene in mente a questo proposito un aneddoto che risale all’autunno del 1966. Avevo organizzato un incontro tra Pier Paolo Pasolini e un gruppo di gesuiti, alunni e docenti di alcuni atenei romani (tra i quali c’era il padre Carlo Maria Martini, allora professore del Pontificio Istituto Biblico, poi Cardinale Arcivescovo di Milano). Si sviluppò un dibattito che aveva come argomento la religione. Poi ci fu la proiezione del film La ricotta, che ho visto per la prima volta in quell’occasione seduto accanto al regista. A un certo momento, mentre le immagini scorrevano sullo schermo, ho avuto un’intuizione e mi sono rivolto a Pasolini bisbigliandogli in un orecchio: «Ho capito quello che lei vuole dire… Anche lei ha una sua religione, ma è diversa dalla nostra».
Con Pasolini dicevo religione. Con Paolo preferisco dire fede.
2. Un disegno preciso
Pasolini mi ha insegnato a superare il principio di non contraddizione. Il cinema inteso come arte (il «cinema di poesia», diceva lui) non si basa sugli stessi criteri che vigono nelle scienze esatte. Il cinema non rifugge dalle contraddizioni, ma, al contrario, se ne nutre, le fa crescere dentro di sé, le fa esplodere portandole al diapason. Solo in questo modo cattura l’attenzione dello spettatore esponendo alla luce del sole ciò che la normale commedia della vita, con il suo inevitabile gioco delle parti, tende a dissimulare: le contraddizioni, appunto.
I film che Paolo Benvenuti è riuscito a realizzare nel corso della sua carriera non sono molti. Nei lunghi intervalli tra un film e l’altro si dedica ad approfondire l’argomento (per lo più un’indagine storica) che sarà oggetto della sua prossima realizzazione. Consulta documenti, ricerca testimonianze, si reca personalmente nei luoghi dove si sono svolti i fatti, raccoglie tutti i dati che possono aiutarlo a ‘vedere’ ciò che è realmente accaduto. La sua attenzione non si limita a prendere atto degli elementi esteriori, ma tende ad assimilare tutto ciò che l’ambiente reale suggerisce con il suo modo di essere: forme e colori, rumori e silenzi.
La sua ricerca prosegue nel contatto con gli interpreti: personaggi autentici più che attori professionisti. Documenti viventi, anch’essi, che contengono in sé una storia personale, erede a sua volta di tante altre storie che si sono susseguite nelle precedenti generazioni… La civiltà moderna ha coperto con una patina uniforme quei volti autentici, quei gesti che recano l’impronta di antiche abitudini, di una saggezza accumulata nei secoli…
Solo quando la ricerca è conclusa, Paolo comincia a ‘girare’. Frutto della ricerca è un disegno preciso, assolutamente nitido, dove tutto è chiaro. Non una sbavatura, non una zona d’ombra, non un’esitazione o un’incertezza. Tutto è calcolato al millimetro. La verità di Paolo è frutto di un rigoroso metodo di indagine (premiato non di rado da autentici colpi di fortuna), di una capacità di analisi che riesce a sviscerare anche gli aspetti più nascosti di una vicenda mai chiarita in precedenza, di un’intuizione folgorante che, al termine del faticoso lavoro preparatorio, diventa la molla che spinge all’azione, lo scatto che separa il progetto dalla sua realizzazione.
Non è necessario che il risultato dell’indagine coincida con la verità dei fatti. L’importante è che Paolo raggiunga la certezza di possedere una ‘sua’ verità. Solo in questo modo il film risulterà ‘vero’ nel suo insieme e in ogni minimo particolare. Allo spettatore attento spetta il compito di ‘scoprire’ la verità racchiusa nel film, che, come dicevo prima, non coincide con quello che si vede in superficie, ma fa parte di un qualcosa che sta ‘al di là’ delle immagini.
Ognuno dei sei lungometraggi a soggetto realizzati finora da Paolo può essere considerato come un oggetto trasparente, che può essere osservato da diversi punti di vista. Può essere addirittura capovolto o rovesciato… Il bacio di Giuda ha inizio con un uomo in abiti moderni (l’attore Giorgio Algranti che nel film interpreterà il ruolo di Giuda), intento a leggere una pagina del Vangelo di Matteo. Il racconto si concretizza nella scena con la cattura di Gesù (Carlo Bachi) nel Getsemani. Titoli di testa. Sulle rive del lago di Genezaret, Gesù dorme nella luce dorata del primo sole. Alcuni bimbi nudi, che giocano lì vicino, lo risvegliano cospargendo il suo corpo con la sabbia. La composizione dell’immagine prima di tutto. Adagiato supino su una stuoia, il torso nudo, un drappo leggero sulla parte inferiore del corpo, Gesù è visto dalla parte dei piedi. Lo scorcio rinvia al Cristo morto del Mantenga nella pinacoteca di Brera a Milano, anche se lo stile figurativo non è mantegnesco, ma con la morbidezza dei colori sembra avvicinarsi piuttosto ai manieristi fiorentini e in particolare al Pontormo. Gesù dorme. I bimbi (angioletti?) lo svegliano (dal sonno della morte?). Catturato dai soldati nell’antefilm, processato, ucciso e sepolto nel buio che fa da sfondo ai titoli di testa, Gesù sta forse per risorgere nella luce di un nuovo giorno?
Ecco cosa vuol dire, secondo me, guardare quello che un’immagine dice in maniera esplicita e diretta (un normale risveglio di Gesù in una delle tante mattine che hanno aperto i giorni della sua vita terrena) e allo stesso tempo ‘vedere’ quello che la stessa immagine suggerisce a un altro livello di lettura. Esempi di questo genere non mancano certo in un film come Il bacio di Giuda che, con l’intento di scagionare Giuda dall’accusa di aver tradito Gesù, lascia capire che l’Iscariota si sarebbe limitato a eseguire quello che il suo Maestro gli chiedeva di fare rivolgendosi a lui con parole sibilline delle quali, unico «intellettuale» tra gli apostoli, era il solo a percepire il significato che rimaneva oscuro a tutti gli altri.
Ma passiamo al secondo lungometraggio di Benvenuti, Confortorio, che, adottando lo stesso procedimento della lettura molteplice di un testo che, mentre dice apertamente una cosa, ne lascia capire un’altra comunicata in modo criptico, sembra voler riprendere, sotto un’angolazione diversa, il discorso sulla passione di Cristo, e sui suoi simboli, abbozzato nel film precedente.
3. Cristo tra i due ladroni
Confortorio narra l’ultima notte di due ebrei condannati a morte per furto con effrazione nella Roma della prima metà del Settecento. I confratelli del pio sodalizio di San Giovanni Decollato hanno il compito di «confortare» i condannati a morte convincendoli a confessarsi e comunicarsi prima dell’esecuzione. In questo caso, trattandosi di due ebrei, dovrebbero convincerli (in un lasso di tempo molto ristretto) a lasciare la loro ‘falsa’ religione per passare a quella ‘vera’, in modo da ottenere che, con la morte, si aprano per loro le porte del Paradiso. Impresa non facile che, alla fine, non soltanto andrà delusa, ma otterrà l’effetto contrario. I due ebrei, appartenenti agli strati bassi del popolo, non avevano un’idea precisa della specificità della loro religione. Ottengono la piena consapevolezza della propria identità, come ebrei, proprio in quella notte a motivo dell’insistenza con la quale i confratelli li vogliono indottrinare.
A un certo punto del film, uno dei due ebrei, Angeluccio (Franco Pistoni) viene interrogato in un ambiente che assomiglia al refettorio di un convento. Lui è di qua dal tavolo. I confratelli stanno di là. Quando Angeluccio, mostrando segni di insofferenza, si alza dallo sgabello dove è seduto, la macchina da presa asseconda i suoi movimenti con una panoramica che, dal basso verso l’alto, va a scoprire un affresco con l’Ultima Cena dipinto sulla parete di fondo.
Non si può non cogliere il rapporto di analogia tra le due immagini, quella cinematografica e quella dipinta, con Angeluccio posto di qua dal tavolo mentre i confratelli stanno di là allo stesso modo in cui, nell’affresco, Giuda è posto di qua mentre Gesù e gli altri undici apostoli sono posti di là. Lo stesso schema era stato adottato da Benvenuti in Il bacio di Giuda, dove la rappresentazione dell’Ultima Cena si sviluppa in una sequenza ampia e articolata.
A questo punto si ha l’impressione che, in Confortorio, si apra, come una parentesi, una sorta di film nel film. I confratelli, per cercare di suggestionare i due condannati e convincerli a cambiare religione, adottano una strana liturgia che comprende l’uso di un grande crocifisso. Ecco il crocifisso sull’altare nella cappella. È inquadrato dall’alto come il Cristo di san Giovanni della Croce dipinto da Salvador Dalì e conservato nella Glasgow Art Gallery. Ai suoi piedi passano i confratelli in processione con candele accese al canto del Miserere. L’altro ebreo, Abramo (Emanuele Crucci Viterbi) è alle prese con un domenicano (Adriano Iurissevich), che tenta invano di convincerlo a farsi cristiano. Abramo gli si rivolta contro e manda in frantumi il crocifisso che l’altro tiene tra le mani. Entra in scena un cappuccino (Dario Marconcini), il quale si flagella assieme ai confratelli davanti al povero Angeluccio che contempla la scena con gli occhi sbarrati. Nel passare dall’uno all’altro degli ambienti nei quali le diverse azioni si svolgono simultaneamente, Benvenuti utilizza procedimenti di montaggio che si spingono fino al trompe l’œil, come quando accosta l’uno all’altro il crocifisso grande, che sta sull’altare della cappella, e quello piccolo, che il domenicano brandisce, in modo da far apparire gigantesca la mano del religioso che lo afferra.
La manipolazione dei simboli religiosi per suggestionare i due condannati e indurli a convertirsi assume dimensioni grandiose quando il cappuccino fa adagiare Abramo supino su un drappo funebre e fa deporre sul suo corpo il grande crocifisso. L’immagine del Cristo che entra in campo, visto in soggettiva da Abramo, è impressionante. La pressione psicologica esercitata sui due prigionieri, legati con catene che equivalgono a strumenti di tortura, è insopportabile. Il tutto è condito con canti gregoriani e con riferimenti alla liturgia penitenziale e funeraria.
La situazione si fa pesante e il film corre il rischio di scivolare nel grottesco. Il regista tuttavia ha una concezione alta delle intenzioni dei confratelli i quali, secondo la mentalità del loro tempo, si prodigano per il bene delle anime dei due condannati. Compie pertanto un’operazione di stile che non si limiti a illustrare i fatti mostrandoli per quello che sono, ma si fa carico, come avevamo visto nel film precedente, dei significati impliciti che i simboli religiosi (crocifisso, candele accese, drappo funebre…) possono assumere al di là della loro utilizzazione come strumenti di persuasione forzata.
Metalinguaggio, spettacolo nello spettacolo, rito liturgico smontato nei suoi elementi essenziali e rimontato all’interno di un rito cinematografico, che ne accresce la portata simbolica. Il cappuccino invita i confratelli, che circondano Abramo con candele accese, a fargli sentire le pene dell’Inferno. L’urlo di Abramo rimbalza nel luogo dove Angeluccio, costretto dai ferri in una posizione da rannicchiato, giace ai piedi del grande crocifisso che ha ritrovato il suo posto nella cappella. Andreuccio guarda il crocifisso con gli occhi fuori dalle orbite. L’urlo cede il posto, nella colonna sonora, a un canto polifonico eseguito da voci femminili. Religiose che da un vicino convento pregano per la conversione degli ebrei? «Tenebrae factae sunt…». Un primo piano del crocifisso, della durata di ottanta secondi, accompagna il canto: «Si fece buio su tutta la terra mentre i Giudei crocifiggevano Gesù. E all’ora nona [le tre del pomeriggio] Gesù esclamò a gran voce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e, inclinato il capo, rese lo spirito». Un effetto di luci sapientemente dosate sul volto del Crocifisso fa sì che l’immagine esprima ciò che le parole del canto dicono. Ecco il punto al quale Benvenuti voleva arrivare con quel suo armeggiare cauto e sicuro attorno agli oggetti di culto, ai gesti rituali e ai canti liturgici, che nelle mani di un altro regista avrebbero potuto diventare occasione di irriverenza o blasfemia.
Dal carcere romano di via Giulia, dove i fatti narrati dal film si sono svolti realmente, l’azione si sposta sul Golgota, alle tre del pomeriggio di quel venerdì che, indipendentemente dalle opinioni personali del regista circa la veridicità dei Vangeli, ha segnato una svolta decisiva nella storia dell’umanità. Oppure, se si vuole prestar fede a un’ipotesi mistica che, assieme ad altri significati, si fa strada tra le pieghe del film, Cristo si trasferisce dal Golgota del 33 d.C. alla via Giulia del 1736 e torna a farsi crocifiggere (dai suoi seguaci!) tra due ladroni ebrei, dei quali ha deciso di condividere la sorte.
4. Territori di confine
Il terzo lungometraggio a soggetto di Paolo Benvenuti è ambientato nella Maremma toscana sul finire dell’Ottocento e s’intitola Tiburzi, il nome di un famoso brigante del quale ancora si parla come di una figura leggendaria, nume tutelare del luogo.
Un brigante? Sì! Ancora un emarginato, un condannato, un reietto, un uomo cancellato dalla storia, privato della propria identità come Giuda, come gli ebrei relegati nel ghetto della Roma papalina. Oppure, da un altro punto di vista che a Benvenuti non dispiace, un semidio, un intermediario tra latifondisti e servi della gleba in un lembo di terra che stenta a uscire dalle brume del Medioevo.
Siamo a Grosseto nel 1896. L’unificazione dell’Italia è un fatto recente, particolarmente sentito in una zona che, fino a qualche tempo prima, segnava il confine tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Territori che, come ricorda un personaggio del film, erano governati con criteri diversi. «Una società rozza quella papalina: malaria, miseria, ignoranza, oppressione… Più briganti che preti. Il Granducato di Toscana invece era lo stato più liberale d’Italia».
Tiburzi, condannato in contumacia, torna dalla Francia, dove viveva sotto falso nome in una sorta di esilio dorato, e si fa vedere in Toscana, nelle terre del principe Corsini. Nasce una partita di caccia all’uomo, ovvero una gara a chi intercetta per primo il brigante: il capitano Giacheri (Marcello Bartolomei), comandante dei carabinieri, per arrestarlo, il principe Corsini (Dario Marconcini) per farlo ammazzare prima che sia catturato vivo.
In realtà, la partita è truccata perché a condurre il gioco è lo stesso Tiburzi il quale, dopo aver constatato che un’oscura morte in esilio sta per consegnarlo all’oblio, e di conseguenza priva la sua vita del significato che, agli occhi degli abitanti della Maremma, aveva assunto come aspirazione a uno stato di cose in cui gli innocenti sono difesi e i colpevoli puniti, e non viceversa, ha deciso di riappropriarsi della sua leggenda con una morte che sia degna della sua fama. Ha inizio uno scambio di messaggi a distanza tra Tiburzi e Corsini. Il linguaggio adottato è tale da poter essere inteso per il verso giusto soltanto da parte di chi ne possiede la chiave.
Nel film, il famoso brigante, interpretato da Pio Gianelli, oltre che inafferrabile, risulta anche invisibile. Appare soltanto al quarantacinquesimo minuto di proiezione di una pellicola che dura in tutto un’ora e un quarto. Nella mezz’ora in cui è presente sullo schermo non pronuncia nemmeno una parola. Lo incontriamo nel folto della macchia maremmana, tra i ruderi di quella che fu la tomba di un re etrusco, scavata nella roccia, e divenne un monastero abitato da eremiti nel Medioevo. Lo vediamo centellinare, minuto per minuto, il tempo che lo separa dalla morte. Compiere, nel corso della sua ‘ultima cena’, i gesti rituali che riassumono il senso di tutta la sua vita. Fumare un sigaro e soffiare il fumo contro la lampada a petrolio con un gesto che Benvenuti amplifica mettendo fumo e lampada a confronto diretto con la luna che, dopo un furioso temporale, fa capolino tra le nuvole.
Dopo il traditore per antonomasia (Giuda), i due ebrei sorpresi a rubare nel ghetto e condannati a essere impiccati davanti alla mole di Castel Sant’Angelo e il brigante che il mutare dei tempi ha spodestato dal suo trono maremmano, alla ricerca di Benvenuti non mancava che una strega per completare una carrellata ideale sui reietti, sugli esclusi, privati di ogni diritto, spogliati della propria dignità e ridotti a nulla. Ecco, di nuovo, una storia toscana, Gostanza da Libbiano, desunta dagli atti di un processo per stregoneria, avvenuto a San Miniato al Tedesco nel 1594, rinvenuti nell’Archivio storico del Comune di San Miniato e pubblicati per la prima volta, a cura di Franco Cardini, nel 1989.
Sembra facile. Il lavoro del notaio che ha stilato la relazione stenografica degli interrogatori, giunta fino a noi, è così preciso che basta mettere quelle parole sulla bocca degli attori e la cosa è fatta. Ma non è così.
Non mancano a San Miniato, dove il film è stato girato in ambienti naturali, luoghi che sono rimasti intatti dal Cinquecento a oggi. Pietre che trasudano i sapori e gli odori della Storia. Alte volte degli edifici che, nel silenzio rimasto immune dall’inquinamento acustico, fanno risuonare l’eco delle parole con accento antico. Rintocchi di campane che scandiscono le ore del giorno… Ma la ricerca di qualcosa che abbia il sapore autentico della verità, anche se si tratta di una verità che risulta pienamente credibile sul piano artistico, non già su quello ontologico, impossibile da conseguire, non si accontenta delle apparenze.
Benvenuti sopprime, tanto per cominciare, il colore. Il film è stato girato in autunno, quando la vegetazione che riveste i colli toscani si tinge di colori così smaglianti (verde, ocra e oro antico…) da risultare eccessiva nella sua bellezza, dispersiva e fuorviante rispetto alla concentrazione richiesta dal film. Il lavoro di scavo, compiuto sugli attori, consiste nel trovare il personaggio ‘dentro’ l’interprete. Il regista ottiene in questo senso risultati eccellenti dalla splendida Lucia Poli (Gostanza), da Valentino Davanzati (Vicario del Vescovo di Lucca) e da Renzo Cerrato (l’Inquisitore).
Vale la pena di soffermarci, a questo proposito, su un aneddoto indicativo del metodo con il quale Benvenuti lavora sugli attori. Nel primo incontro che il regista ha avuto con Cerrato gli propone di leggere qualche battuta del copione. Il tono non era quello giusto e i tentativi per raggiungerlo si sono protratti per ore e ore, fino alle due di notte. Stremato e con il morale a pezzi, l’anziano attore decide di arrendersi e si rivolge al regista con la voce spenta che, al colmo della disperazione, assume un tono cavernoso: «Senti, Paolo. Io non ce la faccio più. È meglio che lasciamo perdere…». «Ecco – ribatte pronto il regista –. Questo è il tono giusto. La parte la reciterai così».
5. Il potere aggiorna i suoi metodi di repressione
Visto dall’inizio alla fine, il film Gostanza da Libbiano narra, come si è detto, un processo di stregoneria del Cinquecento, basato su documenti autentici. A una osservazione più attenta però risulta che i processi rappresentati nel film sono due e non uno. Il primo, condotto dall’autorità religiosa locale, è un processo d’impostazione medievale, basato sulla convinzione che l’imputata abbia avuto rapporti carnali con il Maligno. Il secondo, presieduto da un Inquisitore che viene da Firenze ed esercita la giurisdizione sull’intero territorio del Granducato, può essere considerato come un processo al processo precedente. Le false credenze concernenti fenomeni paranormali vengono smontate una dopo l’altra sulla base di nuove conoscenze introdotte dall’evolversi della scienza (siamo ai tempi di Galileo).
Mentre il primo processo avrebbe potuto avere come conclusione ‘naturale’ la morte della strega sul rogo, e in questo modo lei avrebbe ottenuto, assieme alla punizione tremenda, la conferma dei suoi poteri soprannaturali, con il secondo processo si arriva non già all’assoluzione dell’imputata, ma a una condanna all’esilio e al silenzio. Cioè all’annientamento della sua personalità e al totale misconoscimento del ruolo da lei esercitato in quanto portatrice di una cultura alternativa rispetto a quella ufficiale. Non siamo più nel Medioevo. Nell’Epoca Moderna il potere aggiorna i suoi metodi di repressione. Non più roghi spettacolari per punire supposti convegni di streghe e stregoni con Satana e i suoi adepti; ma emarginazione, silenzio e oblio.
Con un salto nel tempo il film successivo, Segreti di Stato, ci porta nel bel mezzo del secolo XX. Con due guerre mondiali alle spalle, l’Italia si appresta ad affrontare i decenni della guerra fredda e della lotta politica che ha contrassegnato quella che oggi viene chiamata la prima Repubblica. La strage di Portella della Ginestra, nei pressi di Palermo, primo maggio 1947, è uno di quegli eventi che hanno fatto scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro. Una sua ricostruzione cinematografica è contenuta nel film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, al quale è riconosciuto un posto importante nella storia del cinema italiano impegnato sul fronte politico. A Benvenuti non piace il film di Rosi e stigmatizza come falso storico la ricostruzione della strage in esso contenuta. Il suo film, dedicato alla memoria di Danilo Dolci, parte da un presupposto completamente diverso.
L’incontro di Paolo con Dolci è avvenuto nel 1996, quando il regista ha avuto la possibilità di far vedere al noto sociologo e pedagogista Confortorio e Il bacio di Giuda. Dolci non amava il cinema. Lo riteneva veicolo di «trasmissione» e non oggetto di «comunicazione». Strumento di ‘propaganda’, facilmente manipolabile dal potere, quello politico come quello economico, per condizionare e asservire le coscienze delle masse. Riconobbe tuttavia che il cinema di Benvenuti, a differenza del normale cinema spettacolare, non imponeva allo spettatore idee preconcette, ma lo stimolava con metodo maieutico a «partorire» idee proprie.
Dolci era stato rinchiuso nel carcere palermitano dell’Ucciardone nel 1956, dopo che aveva organizzato con dei disoccupati a Trappeto uno sciopero ‘alla rovescia’, azione giudicata sovversiva. Nei pochi mesi trascorsi in prigione, era entrato in contatto con alcuni ‘picciotti’ della banda Giuliano, i quali gli avevano raccontato quello che era realmente successo a Portella. Mise a disposizione di Paolo le testimonianze da lui raccolte e gli suggerì di fare, su questo argomento, un film semplice, alla portata di tutti. «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage». Con queste parole, pronunciate poco prima di morire, Dolci ha lasciato sulle spalle di Benvenuti un compito tutt’altro che facile.
Per prima cosa, Paolo si è impegnato nello studio della storia recente della Sicilia, sulla base delle indicazioni bibliografiche che Dolci gli ha fornito. «Quello che si andava svelando ai miei occhi – dice il regista – era una storia di legami inconfessabili tra criminalità organizzata e politica, tra pezzi dello Stato italiano agli albori della Repubblica e il banditismo più efferato e sanguinario». Quando poi si è trattato di organizzare il lavoro per il film, Paolo ha applicato il suo metodo di sempre. Consultando e confrontando centinaia di testimonianze, ha cercato di capire quali sono quelle che aiutano a fare della ricostruzione dei fatti un disegno armonioso.
«In anni di lavoro paziente e minuzioso – dice il regista – ho scoperto che, seguendo le testimonianze considerate attendibili da parte degli inquirenti, il disegno diventava illeggibile, pieno di contraddizioni; se invece si prendevano per buone le testimonianze che gli inquirenti non consideravano tali, ad esempio quelle dei banditi, il disegno cominciava a prendere forma».
Il disegno, ricostruito pezzo per pezzo nel film, avalla l’ipotesi che a sparare sui dimostranti di Portella della Ginestra non furono i picciotti della banda Giuliano - o non furono soltanto loro. Sul posto erano presenti altri tre punti di fuoco, uno dei quali munito di lanciagranate. Non si sarebbe trattato di un atto di banditismo ma di un’azione terroristica a vasto raggio, la prima delle cosiddette «stragi di Stato» che insanguineranno l’Italia nei decenni successivi.
6. Il riscatto degli ultimi
Segreti di Stato è un film corale. Non ha un protagonista vero e proprio. Protagonista collettivo, con ogni probabilità, è il gruppo dei picciotti della banda Giuliano, rinchiusi nella gabbia degli imputati nell’aula del tribunale di Viterbo. Ma Benvenuti non sarebbe fedele a se stesso se nel gruppo di quegli infelici non andasse a scegliere il più disgraziato di tutti. Stigmatizzato con il marchio del traditore perché ritenuto colpevole della morte del capo, che aveva riposto in lui la sua fiducia, dell’amico, del consanguineo: Gaspare Pisciotta, interpretato con stupefacente identità fisiognomica da David Coco, già condannato a una morte infame dalla ‘giustizia’ mafiosa.
Credo che nessuno tra coloro che si sono occupati di questa complicata vicenda abbia dimostrato nei confronti di Pisciotta un senso di pietà paragonabile a quello che anima Benvenuti in questo film. Alla vigilia della morte per avvelenamento, il regista regala a quest’uomo, malato di tisi, un momento di ravvedimento del quale nessuna delle biografie di Pisciotta reca la benché minima traccia. Nel carcere di Palermo, Pisciotta confida al suo avvocato quale è stato il ruolo da lui avuto nella strage di Portella. Inquadrato dalla macchina da presa nel rettangolo di luce che proviene da una finestra i cui listelli disegnano la forma di una croce, immerso nel silenzio che regna nella stanza fino a renderla un ambiente irreale, dopo alcuni istanti d’immobilità, Pisciotta si volge a guardare fuori dalla finestra. La macchina da presa si muove lentamente fino a isolarlo in primo piano. Vengono in mente le parole di Godard, secondo il quale l’uso del carrello nel cinema è una questione di morale. Mai come in questo momento, decisivo per la vita del luogotenente di Giuliano, l’assioma del regista francese ha trovato una verifica così perentoria. Pisciotta morirà portando i suoi segreti nella tomba. Ricorrendo all’efficacia dei mezzi espressivi dei quali dispone, Benvenuti fa in modo che la vita del bandito non si chiuda senza che ci sia, da parte sua, l’ammissione delle proprie responsabilità.
Puccini e la fanciulla è l’ultimo dei film realizzati da Benvenuti finora, mentre si prolunga l’attesa del prossimo film, dedicato a Michelangelo da Caravaggio, alla cui preparazione si sta dedicando da oltre dieci anni. La fanciulla è Doria Manfredi (Tania Squillario) la ‘servetta’ di Puccini, che si è suicidata nel periodo in cui il Maestro stava componendo la partitura de La fanciulla del West. Le biografie del musicista, più o meno romanzate, hanno ricamato attorno alla tragica vicenda la favola di un amore ‘impossibile’ tra Doria e Puccini. Con fiuto da segugio, Benvenuti ha scavato nei retroscena della vicenda ed è riuscito (anche mediante la scoperta di documenti inediti) a restituire integra alla povera Doria la verità della sua innocenza e della salvaguardia eroica della propria dignità personale al di là del fango che tanti hanno cercato di gettare su di lei quando era in vita e dopo la sua morte.
Ma non è il caso di sviscerare qui la storia narrata nel film, che riserva più di una sorpresa allo spettatore. Mi basta osservare il comportamento di Doria dopo che, non trovando altro mezzo per difendere il suo onore dalle accuse infamanti di Elvira (Giovanna Daddi), la moglie isterica di Puccini, né trovando alcuna solidarietà nel Maestro (Riccardo Moretti), tutto preso dalla sua musica, decide di farla finita. Una serie di inquadrature accompagna la fanciulla in un viaggio, ricco di riferimenti simbolici, che va dalla sua casa (su un isolotto nel lago di Massaciuccoli) alla chiesa, su un poggio in vista del lago. Il gemito di un salice le cui foglie sono scosse dal vento. Il tragitto in barca. La salita di un pendio che attraversa i ruderi di una villa romana. La scena in chiesa, dove l’ufficialità del rito cattolico (una Messa domenicale officiata dal parroco del posto, interpretato da Dario Marconcini) cede il passo di fronte a un rito di nuovo conio nel quale Doria, vittima sacrificale, si identifica con l’immagine del Crocifisso che incombe sull’altare…
Lasciando Puccini in preda ai dèmoni della sua creatività, Benvenuti accompagna Doria, nell’inquadratura finale del film, tra gli alberi ad alto fusto dell’Abetone, dove la macchina da presa si muove dal basso verso l’alto sulle note di un quartetto di Schubert. La fanciulla non si vede nell’immagine, ma è evidente che, con questo movimento, il regista intende spingerla verso l’alto, fino a farle raggiungere i santi del Paradiso. Con un’operazione di stile, che attinge ai vertici della poesia, Doria si trasfigura, diventa la sorella delle eroine di Dreyer, che scelgono di morire piuttosto di vivere in una terra abitata da cadaveri viventi. La Falconetti de La passione di Giovanna d’Arco, Anna di Dies irae, Gertrud del film omonimo, che, a differenza delle altre due, al posto del rogo sceglie l’esilio e l’oblio. Oppure Mouchette di Bresson, da Bernanos, per non parlare di Edmund, il bambino protagonista di Germania anno zero di Roberto Rossellini, che porta su di sé il peso di una guerra tremenda, alla quale rifiuta di sopravvivere, e ha un fratello, anche lui bambino, di nome Michel (Sandro Franchina), che morirà di lì a poco in Europa 51 lasciando la madre Irene (Ingrid Bergman) affranta dal dolore…
Ingrid Bergman? Già! Nelle ultime immagini del film appena ricordato, tocca a lei incarnare l’emblema di quell’anima dietro le sbarre (concetto universale, che Benvenuti declina in tutti i suoi film), di cui parla il titolo di questo scritto.