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Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

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Il saggio indaga in che modo lo sguardo pittorico di Tommaso Pincio si riverbera sulla sua scrittura, agendo sottotraccia come una presenza fantasmatica. Infatti, la prosa di Pincio è caratterizzata dalla coesistenza di due anime, il pittore mancato e lo scrittore acquisito, che non cercano di raggiungere un improbabile equilibrio ma continuamente convergono e divergono tra loro. Queste oscillazioni generano una proliferazione di attriti creativi, che consentono di sperimentare diverse modalità di interazione tra parola letteraria e immagine. In particolare, nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018) lo scrittore ha trovato nella figura multiforme di Caravaggio – che da sempre lo ossessiona – lo specchio per osservare le proprie idiosincrasie e anche per indagare l’ipocrisia della società contemporanea.   

The essay investigates how Tommaso Pincio’s pictorial gaze affects his writing as a ghostly presence underlying the textual surface. Pincio’s prose is characterised by the coexistence of two souls, the failed painter and the acquired writer, who do not seek for an impossible balance but constantly converge and diverge. These oscillations generate a proliferation of creative frictions, which enable the experimentation of different interactions between literary word and image. In particular, in the novel-essay Il dono di saper vivere (2018), Pincio represents the multifaceted figure of Caravaggio – which has always obsessed him – as a mirror to observe his own idiosyncrasies and to investigate the hypocrisy of contemporary society. 

 

Nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018), il personaggio protagonista della prima parte del libro ricorda di quella volta in cui, durante una gita scolastica alla Galleria Borghese a Roma, i compagni di classe si rendono conto improvvisamente della somiglianza tra il suo volto e quello del Bacchino malato (1593-94), estendendo il sarcastico soprannome con cui lo identificano, ovvero il Melanconia, anche al quadro di Caravaggio, nel quale il pittore si è autoritratto dopo una lunga malattia. L’ombra del pittore lo perseguita fin dall’adolescenza: si tratta di un rispecchiamento che è anche una condanna, perché tutte le scelte sbagliate del personaggio che narra la propria storia dalla galera sono in qualche modo legate alla figura del pittore lombardo, il Gran Balordo.

Senza confondere questo personaggio con la biografia dell’autore, è possibile affermare che Tommaso Pincio – pseudonimo di Marco Colapietro – sia da sempre ossessionato dalla figura di Caravaggio, alla ricerca della radice profonda della sua arte, di quello sguardo sul mondo intriso di originalità e malinconia. Tale ossessione è in realtà l’emblema di quella più ampia che lo scrittore nutre nei confronti dell’immagine pittorica, che caratterizza tutta la sua opera dagli esordi narrativi fino agli esiti più recenti: la complessa e mai pacificata relazione tra arte e letteratura è il fulcro della sua scrittura. Di certo, grazie alla formazione ricevuta presso l’Accademia di Belle Arti di Roma egli possiede una conoscenza puntuale delle differenti tecniche artistiche che – pur avendo rinunciato alla strada della pittura – incide significativamente sul suo modo di guardare l’arte e il mondo circostante. Inoltre, va aggiunta l’esperienza lavorativa tra gli anni ’80 e ’90 presso le sedi di Roma e New York della Galleria d’arte internazionale di Gian Enzo Sperone, il gallerista torinese che ha avuto il merito di promuovere alcuni tra i più significativi movimenti artistici italiani del secondo Novecento, quali l’Arte Povera – così definita da Germano Celant – e la Transavanguardia – ideata da Achille Bonito Oliva. Pincio si trova a frequentare artisti italiani e internazionali, sperando di poter fare parte di quel mondo, ma allo stesso tempo comincia a scrivere d’arte, elaborando un proprio stile di scrittura tra critica d’arte e narrativa.

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In questo saggio tratterò della costruzione da parte di Tommaso Pincio del proprio spazio autobiografico attraverso le sue opere. In primo luogo, analizzerò il suo Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) del 2012, mostrando come in generale i suoi riferimenti autobiografici siano più elusivi che diretti. Nel secondo e nel terzo paragrafo affronterò il plot ricorrente di Marco Colapietro – nome anagrafico dell’autore – che, dopo aver fallito come pittore, imbocca la strada della scrittura letteraria con l’identità di Tommaso Pincio. Il plot si trova al cuore di lavori ibridi caratterizzati da una sfaccettata commistione di autobiografia e saggio, come Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) e Scrissi d’arte (2015), ma allo stesso tempo costituisce la soggiacente cornice di Cinacittà (2008) e Il dono di saper vivere (2018). Dopodiché, prenderò in esame l’esordio M. (1997), in cui ha luogo una nascita alternativa di Tommaso Pincio come personaggio. Dato che qui Tommaso Pincio è rappresentato come uno stencil con uno specifico e immutabile «programma di determinazione motivazionale», la mia idea è che i protagonisti delle prime opere di Tommaso Pincio siano una sorta di ‘programmatica prefigurazione’ del successivo plot ricorrente dell’artista fallito. Nell’ultimo paragrafo, infine, suggerirò che Il dono di saper vivere possa aprire un nuovo percorso nella produzione letteraria di Tommaso Pincio, che superi il suo ‘plot programmato’.

In this paper I will dwell upon Tommaso Pincio’s construction of his autobiographical space through his works. First, I will analyse his 2012 Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) assuming how in general his autobiographical references are more elusive than direct. In the second and third sections I will tackle the recurrent plot of the talentless Marco Colapietro – the author’s real name – who after failing as a painter embraces the path of literary writing as Tommaso Pincio. This plot is at the core of hybrid works characterised by a multifaceted mixture of autobiography and essay, such as Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) and Scrissi d’arte (2015). At the same time, it is also the underlying frame of Cinacittà (2008) and Il dono di saper vivere (2018). Then, I will examine the debut work M. (1997), where Tommaso Pincio’s alternative birth as a character takes place. Since here Tommaso Pincio is depicted as a stencil with a specific and unchangeable «program of motivational determination», my view is that the protagonists of Tommaso Pincio’s early works are a sort of ‘programmed prefiguration’ of the following recurrent plot of the failed artist. In the last section I will eventually suggest that Il dono di saper vivere may open a new path in Tommaso Pincio’s literary production, going beyond his ‘programmed plot’.

 

 

Per quanto l’apparato critico che accompagna il lavoro di Tommaso Pincio sia ormai cospicuo, la quasi totalità degli interventi riguarda singoli testi o specifici aspetti della sua produzione: la decostruzione del concetto di realtà, la propensione ucronica e distopica, la pratica della metalessi, l’eziologia dello pseudonimo, nonché i molteplici riferimenti al mondo dell’arte, del cinema, del fumetto e della visualità nel suo complesso, incluso un arguto utilizzo delle piattaforme social.[1] Manca ancora uno studio che, tenendo insieme le diverse componenti del suo immaginario, fornisca un’interpretazione complessiva dell’autore – e la cosa non stupisce visto che un simile lavoro richiederà tutt’altro che scontate competenze interdisciplinari e comparatistiche, in grado di abbracciare non solo letterature diverse, ma anche i vari ambiti culturali sopra menzionati, declinati, peraltro, a partire dalla passione per la fantascienza, nell’orizzonte del midcult e della popular culture.

Dato che non è possibile cimentarsi qui in un’indagine a tutto tondo su quello che, parafrasandone l’attitudine citazionale, si potrebbe – almeno in via provvisoria – definire l’enciclopedismo postmoderno di Tommaso Pincio,[2] mi limiterò ad abbozzare un percorso di lettura focalizzato sulla centralità che lo spazio autobiografico e, in particolare, il «destino del mancato artista»[3] rivestono nell’opera dello scrittore.

 

1. Lo spazio autobiografico

Sebbene meno fortunato del pacte autobiographique, anche lo spazio autobiografico è un concetto che si deve a Philippe Lejeune, che l’ha proposto in un saggio dedicato ad André Gide per indicare «una strategia che mira a costruire la personalità attraverso i più diversi giochi della scrittura».[4] Diversamente dal patto, che poggia sulla convenzione di genere dell’identità di protagonista, narratore e autore, lo spazio autobiografico presuppone una maggiore tensione interpretativa da parte del lettore: questi deve essere pronto a raccogliere e a mettere tra loro in comunicazione i segnali autobiografici, allusi o dichiarati, che l’autore ha distribuito nella sua opera. Se ancora di patto vogliamo parlare, pertanto, dovremo farlo nei termini di una contrattazione tramite cui il lettore implica l’autobiografia dell’autore nell’orizzonte (testuale) di un’incalzante dialogicità ermeneutica.

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Il 27 febbraio 2021 la redazione di Arabeschi ha incontrato attraverso un collegamento online lo scrittore Tommaso Pincio, al quale è dedicata la rubrica Incontro Con del numero 17. La conversazione è stata curata da Elena Porciani con il supporto tecnico di Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino e Giovanna Santaera.

L’incontro ha toccato alcuni punti cruciali della formazione artistica e visuale dello scrittore, la sua concezione del cinema e della figuralità, gli intrecci praticati tra l’iconografia tradizionale e gli usi novecenteschi dell’immagine, il modello autofinzionale di Dante e l’ambivalente preminenza dell’autore nella contemporaneità, il confronto con Caravaggio, il futuro del rapporto fra testo e immagine.

Si propone qui la trascrizione integrale della videointervista, presentata in formato ridotto nel montaggio video.

 

 

 

 

1. Le immagini nel testo: la formazione artistica e il modello cinematografico

 

Elena Porciani: La prima domanda da cui partire potrebbe essere: come lavora Tommaso Pincio? In particolare, vorremmo chiederle come entra la sua formazione artistico-visuale nella costruzione delle sue opere. In un testo di qualche anno fa, Irrazionalismo urbano, ha affermato: «la pittura mi ha insegnato a vedere, a scrivere anche con gli occhi oltre che con le parole».1 È un’affermazione che si sente ancora di sottoscrivere?

 

Tommaso Pincio: Direi di sì. Uno dei maggiori rischi che può correre uno scrittore è quello di guardarsi dentro, dentro la propria mente o anche la mente di altre persone, di concentrarsi sulla dimensione interiore – del pensiero, dei sentimenti o delle paure, delle angosce – e prestare poca attenzione, dimenticarsi del mondo che ci circonda e degli stimoli più sensoriali, a cominciare dalla vista, che più facilmente vengono dimenticati perché sono più persistenti. Noi vediamo sempre, anche quando dormiamo, ma in un certo senso vediamo anche in sogno quando sogniamo. Diamo la vista per scontata perché è una porta costante sul mondo mentre gli altri sensi ci arrivano quando uno stimolo si presenta. Gli odori e i suoni devono manifestarsi da fuori. Essendo così persistente, la vista rischia di diventare per paradosso invisibile. È un bene, quindi, che gli scrittori non dimentichino di guardare le cose, di guardare il mondo, di provare ad arrivare all’interno delle cose e delle persone anche attraverso le manifestazioni del visibile.

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Il libro di Daniela Brogi, contrariamente a quanto uno sguardo frettoloso al titolo potrebbe far pensare, è molto più che un’indagine sulla cultura figurativa che Manzoni dispiega nei Promessi sposi. Lo conferma l’ampia sezione di tavole collocata alla fine del volume, non una semplice appendice da sfogliare a supporto del testo, ma un vero e proprio saggio per immagini, un testo visuale diviso in otto paragrafi tematici integrati col resto dei capitoli e al tempo stesso autonomi da essi. Le tavole, infatti, vanno certamente consultate durante la lettura ma, così organizzate, sviluppano percorsi narrativi e associazioni che arricchiscono quanto esplorato nei cinque capitoli del libro e sui quali il lettore, trasformandosi in spettatore, si immerge nuovamente in maniera intensiva a lettura ultimata. È una scelta coerente con l’assunto di metodo fondamentale che ispira ogni singola pagina del saggio: il rapporto tra parole e immagini, testi letterari e testi visivi non si definisce mai solo in termini di influenza o dipendenza filologica, piuttosto si dispiega all’interno di un «ecosistema», per riprendere le premesse teoriche di W.J.T Mitchell che Brogi opportunamente assume (p. 38). Un romanzo per gli occhi è, da questo punto di vista, un’esplorazione audace e innovativa dell’ecosistema culturale all’interno del quale I promessi sposi si colloca, un circuito di immagini, procedimenti formali, narrazioni e pratiche dello sguardo che ha il suo sostrato fondamentale in una certa area della cultura barocca, in una rete di pratiche devozionali di matrice controriformata fondate sul primato assoluto della visione sull’espressione verbale, in una certa idea di realismo che ha la sua massima incarnazione nelle opere di Caravaggio. Un’operazione antiquaria, dunque, quella di Manzoni? Al contrario, Brogi insiste sulla collocazione romantica, cioè moderna, del capolavoro manzoniano, che dialoga ora frontalmente, ora obliquamente, con una stagione straordinaria della cultura artistica e religiosa lombarda, recependone gli stimoli fondamentali e consegnandoli al suo tempo nella forma del primo romanzo moderno della tradizione letteraria italiana. E obliquamente Brogi affronta questa rete di relazioni, per scarti, spostamenti allegorici e movimenti circolari: per osservare Caravaggio in Manzoni si parte da Velázquez e Gadda; per capire cosa è il romanzo storico si descrivono le foglie accartocciate della Canestra di frutta di Caravaggio; per esplorare lo spazio dell’interiorità che nel romanzo è al centro di alcune pagine straordinarie si indagano i luoghi e le pratiche spirituali inaugurate nell’età della Controriforma, dai Sacri Monti al rosario; per capire il realismo cristiano manzoniano si osservano il buio e la luce delle tele caravaggesche.

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Adattare al cinema una raccolta di fiabe, novelle o racconti è un’operazione complessa, soprattutto se si vuole evitare la scansione comoda e un po’ convenzionale del film a episodi. Assieme a un team di scrittori e sceneggiatori esperti (Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso), Garrone ha scelto di intrecciare e alternare fra di loro tre fiabe appartenenti tutte alla prima giornata del Cunto di Basile, La cerva fatata, La pulce, La vecchia scorticata; un’operazione simile a quella che Altman ha fatto a suo tempo con i racconti di Carver, anche se meno sistematica che in Short Cuts. La scelta più felice è stata senz’altro limitare a tre il numero di fiabe prescelte, espandendole con dettagli e sfumature psicologiche, che alimentano una sorta di ‘realismo fiabesco’. Si è evitato così l’effetto di affresco, presentando invece tre percorsi accomunati da una poetica della metamorfosi e dell’identità instabile esposta all’inizio del film dal personaggio del negromante; una poetica che spiega fra l’altro la consonanza fra il barocco e la nostra epoca di cui si è fin troppo parlato. Facciamo un esempio. La prima fiaba, La cerva fatata, contiene il tema del doppio, nella specifica variante del sosia del sovrano, cioè di una somiglianza eccezionale che lega due personaggi appartenenti a strati sociali opposti; una variante che incrina l’assolutezza del potere e che dal teatro barocco spagnolo giunge fino al Principe e il povero di Twain, o a Kagemusha di Kurosawa. Nella fiaba di Basile i due ragazzi, Fonzo e Cannarolo, sono identici perché concepiti grazie al cuore di un mostro marino mangiato dalla madre del primo, la regina di Lungapergola, e cucinato dalla damigella madre del secondo, sulla scorta di un motivo antropologico di lunga durata presente in varie novelle e in alcuni libretti d’opera (da leggere il saggio di Mariella di Maio, Il cuore mangiato: storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini e Associati, 1996). La rilettura di Garrone amplifica sia la gelosia persecutoria della regina, sia il legame affettivo fra i due doppi (qui si chiamano Elias e Jonah), legame fortemente contrastato per motivi sociali, dato che il sosia del principe è figlio di un’umile serva (in Basile invece sono entrambi aristocratici: Canneloro alla fine diventa anche lui re). Garrone e i suoi sceneggiatori aggiungono inoltre elementi di conflitto che rientrano in una visione del mondo basata sulla compensazione fra nascita e morte, come spiega più volte il negromante. Troviamo perciò due cambiamenti significativi nell’intreccio: a differenza che in Basile, nel film il re muore dopo aver catturato il mostro marino, che gli infligge un ultimo colpo di coda. Per tentare di eliminare il sosia, anche la regina muore, trasformatasi in un terribile mostro ctonio ucciso dal figlio ignaro, in un finale di grande effetto. Quella che in Basile era una narrazione rapida e pragmatica, dal sapore popolare (soprattutto nel particolare degli oggetti che ‘partoriscono’ altri oggetti assieme alle due donne), diventa in Garrone un dramma ricco di passioni estreme e di violenza primordiale, che culmina nell’uccisione della madre castratrice.

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Il testo che qui riproduciamo è la prefazione al volume di Corinne Pontillo "Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia" (Duetredue Edizioni, 2015). La monografia, basata sull’indagine delle interazioni tra l’opera pasoliniana e il linguaggio fotografico, costituisce il primo numero della collana “I quaderni di Arabeschi”. Il saggio di Marco Antonio Bazzocchi ne ripercorre criticamente temi e passaggi salienti, mettendo in evidenza gli aspetti innovativi nell’ambito di una puntuale contestualizzazione delle diverse fasi della produzione dell’autore.

 

Come ormai sappiamo dagli sviluppi dell’ermeneutica degli ultimi anni, l’opera di un autore non è né un sistema perfetto né un ente chiuso né una costruzione fondata su una architettura solida. L’edizione delle opere di Pasolini condotta da Walter Siti e Silvia De Laude ha contribuito in modo definitivo a scardinare limiti e confini tra i singoli testi, portando alla luce un continuum di scritture dove quello che sembrava definito e collocato in una fase specifica della produzione pasoliniana mostra invece ripetuti legami con quanto lo precede e quanto lo segue. L’opera di Pasolini è dunque un magma, e lo è molto prima del momento in cui l’autore adotta questo termine, nei primi anni Sessanta.

Saggi critici come questo di Corinne Pontillo confermano e anzi rafforzano tali ipotesi di lavoro. Mettendo al centro della ricerca un aspetto che sembrava marginale, o perlomeno riconducibile a pochissime opere, la fotografia, Pontillo dimostra invece con pazienza e infinita attenzione ai testi che c’è un ‘problema’ fotografico quasi in ogni momento dell’opera dell’autore, dalle prime pagine friulane (in prosa e in versi) agli ultimi, grandi abbozzi degli anni Settanta.

Per capire fino in fondo l’importanza di questa ricerca, dobbiamo innanzitutto considerare il legame che viene identificato alla radice delle prime opere di Pasolini, in particolare in alcune prose friulane, cioè la presenza di un dispositivo della visione che funziona come dispositivo della memoria, anche là dove non si tratta di vero processo memoriale. L’intero mondo friulano, quel mondo che solo una prospettiva semplificante ha sempre identificato con un paradiso esistenziale, acquista così una dimensione nuova: il microcosmo Friuli, i corpi che popolano questo mondo, il desiderio che l’autore proietta sui corpi e sulla lingua che li definisce, sono già da sempre una realtà vista attraverso un filtro, percepita nella distanza, fissata attraverso un obiettivo. In altre parole, Pontillo ci porta a considerare che il Narciso friulano è il prodotto di un effetto visivo già compromesso con il dispositivo fotografico: è colui che ci guarda dal fondo di un’immagine dentro la quale si trova rinchiuso, e non ha possibilità di toccare il mondo se non attraverso il suo sguardo prigioniero. L’espressione che Pontillo usa per definire questo primo momento della produzione di Pasolini, «pulviscolo di frammenti narcisistici», dice già tutto: ogni aspetto del mondo friulano è frammento, segmento, particella, esattamente come è frammento il corpo dell’autore che usa con abilità la sua fotografia del libretto universitario quando decide, alla fine della sua carriera, di riscrivere l’intera produzione friulana invertendone il segno e facendone emergere il negativo che all’origine era stato occultato.

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L’esperienza di Testori come critico d’arte prende avvio nel 1952 con la pubblicazione su Paragone, complice la mediazione di Longhi, di un saggio su Francesco Cairo. Fin da questo esordio lo scrivano lombardo mostra un potente intuito nella lettura delle immagini, uno spiccato interesse per la ‘grana’ (impasto) materica del colore, e così va costruendo un nuovo paradigma critico, fondato sul continuo scambio fra letteratura e storiografia, fra cronaca e filologia. Il saggio ripercorre la tensione stilistica dei contributi su Cairo, secondo un minuzioso pedinamento delle definizioni più emblematiche, individua i prestiti longhiani e analizza il superamento testoriano del concetto di fotogramma.

Testori’s activity as an art critic begins in 1952 with the publication of an essay on Francesco Cairo in the journal Paragone, promoted by Roberto Longhi himself. From this debut Testori shows an excellent ability to interpret images and an extraordinary interest in the materiality of colours. He thus establishes a new critical approach combining literature and historiography, chronicle and philology. This paper focuses on Testori’s essays on Cairo and highlights the intertwining with Longhi’s work, aiming at understanding the interpretation of the concept of ‘photogram’ (fotogramma) offered by Testori.

 

1. Francesco Cairo e i segreti della carne

Il battesimo ufficiale di Testori come critico d’arte avviene sul numero 27 di Paragone (1952), la rivista di Roberto Longhi. Testori si è già occupato di pittura, fin da giovanissimo: ha scritto su Dosso Dossi nella rivista del GUF bolognese, ha scritto su Leonardo e Giorgione in una rivista forlivese (Pattuglia), e di qui a pochi mesi, sempre su Paragone, pubblicherà il primo discorso critico su Ennio Morlotti, l’artista contemporaneo a lui più caro.

Ma ora, sia per l’argomento – il pittore lombardo Francesco (del) Cairo – sia per il piglio del saggio, sembra che l’impegno vada nella direzione esplicita di critica d’arte impostata su una scrittura fortemente espressiva, secondo il modello longhiano. In realtà il saggio ancor oggi si rivela un tour de force stilistico e interpretativo, tanto che – volendo ripercorrerlo – bisogna tener presente che è un discorso magmatico che affonda, e si nutre, nel magma pittorico. La scrittura vuole essere l’equivalente della materia pittorica.

Testori conduce il suo ragionamento su due livelli, che continuamente interagiscono uno sull’altro: un livello di ‘critica’ tradizionale (formazione del pittore, modelli, evoluzione) e un livello di interpretazione più ampia, avvolgente, dove il Cairo diventa l’esempio di una prospettiva che riguarda il fare artistico in senso generale, anzi potremmo dire un’idea stessa di pittura. E da qui questa idea si evolverà, saggio dopo saggio, intervento dopo intervento, per tutto il percorso di Testori critico d’arte.

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Milo Manara ospite di Etna Comics - Festival Internazionale del fumetto e della cultura pop, che ormai da quattro anni si svolge a Catania, ha accompagnato una mostra personale di settanta opere originali, riunite sotto il titolo Tutto ricominciò con un’estate catanese in ricordo di quel Tutto ricominciò in un’estate indiana, primo frutto della proficua collaborazione tra la matita del maestro dell’erotismo a fumetti e la penna di Hugo Pratt.

Artista legato intimamente alle magnifiche donne create dal suo tratto inconfondibile, Manara disegna per raccontare storie, per professione, per gioco e per passione: «insomma, praticamente disegno perché appartengo al genere umano e non ne posso fare a meno». In quarant’anni di carriera ha affrontato i soggetti più eterogenei, da solo o in collaborazione con autori del calibro del già citato Pratt, di Federico Fellini, Pedro Almodóvar, Vincenzo Cerami e Alejandro Jodorowsky, senza farsi mancare una collaborazione con la Marvel Comics nel genere ‘supereroi’.

Il mondo del cinema è uno degli spazi d’immaginazione di Manara; il pensiero va al 1984, periodo in cui inizia la collaborazione con Fellini, prima con lo straordinario fumetto, Viaggio a Tulum, apparso su «Corto Maltese», e poi con uno dei progetti più personali del grande maestro riminese, Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet.

Fellini comincia a lavorare a Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet nel 1965; il soggetto viene pubblicato a puntate su «Il Grifo» ma non sarà mai realizzato a causa di ragioni personali e di una serie di contrattempi (tra cui – pare – un litigio con il produttore De Laurentiis). «La storia di uno che è morto e non lo sa» diviene nel 1992 un fumetto, grazie all’intervento di Manara, che realizzerà, per il regista, sia storyboard, sia strisce e illustrazioni indimenticabili, e insieme i manifesti dei film Intervista e La voce della luna. Manara racconta di essere stato per Fellini «un semplice strumento, dato che lui faceva gli storyboard di tutte le vignette e poi io dovevo fare una prima elaborazione in brutta copia»; la tavola finale doveva in ogni caso rispettare quello che voleva Fellini, artista fortemente ‘visuale’ e dal raro talento fumettistico.

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