Categorie



Questa pagina fa parte di:

Il testo che qui riproduciamo è la prefazione al volume di Corinne Pontillo "Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia" (Duetredue Edizioni, 2015). La monografia, basata sull’indagine delle interazioni tra l’opera pasoliniana e il linguaggio fotografico, costituisce il primo numero della collana “I quaderni di Arabeschi”. Il saggio di Marco Antonio Bazzocchi ne ripercorre criticamente temi e passaggi salienti, mettendo in evidenza gli aspetti innovativi nell’ambito di una puntuale contestualizzazione delle diverse fasi della produzione dell’autore.

 

Come ormai sappiamo dagli sviluppi dell’ermeneutica degli ultimi anni, l’opera di un autore non è né un sistema perfetto né un ente chiuso né una costruzione fondata su una architettura solida. L’edizione delle opere di Pasolini condotta da Walter Siti e Silvia De Laude ha contribuito in modo definitivo a scardinare limiti e confini tra i singoli testi, portando alla luce un continuum di scritture dove quello che sembrava definito e collocato in una fase specifica della produzione pasoliniana mostra invece ripetuti legami con quanto lo precede e quanto lo segue. L’opera di Pasolini è dunque un magma, e lo è molto prima del momento in cui l’autore adotta questo termine, nei primi anni Sessanta.

Saggi critici come questo di Corinne Pontillo confermano e anzi rafforzano tali ipotesi di lavoro. Mettendo al centro della ricerca un aspetto che sembrava marginale, o perlomeno riconducibile a pochissime opere, la fotografia, Pontillo dimostra invece con pazienza e infinita attenzione ai testi che c’è un ‘problema’ fotografico quasi in ogni momento dell’opera dell’autore, dalle prime pagine friulane (in prosa e in versi) agli ultimi, grandi abbozzi degli anni Settanta.

Per capire fino in fondo l’importanza di questa ricerca, dobbiamo innanzitutto considerare il legame che viene identificato alla radice delle prime opere di Pasolini, in particolare in alcune prose friulane, cioè la presenza di un dispositivo della visione che funziona come dispositivo della memoria, anche là dove non si tratta di vero processo memoriale. L’intero mondo friulano, quel mondo che solo una prospettiva semplificante ha sempre identificato con un paradiso esistenziale, acquista così una dimensione nuova: il microcosmo Friuli, i corpi che popolano questo mondo, il desiderio che l’autore proietta sui corpi e sulla lingua che li definisce, sono già da sempre una realtà vista attraverso un filtro, percepita nella distanza, fissata attraverso un obiettivo. In altre parole, Pontillo ci porta a considerare che il Narciso friulano è il prodotto di un effetto visivo già compromesso con il dispositivo fotografico: è colui che ci guarda dal fondo di un’immagine dentro la quale si trova rinchiuso, e non ha possibilità di toccare il mondo se non attraverso il suo sguardo prigioniero. L’espressione che Pontillo usa per definire questo primo momento della produzione di Pasolini, «pulviscolo di frammenti narcisistici», dice già tutto: ogni aspetto del mondo friulano è frammento, segmento, particella, esattamente come è frammento il corpo dell’autore che usa con abilità la sua fotografia del libretto universitario quando decide, alla fine della sua carriera, di riscrivere l’intera produzione friulana invertendone il segno e facendone emergere il negativo che all’origine era stato occultato.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →