Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Nel 1930 Man Ray e Lee Miller collaborarono con lo scrittore William Seabrook e la compagna Marjorie Worthington a una serie di ritratti fotografici o tableaux vivants incentrati su fantasie di sadomasochismo. Queste serie ci guidano in visualizzazioni in cui il perimetro morale dell’umano sembrava collassare. Il corpus è anche espressione di fantasie razziali di primitivismo e négrophilie (un’appropriazione simbolica della cultura nera come mezzo di rinvigorimento spirituale) dilagante nella Parigi degli anni Venti. L’assunzione di fantasie primitiviste e di perversione sessuale collaborarono a denigrare la cultura borghese, razionalista e moralizzata, e sopprimere «la dualità […] tra corpo e anima, materia e spirito», come scrisse Michel Leiris. L’esplorazione di forme di sessualità ‘perversa’ ha intersecato l’investitura politica del marchese de Sade, celebrato dai surrealisti nelle loro diatribe anticapitaliste. Bataille fece di Sade il paradigma dell’eterologia, in un discorso di violenta critica culturale che vagheggiava il potere emancipatorio e ‘sacro’ dell’impulso negativo sadiano. Il Divino Marchese, visto ora come modello di libertà individuale e sessualità perversa, ora come totem ideologico, è il perno intorno a cui le pratiche artistiche di Man Ray, le esperienze personali di Seabrook e le elaborazioni teoriche di Paul Eluard e Bataille hanno ruotato o sono state discusse nel 1930.

In 1930 Man Ray and Lee Miller cooperated with writers William Seabrook and Marjorie Worthington on a series of photographic portraits or tableaux vivants focusing on fantasies of sadomasochism. These series guide us in visualizations where the moral perimeter of the human seemed to collapse. The corpus is also an expression of racial fantasies of primitivism and negrophilia (a symbolic appropriation of black culture as a means of spiritual invigoration) rampant in 1920s Paris. The assumption of primitive fantasies and sexual perversion collaborated in denigrating bourgeois, rationalist and moralized culture, and in suppressing the «duality [...] between body and soul, matter and spirit», as Michel Leiris put it. The exploration of forms of ‘perverse’ sexuality intersected the political investiture of the Marquis de Sade, celebrated by surrealists in their anti-capitalist tirades. In particular, Bataille made Sade the paradigm of heterology, a discourse of violent cultural criticism that foresaw the emancipatory and ‘sacred’ power of the sadistic impulse. The Divine Marquis, seen either as a paragon of individual freedom and perverse sexuality, or as an ideological totem, was the pivot around which Man Ray’s artistic practices, Seabrook’s personal experiences, and the theoretical elaborations of Paul Eluard’s and Bataille’s revolved or were discussed in 1930.

 

 

Durante alcune visite a Parigi nel 1929 e nel 1930, insieme alla compagna Marjorie Worthington, lasciando la residenza abituale a Tolone o fermandosi da e per New York, lo scrittore William Seabrook coinvolse Man Ray e Lee Miller nella produzione di tre serie di fotografie incentrate su fantasie sadomasochiste e feticismo. Seabrook era allora noto per i racconti dei suoi viaggi in Medio Oriente (Adventures in Arabia,1927) e Haiti (The Magic Island, 1929), che servivano a lettori avidi di evasioni esotiche un menù ricco di rituali esoterici o ancestrali e dettagli etnografici su società feudali o tribali. Le fotografie vennero conosciute solo dopo essere state acquisite dal Musée National d’Art Moderne di Parigi nel 1994. Man Ray non le pubblicò durante la sua vita, e rimasero la documentazione di fantasie private. Antony Penrose, il figlio di Lee Miller, tende a liquidarle come un lavoro su committenza di Seabrook, che andò subito nella collezione privata dello scrittore, e non veramente ascrivibile al catalogo di Man Ray.[1]

Man Ray, tuttavia, fu più che un iconografo per Seabrook. La partecipazione di Worthington e Miller al lavoro collettivo suggerisce una consonanza personale tra le due coppie americane. Nello stesso periodo, Man Ray stava esplorando, anche insieme a Lee Miller – attraverso fotografie private o pubblicate nelle riviste – forme di sessualità alternative (‘perverse’) al sesso biologico normativamente eterosessuale. Queste includono gesti di amore lesbico, fantasie sadiche, allusioni blasfeme alla sessualità anale (Monument à D.A.F de Sade, 1933), fino a una serie esplicitamente pornografica per la raccolta di poesie 1929, di Benjamin Péret e Louis Aragon. L’espressione di sé attraverso ogni forma di perversione erotica (inclusi feticismo, sadomasochismo, ‘bestialità’, ‘l’erotomania’ del marchese de Sade) furono al centro delle sedute di autocoscienza dei surrealisti (soprattutto maschi) tenute tra 1928 e 1932, ad alcune delle quali partecipò lo stesso Man Ray.[2] Inoltre, se le fotografie fatte per Seabrook visualizzano soprattutto gli interessi sadomasochistici dello scrittore, esse si riconnettono a motivi di bondage e sottomissione autonomamente sviluppati da Man Ray nel proprio lavoro. D’altro canto, l’iconografia esplicitamente o più cripticamente sadica nell’opera di Man Ray di questo periodo, anche specificamente nel rapporto con Lee Miller, è stata oggetto di analisi alla luce di episodi di impulsi sadici emergenti negli scritti autobiografici del fotografo.[3]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Il testo che qui riproduciamo è la prefazione al volume di Corinne Pontillo "Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia" (Duetredue Edizioni, 2015). La monografia, basata sull’indagine delle interazioni tra l’opera pasoliniana e il linguaggio fotografico, costituisce il primo numero della collana “I quaderni di Arabeschi”. Il saggio di Marco Antonio Bazzocchi ne ripercorre criticamente temi e passaggi salienti, mettendo in evidenza gli aspetti innovativi nell’ambito di una puntuale contestualizzazione delle diverse fasi della produzione dell’autore.

 

Come ormai sappiamo dagli sviluppi dell’ermeneutica degli ultimi anni, l’opera di un autore non è né un sistema perfetto né un ente chiuso né una costruzione fondata su una architettura solida. L’edizione delle opere di Pasolini condotta da Walter Siti e Silvia De Laude ha contribuito in modo definitivo a scardinare limiti e confini tra i singoli testi, portando alla luce un continuum di scritture dove quello che sembrava definito e collocato in una fase specifica della produzione pasoliniana mostra invece ripetuti legami con quanto lo precede e quanto lo segue. L’opera di Pasolini è dunque un magma, e lo è molto prima del momento in cui l’autore adotta questo termine, nei primi anni Sessanta.

Saggi critici come questo di Corinne Pontillo confermano e anzi rafforzano tali ipotesi di lavoro. Mettendo al centro della ricerca un aspetto che sembrava marginale, o perlomeno riconducibile a pochissime opere, la fotografia, Pontillo dimostra invece con pazienza e infinita attenzione ai testi che c’è un ‘problema’ fotografico quasi in ogni momento dell’opera dell’autore, dalle prime pagine friulane (in prosa e in versi) agli ultimi, grandi abbozzi degli anni Settanta.

Per capire fino in fondo l’importanza di questa ricerca, dobbiamo innanzitutto considerare il legame che viene identificato alla radice delle prime opere di Pasolini, in particolare in alcune prose friulane, cioè la presenza di un dispositivo della visione che funziona come dispositivo della memoria, anche là dove non si tratta di vero processo memoriale. L’intero mondo friulano, quel mondo che solo una prospettiva semplificante ha sempre identificato con un paradiso esistenziale, acquista così una dimensione nuova: il microcosmo Friuli, i corpi che popolano questo mondo, il desiderio che l’autore proietta sui corpi e sulla lingua che li definisce, sono già da sempre una realtà vista attraverso un filtro, percepita nella distanza, fissata attraverso un obiettivo. In altre parole, Pontillo ci porta a considerare che il Narciso friulano è il prodotto di un effetto visivo già compromesso con il dispositivo fotografico: è colui che ci guarda dal fondo di un’immagine dentro la quale si trova rinchiuso, e non ha possibilità di toccare il mondo se non attraverso il suo sguardo prigioniero. L’espressione che Pontillo usa per definire questo primo momento della produzione di Pasolini, «pulviscolo di frammenti narcisistici», dice già tutto: ogni aspetto del mondo friulano è frammento, segmento, particella, esattamente come è frammento il corpo dell’autore che usa con abilità la sua fotografia del libretto universitario quando decide, alla fine della sua carriera, di riscrivere l’intera produzione friulana invertendone il segno e facendone emergere il negativo che all’origine era stato occultato.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →