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Se i rapporti tra i nostri scrittori del Novecento e l’arte cinematografica, così densi, sono stati declinati soprattutto a colpi di soggetti (anche preterintenzionali) e sceneggiature per il grande schermo, le relazioni che col cinema intrattiene il centenario Calvino occupano un posto particolare – in quanto prevalentemente nutrite da recensioni, riflessi sull’immaginario privato nonché strategie narrative che risentono, volenti o nolenti (come per tutti gli autori del nostro secondo Novecento), della concorrenza della settima arte (viene subito in mente, in proposito, l’incipit del Sentiero, e dunque le prime parole in assoluto dello scrittore editato: «Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti […] giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri…»).

Si tratta di aspetti in verità già toccati e criticamente sviluppati in occasione di un ormai lontano convegno di studi (San Giovanni Valdarno, 1987) poi confluito nel relativo volume di atti L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, 1990; e più tardi anche dalla monografia di Vito Santoro, Calvino e il cinema del 2012 (in mezzo lo studio di Maria Rizzarelli, Sguardi dall’opaco: saggi su Calvino e la visibilità del 2008, che ha però un raggio d’azione più ampio, nel senso che indaga un modo di vedere e relazionarsi con le cose, da parte dello scrittore, che ha a che fare anche con la pittura e con la fotografia). Davide Maria Zazzini aggiorna dunque, in concomitanza con l’uscita di nuovi studi e documenti che riguardano l’autore (monografie, omaggi, ricordi), una bibliografia già consistente, ripercorrendo in dettaglio un rapporto a quanto pare intenso e duraturo al quale sono da ricondurre anche alcune tematizzazioni narrative (nella Speculazione, in Marcovaldo) e più d’una trasposizione intermediale (per la televisione o per il cinema). E lo fa rivelando da una parte una profonda conoscenza della storia del cinema, delle sue tecniche, dall’altra una minuta coscienza dell’opera (così vasta) calviniana.

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Abstract: ITA | ENG

A partire dal riferimento al ‘cinematografaro’ in La religione del mio tempo e nelle Note sulle “Notti”, dedicate al film su Cabiria, e in altre recensioni, resoconti sulla produzione, interventi, interviste e riferimenti poetici e filmici, si scopre che Fellini è il protagonista del cinema italiano più presente nella produzione pasoliniana. Dalla prima lettura delle opere di Pasolini da parte del regista riminese e dal loro successivo incontro emerge una condivisione profonda umana e artistica che apre a collaborazioni e ispirazioni comuni. Le immagini di Fellini su Pasolini-personaggio si compongono quindi a partire da quella di scrittore e interlocutore. Pur nella diversità estetica e stilistica che li separava, i due cineasti avevano molti elementi in comune che li porteranno a esplorare insieme le periferie romane, di cui Pasolini ne restituisce la suggestiva ambiguità felliniana mentre il secondo ne trasferirà i caratteri anche nei personaggi. Negli anni il rapporto fra i due vivrà poi di contrapposizioni e polemiche diventando più intermittente ma ricco di riferimenti reciproci, soprattutto dopo la morte del regista-poeta di Casarsa quando diventerà a tutti gli effetti un autore-personaggio ne Il libro dei sogni felliniano.

Starting with the mention of the «cinematographer» in La religione del mio tempo and Note sulle "Notti" which is devoted to the movie Cabiria − as well as other reviews, production reports, speeches, interviews, and poetic and filmic references − we notice that Fellini is the most cited Italian cinema protagonist in Pasolini's work. After reading Pasolini's works for the first time and meeting him later, they start to share a significant level of human and artistic connection that encourages collaboration and mutual inspiration. As a result, Fellini's depictions of Pasolini as a 'character' are based on his roles as a writer and an interlocutor. The two filmmakers, despite their aesthetic and stylistic differences, had a lot in common, which inspired them for example to explore the suburbs of Rome together, of which Pasolini would bring back the evocative ambiguity of Fellini, while the latter transferred those occasions into him characters. The two's connection develops over time in contrasts and polemics, growing increasingly sporadic but rich in mutual allusions, particularly after the passing of Pasolini when he effectively became an author-character in Fellini's Il libro dei sogni.

 

 

1. I viaggiatori nelle notti romane

 

 

Sono alcuni versi della poesia La religione del mio tempo, scritti fra il 1957 e il 1959, e fu lo stesso Pier Paolo Pasolini a precisare in una nota alla fine del libro omonimo che il ‘cinematografaro’ evocato era Federico Fellini. All’epoca, infatti, il regista amava guidare automobili di lusso (come qualche anno più tardi accadrà allo stesso Pasolini) e lo scrittore lo aveva già raffigurato in Nota su “Le notti”, mentre, guidando con una mano sola, si girava e rigirava i capelli, usando il solo indice come tornio o fuso.[2]

Se aggiungiamo a questi due testi altri contributi – come la recensione che avrebbe scritto nel 1960 su La dolce vita, l’amaro resoconto diaristico delle iniziali vicende produttive di Accattone pubblicato ‘a caldo’ su «Il Giorno» nell’ottobre del 1960, l’intervento polemico nel documentario di Maurizio Ponzi (Fellini in città, 1968) e le due recensioni che nel 1973 avrebbe dedicato ad Amarcord libro e film, oltre a varie dichiarazioni in interviste e a riferimenti in altri testi – è possibile riscontrare subito come Fellini sia stato l’autore di cinema italiano su cui Pasolini ha scritto di più, adottando generi diversi: la poesia, la saggistica, la diaristica, la scrittura per il cinema (si pensi agli accenni sulla personalità di Fellini dissimulati nel personaggio del suo alter ego Guido nel trattamento per un film mai fatto, Viaggio con Anita, su cui ritorneremo), i film (la menzione del nome di Fellini in una celebre sequenza de La ricotta, 1963, e anche la citazione ‘felliniana’ rivendicata dallo stesso Pasolini nella scena degli artisti girovaghi in Uccellacci e uccellini, 1966) e gli interventi audiovisivi.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Quello di Franco Citti è stato uno dei volti più identificativi del cinema di Pasolini, da Accattone (1961) e da Mamma Roma (1962) fino a Edipo re (1967) e al Decameron (1971). Il contributo ripercorre, lungo la produzione cinematografica del poeta-regista, le interpretazioni di Citti, offrendo alcune originali chiavi di lettura correlate alla teoria del cinema pasoliniana e alla ‘tensione figurale’ dei personaggi. 

Franco Citti was one of the most identifying actor of Pasolini’s cinema, from Accattone (1961) and Mamma Roma (1962) to Edipo re (1967) and Il Decameron (1971). The contribution traces Citti’s film roles along the film production of the poet-director, offering some original interpretations related to Pasolini’s theory of cinema and the ‘figural tension’ of the characters. 

E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e storicamente complesso e maturo – la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale. Tanto la mimica e la realtà bruta quanto i sogni e i meccanismi della memoria, sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pre-grammaticali e addirittura pre-morfologici (i sogni avvengono al livello dell’inconscio, e così i meccanismi mnemonici; la mimica è segno di estrema elementarità civile ecc.). Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale (Pasolini 1999b, pp. 1463-1464).

Nel suo primo intervento ufficiale sul cinema, Pasolini sottolinea la presenza di uno strato profondo, elementare, barbarico, onirico, infantile, sul quale si costruisce poi ogni film singolo con l’apparenza del racconto. Pre-grammaticale è il termine derivato dal saggio di Contini sul linguaggio pascoliano del 1955: dunque siamo già in ambito di un contesto poetico che si contrappone a una elaborazione prosastica.

Pasolini lo aveva già ampiamente affermato a proposito del suo magnifico discorso intorno alle Notti di Cabiria del 1957. L’analisi inizia dalla descrizione fisica e psichica di Fellini stesso, definito, attraverso una sequenza di metafore, una «enorme macchia», un «polipo», un’«ameba ingrandita al microscopio», un «rudere azteco», un «gatto annegato» (Pasolini 1999a, p. 700): «la forma di uomo che Fellini possiede è incessantemente pericolante: tende a risistemarsi e riassestarsi nella forma precedente che la suggerisce» (ibidem). Da questo essere metamorfico esce una non-voce, un insieme di fonemi, un incrocio di dialetti (romagnolo-romanesco) che viene ricondotto alla ‘pre-grammaticalità pascoliana’. Fellini si esprime con un pre-linguaggio.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Nel film di Fellini dedicato a Casanova convivono varie forme di intermedialità, e una pista molto precisa porta a Le avventure di Pinocchio di Collodi. Siamo inizialmente dalle parti di un’intermedialità che chiameremo ‘ristretta’, che apre differenti piste intertestuali e interdiscorsive a partire dalla sceneggiatura (almeno quella scritta da Fellini con Zapponi) fino a giungere al film. Il Casanova di Federico Fellini (1976) sottolinea fin dal titolo una lettura singolare e tendenziosa dei Mémoires di Giacomo Casanova, con i titoli di testa che danno una prima lista di indizi intertestuali, indicando i ‘testi d’autore’ che appaiono nel film. Vi troviamo: stralci dai versi di Andrea Zanzotto per le poesie in veneto e le melodie cantate dalla donna gigante (da Filò); stralci dai versi di Tonino Guerra per ‘La grande Mouna’ (da Cantèda Vintiquàtar); una pièce di Antonio Amurri, La mantide religiosa, interpretata nel film da Daniel Emilfork; una cantata di Carl A. Walken, Il cacciatore di Württemberg; la musica di Nino Rota; infine i disegni di Roland Topor, di cui parleremo.

Come già in sceneggiatura, il film cita direttamente le Rime di Tasso e Il Canzoniere di Petrarca, l’Orlando furioso di Ariosto, ma apre continue allusioni e rimandi a Dante, e soprattutto a Le avventure di Pinocchio. Rispetto alla pista dantesca ricordiamo soltanto, con Brunetta, che «tutta l'opera di Fellini, da quella di sceneggiatore fino agli ultimi progetti non realizzati, si sviluppa sotto il segno di Dante e della Divina Commedia» (Brunetta, 1996, p. 21). Il Giacomo Casanova raccontato da Fellini in effetti entra ed esce da paradisi e inferni, non solo dei poveri ma anche dei ricchi: non è però un Pierrot lunare come in altri film di Fellini, ma un vitalista e un edonista, che ama la bellezza soprattutto femminile (come è noto, in una scena poi censurata del film, ha anche un’avventura omosessuale). Casanova di Fellini è un truffatore e un libertino, che però tiene alla benevolenza papale; un letterato fattosi dal nulla, senza censo né denaro, che cerca occasioni e protettori in un ruolo sociale diventato via via sempre più marginale e umiliante. Sulla stretta relazione tra Casanova e Pinocchio ritorna con insistenza lo stesso Fellini, che definisce il film «la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un ‘italiano’ imprigionato nel ventre della madre [preso] a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto» (Fellini, 1980, p. 176).

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

 

«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute... per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».

Laura Betti

 

 

Laura Betti ha attraversato con «ferocia felina» (Risset 2006, p. 9) la storia culturale del secondo dopoguerra, disegnando una parabola per certi aspetti inedita, scandita da un invincibile fuoco espressivo (si pensi all’epiteto bretoniano «Laura calamitante») e da un dirompente gioco a nascondere. L’unicità del suo stile si misura a partire dalla capacità di intrecciare generi e linguaggi – cabaret, canzone, teatro, cinema, rivista – secondo un disegno anarchico che si preciserà via via grazie soprattutto all’incontro con Pier Paolo Pasolini («Fino ad allora, la mia vita non era stata altro che un’abitudine. Lui è diventato la mia vita»), di cui nel tempo diventerà musa e custode.

La fibra passionale del suo temperamento e la scelta di ruoli e codici spesso ibridi, fuori dai canoni, hanno reso problematico l’inquadramento di Betti dentro i binari del divismo italiano e soprattutto hanno condizionato l’indagine sul suo alfabeto d’attrice: pur essendoci diversi dossier a lei dedicati, manca uno studio sistematico del suo «idioletto» (Naremore 1990) e spesso la lettura dei suoi «segni di performance» (Dyer 2009) rimane schiacciata da ipoteche biografiche o aneddotiche.

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Care amiche, cari amici di «Arabeschi»,

ho pensato a lungo alla vostra proposta e alla fine ho deciso di mandarvi quattro fotografie di pagine di poesia. Proprio così: ho riprodotto quattro pagine del libro di Pasolini che mi è più caro, pagine un po’ ingiallite, che la riproduzione restituisce nella materialità della grana della carta, delle pieghe e degli svolazzi, con le mie sottolineature e qualche nota a margine.

Alcune righe di giustificazione, ve le devo.

In nessun luogo come nella poesia vedo manifestarsi in modo così netto la facoltà di Pasolini di ‘vedere le cose’ e di essere ‘visionario’: da qui, e non da altro, viene quello che avete chiamato il suo «spiccato interesse per la dimensione visuale».

In una nota (1962) in margine a La rabbia, riprodotta in Le regole di un’illusione, Pasolini dichiara:

C’è quindi in Pasolini, fin dai primi anni della sua attività cinematografica, la coscienza che essa si colloca nell’alveo della sua esperienza poetica.

Ricordo quello che Moravia disse, subito dopo la morte dell’amico: hanno ammazzato un poeta (cito a memoria). Non ha detto un intellettuale, un regista, un polemista. Ha detto un poeta.

Si impoverisce la portata di tutto quello che Pasolini ha fatto nella critica, nel romanzo, nel cinema e nel giornalismo se non si parte dal suo modo originario di esprimersi nella poesia, di vedere attraverso lo sguardo della poesia. Ho messo in quest’ordine i generi nei quali si è espressa l’attività artistica e intellettuale di Pasolini perché, secondo una scala di valore e importanza, io metto al primo posto la poesia e, di seguito, la critica letteraria, il romanzo, il cinema e, infine, il giornalismo.

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L’articolo analizza i rapporti tra il mondo cattolico e la censura del cinema osceno nei primi due decenni dell’Italia repubblicana. Dopo aver sottolineato l’importanza che il tema ha rivestito per il mondo cattolico, ricostruisce attraverso documentazione d’archivio inedita l’azione censoria messa in atto dai cattolici nel contesto della censura amministrativa statale e nell’ambito della revisione dei film da essi operata per le sale parrocchiali.

The article deals with the relationship between the Catholic world and the censorship of the obscene movie in Italy during the first two decades of Italian Republic. It stresses the importance that the theme of obscenity has had for the Italian Catholics, and then it sheds light on censorship exercised by Catholics on the one hand in the context of the State Censorship Office and on the other reviewing movies for the church halls. 

1. Il tema dell’osceno

Alla fine del 1961 (nel bel mezzo del dibattito intorno alla nuova legge sul cinema) viene pubblicato La porpora e il nero nel quale Aristarco mette a punto un argomento polemico cui Brunetta darà quindici anni dopo dignità scientifica: «si punisce Rocco e L’avventura mentre si lascia libero corso a tanti altri film non solo d’ignobile livello artistico, ma, questi sì, profondamente volgari, immorali, allusivamente lascivi, diseducatori»;[1] o ancora: «come mai si prendono provvedimenti […] contro film artistici» e «si indulge nei confronti di film pornografici?».[2]

Nel 1976, in uno dei primi scritti di Brunetta sui cattolici e il cinema, viene ripresa e approfondita questa tesi, che ha influenzato in profondità gli studi sulla censura cattolica dell’osceno. Sulla scia di Aristarco, anche Brunetta ritiene infatti la censura dell’osceno pretestuosa riconoscendo le reali intenzioni della macchina censoria cattolica nella difesa dal film politico: «La crociata in difesa della morale, l’allineamento ai programmi della Legion of Decency […] tradiscono […] altre intenzioni, tra cui […] proteggersi dalle aggressioni del film bolscevico».[3]

Nel 2001, in uno studio per molti aspetti ingenuo ma dalla collocazione prestigiosa, indicativo dello stato dell’arte, Franco Vigni rispolvera la vecchia tesi secondo cui è «impercettibile e labile […] la linea di confine tra la (presunta) difesa della morale e della pubblica decenza e il fine politico e ideologico, che sovente si confondono».[4]

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Le premier photo-ciné-roman publié en Italie est Il brigante Musolino (1950) de Mario Camerini, qui paraît dans la collection Super Cinema le 10 décembre 1950. La production atteindra son point culminant en 1954, mais le succès sera aussi intense que de courte durée: déjà dès 1956 les éditeurs seront obligés de déplacer leur production vers la France.

En raison des liens entre éditeurs et sociétés de production cinématographique, mais aussi à cause problèmes de regroupements obligatoires, les collections des ciné-photos-romans, souvent spécialisées en termes de genres, présenteront une grande diversité interne. Le critère de sélection n'est pas la ‘politique des auteurs’, mais la ‘politique des acteurs’ (et parfois celle des genres). Les films novellisés le sont parce qu’ils sont populaires: soit parce qu’ils ont eu du succès, soit parce qu’ils sont conçus pour un public populaire. Les rencontres entre mélodrame et cinéma débouchent parfois sur des solutions peu habituelles. Une chose en effet est d’adapter Mario Costa ou Luigi Capuano, une tout autre, d’adapter Antonioni, Fellini ou Bergman.

Lorsque le film adapté ne relève pas directement du Néo-réalisme, le résultat tient du super-mélodrame, enfermé dans les thèmes et les personnages typiques du genre. Les redites sempiternelles entraînent des répétitions à deux niveaux: celui du mélodrame même (amours interdits, coups de théâtre, enfants illégitimes, expiations, etc.) et celui du code propre au plus populaire des réalisateurs du genre, Raffaello Materazza (phrases et expressions toutes faites, noms et situations des personnages, cadrage, costumes etc.). Cette accumulation de citations intertextuelles suppose un public capable de déchiffrer le moindre détail du code, mais surtout la parfaite coïncidence des intentions stylistiques du metteur en scène, de la mémoire narrative du public et de la restriction du film aux seuls éléments essentiels, tant narratifs que pragmatiques, du récit. Au niveau verbal, le recours à l’épithète et à l’adjectif stéréotypé qui dévoilent tout de suite le rôle du personnage se surajoute encore à la logique binaire caractéristique du mélodrame.

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La nostra considerazione del fotoromanzo è viziata dalla pregiudizievole e snobistica designazione di un genere popolare, paraletterario, legato ad un pubblico connotato in modo netto in termini socioculturali. La nostra idea è legata ad una serie di luoghi comuni: il fotoromanzo sarebbe una sorta di fumetto, ma con delle foto; le sue storie sono quelle che troviamo nella letteratura rosa; il suo pubblico sembra essere quello femminile; la presenza infine di qualche variante a vocazione essenzialmente parodica non cambia di una virgola il carattere fisso di un genere non molto mutato dalla sua introduzione alla fine del secondo dopoguerra. Questa mostra virtuale, costituita da un ampio saggio introduttivo e da una serie di percorsi tematici e storici, ricostruisce la genesi del fotoromanzo dalle origini ai suoi sviluppi più recenti, lascia emergere l’influenza di format iconotestuali affini e consente così di superare pregiudizi e luoghi comuni, restituendo al lettore/visitatore la possibilità di cogliere il valore storico e culturale di una narrazione che ha nutrito l’immaginario di una parte significativa della società occidentale.

1. Le grand inconnu de l’histoire de la photographie

Que savons-nous, au fond, du roman-photo? Sans doute ‘trop’, car n’importe quel lecteur a bien une idée et surtout un avis, négatif bien entendu, sur ce genre très singulier. Mais sans doute aussi ‘pas assez’, car ces idées et ces avis se résument facilement en quelques lieux communs, qui ne cessent d’être ressassés depuis plus d’un demi-siècle: le roman-photo passe pour être une sorte de bande dessinée, mais avec des images; ses histoires sont celles que l’en retrouve dans la littérature à l’eau de rose; son public semble féminin; et l’existence de quelques variantes à vocation essentiellement parodique ne change rien au caractère figé d’un genre qui n’a guère changé depuis son introduction dans l’immédiat après-guerre.

Comme beaucoup d’autres genres de la culture populaire ou médiatique, le roman-photo ne souffre pas seulement d’un manque de reconnaissance. Il est surtout très mal connu. Et comme souvent, ceci est lié à cela et inversement: le peu de chose qu’on sait du genre tend non seulement à le faire mépriser, mais empêche aussi qu’on se penche de plus près sur son histoire et ses formes plus ou moins alternatives, en tout cas plus riches que les stéréotypes ayant cours, ce qui renforce encore le manque de prestige qui colle au roman-photo comme une seconde peau. La phrase la plus citée sur le roman-photo reste donc, paradoxalement, celle de Roland Barthes, auteur en général peu suspect du renforcement des hiérarchies entre culture légitime et culture populaire:

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