1. Il tema dell’osceno
Alla fine del 1961 (nel bel mezzo del dibattito intorno alla nuova legge sul cinema) viene pubblicato La porpora e il nero nel quale Aristarco mette a punto un argomento polemico cui Brunetta darà quindici anni dopo dignità scientifica: «si punisce Rocco e L’avventura mentre si lascia libero corso a tanti altri film non solo d’ignobile livello artistico, ma, questi sì, profondamente volgari, immorali, allusivamente lascivi, diseducatori»;[1] o ancora: «come mai si prendono provvedimenti […] contro film artistici» e «si indulge nei confronti di film pornografici?».[2]
Nel 1976, in uno dei primi scritti di Brunetta sui cattolici e il cinema, viene ripresa e approfondita questa tesi, che ha influenzato in profondità gli studi sulla censura cattolica dell’osceno. Sulla scia di Aristarco, anche Brunetta ritiene infatti la censura dell’osceno pretestuosa riconoscendo le reali intenzioni della macchina censoria cattolica nella difesa dal film politico: «La crociata in difesa della morale, l’allineamento ai programmi della Legion of Decency […] tradiscono […] altre intenzioni, tra cui […] proteggersi dalle aggressioni del film bolscevico».[3]
Nel 2001, in uno studio per molti aspetti ingenuo ma dalla collocazione prestigiosa, indicativo dello stato dell’arte, Franco Vigni rispolvera la vecchia tesi secondo cui è «impercettibile e labile […] la linea di confine tra la (presunta) difesa della morale e della pubblica decenza e il fine politico e ideologico, che sovente si confondono».[4]
1961, 1976, 2001: la tesi è sempre quella. Ma se è vero che negli anni di Andreotti la censura del film politico era più solerte della censura dell’osceno è altrettanto vero che quelli erano anni in cui, per ovvie ragioni di contesto storico, il primo problema si poneva con una urgenza straordinaria.[5] Non dobbiamo inoltre dimenticare che, nel 1953, Andreotti viene sostituito proprio perché l’ordine di importanza tra le due problematiche (quella politica e quella sessuale) si è nel frattempo invertito. I suoi diari sono al riguardo espliciti: «attacco fatto da Scalfaro ieri in Direttivo secondo cui io non dovrei più occuparmi di spettacolo, essendo inidoneo a infrenarne le immoralità».[6] E sarà proprio Scalfaro, dopo una parentesi di pochi mesi in cui lo spettacolo è affidato prima a Teodoro Bubbio e poi a Giuseppe Ermini, ad assumersi la responsabilità di «infrenare l’immoralità», ormai dilagante, del cinema italiano.
I tre studi citati (emblematici di una continuità storiografica che dagli anni ’60 giunge fino alla recente Storia del cinema italiano Marsilio/Bianco & Nero) mi pare guardino al cattolicesimo senza avere compreso che per quel mondo (a loro lontano per cultura e ideologia) la coscia e la scollatura rappresentano un problema reale. Ricordiamoci che l’ambizioso progetto politico perseguito da Andreotti e Morlion di rifondare il neorealismo con i film religiosi di Rossellini si scontra con le preoccupazioni di Pio XII, ossessionato da una foto di Morlion disinvoltamente esposto al décolleté della Magnani. Come ho già avuto modo di mettere in luce, è a causa di questa foto che Pio XII nega a Morlion il permesso di tornare a Venezia da giurato nel 1949 e nel 1950.[7] Il seno della Magnani è insomma per Pio XII un problema tanto quanto il comunismo. Per certi versi è un problema ancora più grave: certamente più radicato, affondando le proprie radici in una tradizione secolare, di quello politico tuttosommato recente. Per intenderne le origini occorre risalire almeno fino ad Agostino, e forse spingersi ancora più indietro: alle prime comunità monastiche e ai dibattiti sulla verginità in partu e post partum di Maria, avviati nei primi secoli di cristianesimo e rilanciati da Pio XII con l’ultimo dei quattro dogmi mariani, proprio in quel 1950 in cui vengono impostate le basi della politica dei cattolici nel mondo del cinema mentre Morlion insiste (inutilmente) per sedere tra i giurati della Mostra di Venezia.
Si rende quindi anzitutto necessario restituire dignità al tema dell’osceno. Esso non è stato un pretesto, che la storia progressiva ha ormai svuotato di importanza: è stato e tutt’oggi è un tema da prendere sul serio, non meno importante, per i soggetti in gioco, della censura politica. Cosa significa prendere sul serio questo tema? Significa anche andare oltre banalità del tipo «come erano retrivi questi cattolici» e chiederci, a partire dall’immagine censurata: cosa realmente si temeva di quell’immagine e cosa ha liberato una volta sfuggita al controllo? Insomma, che ruolo ha giocato quell’immagine in quel mondo?
L’assoluta centralità del tema dell’osceno nelle riflessioni e nelle preoccupazioni dei cattolici impegnati nell’ambito dello spettacolo è ampiamente documentabile. Mi limiterò qui a un paio di esempi. Ciò che si teme è lo «spettacolo che ammanti il male di apparenze allettanti».[8] E il male più temuto è proprio quello attinente alla sfera del sesso.
Ancora negli anni ’40 il cinema è considerato come l’unico svago in grado di distogliere dal «divertimento più pericoloso […] e cioè quello del ballo».[9] A scrivere è un preoccupato «parroco di montagna» che nel 1947 chiede aiuto a Schuster per aprire un cinema con il preciso scopo di diminuire il tasso erotico dei divertimenti delle anime a lui affidate. Siamo però ancora in un momento in cui l’immagine oscena occupa sugli schermi dei cinema italiani uno spazio marginale, al punto che si pensa al cinema per ricondurre sotto controllo gli istinti liberati dal ballo.
Ben diversa la situazione che si presenta a metà anni ’60 quando Francesco Angelicchio (l’allora Consulente Ecclesiastico dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali in seno alla CEI) avvia una consultazione con lo scopo di riformare l’istituto della revisione cinematografica. Tra gli altri, viene chiesto un parere anche a Ferdinando Lambruschini, allora docente di Teologia morale alla Lateranense e futuro arcivescovo di Perugia, il quale ritiene che ai film dichiarati «esclusi» si debba applicare «la clausola tradizionale nei Dicasteri della S. Sede nel concedere la facoltà di leggere i libri proibiti, la quale pur nella concessione più ampia, esclude sempre e per tutti in nome del diritto naturale e rivelato i libri “ex professo” osceni oppure sconvolgenti la fede e i costumi».[10] Le liste dei film esclusi sono qui equiparate alle liste dei libri proibiti. Come si fa da secoli per i libri proibiti si potranno concedere ampie deroghe ma non per i testi osceni che si configurano pertanto come tra i più pericolosi.
Fatta chiarezza sull’importanza che riveste per i cattolici il tema dell’osceno, affronterò ora alcuni aspetti della loro azione in tale ambito, soffermandomi su due punti: i cattolici e la censura amministrativa; la revisione cinematografica cattolica.
2. I cattolici e la censura amministrativa
Occorre tener presente che alla fine degli anni ’50 i cattolici perdono il controllo assoluto sullo spettacolo di cui hanno goduto da Andreotti in poi. Ciò accade nel luglio del 1958, quando Fanfani nomina sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo il socialdemocratico Egidio Ariosto. Le associazioni cattoliche operanti nel settore, con l’Azione Cattolica di Gedda in testa, fanno di tutto per impedire quella che viene avvertita come una svolta traumatica. Il 23 giugno 1958 il Presidente dell’ACEC, Francesco Dalla Zuanna, è raggiunto da queste allarmanti informazioni:
A quanto mi ha detto Mons. Galletto, lo on. Ariosto ha posto decisamente la sua candidatura, e sembra con buone probabilità di successo in quanto la DC, per non cedere il settore della Pubblica Istruzione, accetterà forse la richiesta per quello dello Spettacolo. Siamo cioè arrivati al punto che abbiamo sempre paventato: il baratto. In via riservata, Mons. Galletto mi ha informato di un passo compiuto “sua sponte” dal prof. Gedda presso la Segreteria di Stato perché il settore non sia assegnato ad un socialdemocratico […]. Lonero mi ha chiesto il nostro orientamento in merito. L’ho informato della Sua intenzione di scrivere al riguardo all’on. Gui.[11]
Il giorno dopo Dalla Zuanna scrive a Luigi Gui, allora capogruppo DC alla Camera, ricordandogli la «grande importanza […] che riveste quel Sottosegretariato»:
Da qualche anno il mondo marxista in generale e il [Partito Socialista Democratico Italiano] PSDI (pure marxista) in particolare, ha cercato di avere in mano questo importante e delicato settore: per fortuna non vi è riuscito. […] Siamo, caro Gino, in un momento di estremo interesse per lo Spettacolo: infatti dovranno essere subito messi i ferri a fuoco per il rinnovo di tutta la Legislazione Cinematografica (Legge Generale e Censura): tu ti rendi certo conto quanto necessario sia, soprattutto per questo motivo non barattare un settore così delicato in un momento di così grave interesse.[12]
Ma questa volta, come dovrà ammettere lo stesso Gui rispondendo all’amico monsignore, «ragioni di ancora maggior peso»[13] fanno sì che abbia termine il monopolio cattolico sullo spettacolo e spingono la storia dei rapporti tra le istituzioni repubblicane e il mondo del cinema in una nuova fase.
In questa nuova fase – che vede i cattolici in una posizione di minor potere, per cui quel che prima gestivano da soli ora va negoziato – si svolge il dibattito sulla censura che approda alla nuova legge sul cinema. Rispetto alle normative precedenti, la legge del 1962, in adeguamento al dettato costituzionale rimasto fino ad allora inascoltato, riduce significativamente i poteri della censura amministrativa, circoscrivendo il suo legittimo campo d’azione. Stando alla nuova legge, infatti, le Commissioni di censura possono dare parere contrario alla proiezione in pubblico di un film «esclusivamente» ove ravvisino «offesa al buon costume», sulla base di quanto indicato dall’ultimo comma dell’art. 21 della carta costituzionale. Vale a dire che (almeno sulla carta) resta in essere solo la censura dell’osceno.
Tra le altre cose la legge del 1962 elimina la censura teatrale, passaggio vissuto con timore dal mondo cattolico, che vi vede l’inquietante preannuncio del venir meno anche della censura cinematografica. Lo si evince dal Verbale della riunione tenuta il 27-28 aprile presso la Domus Mariae a Roma della Commissione CEI per le Comunicazioni Sociali. In quell’occasione, dopo aver riferito, «nella sua qualità di presidente della Commissione nazionale di revisione, […] sulla gravità della situazione morale del cinema italiano e sulle cause che la determinano», Angelicchio «rileva che quasi certamente il Partito Socialista Italiano e tutto lo schieramento laicista, proporranno la denuncia dell’attuale ordinamento censorio chiedendo “tout court”, come già per il teatro, la completa abolizione della censura per il cinema. Occorrerà in proposito essere vigilanti e tener pronti dei controprogetti legislativi. In questa eventualità si rende necessario predisporre studi e soluzioni che tenendo conto anche di un eventuale superamento dell’attuale sistema della censura preventiva assicurino la tutela del buon costume […] per efficaci interventi della Magistratura».[14]
In realtà la nuova legge e la conseguente restrizione dell’ambito di intervento della censura amministrativa avevano indotto Angelicchio a riflettere sull’opportunità di eliminarla del tutto, per investire del suoi compiti la magistratura, fin dal 1963. Il 18 gennaio 1964 scrive al Presidente della CEI, il cardinale Giuseppe Siri, dell’«assoluta inefficacia delle disposizioni vigenti, le quali, come ben ricorderà, risultarono frutto di un compromesso politico nella stessa sede democristiana. Soprattutto la composizione delle Commissioni di revisione, con la presenza massiccia degli interessi dei produttori, […] rende purtroppo inoperante e contraddittoria l’applicazione della legge, al punto che lo stesso “buon costume” […] non viene praticamente salvaguardato neppure secondo l’accezione penalistica che restringe il giudizio alla sfera dell’osceno. Al punto in cui siamo c’è veramente da considerare l’opportunità di farci promotori di una revisione legislativa che, salvaguardando la tutela dei minori […] affidi alla Magistratura […] la protezione dell’ordine morale in materia di spettacolo, sottraendo così la censura alla competenza del potere esecutivo che si è dimostrato incapace di assicurare questa essenziale difesa, e che più facilmente è suscettibile di influsso politico e morale esterno».[15]
Viene così elaborata da parte del mondo cattolico italiano e parrebbe con l’approvazione della Segreteria di Stato una Proposta di aggiornamento della legge sulla revisione degli spettacoli cinematografici che di fatto prospetta l’eliminazione della censura sulla base di questo semplice presupposto: «Dobbiamo […] riconoscere che lo strumento censorio si è rivelato all’attuazione pratica assolutamente incapace di realizzare quei fini di prevenzione per cui era stato istituito ed ha anzi reso più difficile perfino la realizzazione del fine repressivo».[16]
Il ragionamento si sviluppa intorno a una premessa e a tre punti. La premessa è costituita dalla consapevolezza di aver perso il controllo sulla Direzione Generale dello Spettacolo e conseguentemente sull’amministrazione della censura. I tre seguenti punti sono di una logica stringente.
Punto uno: la censura ha fallito. Sono passati quattro anni da La dolce vita, lo spartiacque di questa vicenda. In quell’occasione l’innegabile statuto d’arte del film fece sì che tematiche fino ad allora escluse dalla rappresentazione fossero avallate dal visto di censura. Il film di Fellini rappresenta l’avanguardia che indica la via presto seguita dalle truppe di terra del cinema italiano, «impegnato oggi – si legge nella già citata Proposta di aggiornamento scritta dai cattolici – come non mai in una […] gara a sollecitare gli istinti più bassi dell’uomo e a rappresentare situazioni erotiche sempre più spinte».
Punto due: la censura non solo non fa quello che dovrebbe fare, ma impedisce ad altri di farlo. Secondo la Proposta di aggiornamento scritta dai cattolici «l’autorità giudiziaria ha solo eccezionalmente preso iniziative in questo campo non sentendosi, a torto o a ragione, direttamente e primariamente investita della tutela della collettività in questo settore per il fatto che altro organo pubblico creato specificamente per questa finalità operava per la tutela del buon costume».
Punto tre: «sembra pertanto utile la soppressione di un istituto che tante poche benemerenze ha da vantare ed il deferimento all’autorità giudiziaria – che dà maggiori garanzie di indipendenza, di competenza e di efficacia – dell’esame di tutte le pellicole cinematografiche per accertare se esse violino diritti fondamentali penalmente sanzionati». Si noti: di tutte le pellicole. Ciò non può che essere fatto preventivamente. La censura esce dalla porta e rientra dalla finestra, con la differenza che nella Proposta dei cattolici non sarebbe più gestita dai rappresentanti di categoria ma direttamente dai magistrati, cui il produttore dovrà inviare «una copia della pellicola 15 giorni prima della programmazione». La contraddizione di affidare un’azione di prevenzione del reato al magistrato è così sciolta: «La dottrina parla in proposito di reati a consumazione anticipata. Non è dubbio che chi produce un film lo fa al fine della diffusione, fine questo che non può essere assolutamente dubbio nel momento in cui si giunga a presentare copia d’obbligo all’ufficio del PM».
Siamo insomma di fronte alla messa in campo di una straordinaria tattica diversiva: i cattolici acconsentirebbero sostanzialmente a quanto (da tempo) chiede il fronte schierato per la libertà di espressione, ma con il fine opposto di ristabilire con nuovi mezzi un controllo che di fatto sta venendo meno. Una tattica che parrebbe dare i suoi frutti se è vero che in un documento congiunto DC-PSI firmato nell’ottobre del 1965 i due principali partiti di governo concordano sulla necessità di abolire la censura amministrativa.[17]
A parole entrambi gli schieramenti sono d’accordo per abolirla, ma nei fatti si rendono presto conto che i motivi che muovono l’avversario sono esattamente contrari ai propri. Se quindi in un primo momento c’è l’accordo per abolire la censura, ad esso fa seguito un secondo accordo per tenerla, per tenere cioè uno strumento imperfetto, non voluto da nessuno, ma tutto sommato in grado di limitare l’azione dell’avversario. Se il primo accordo, quello per eliminarla, dura una manciata di mesi, il secondo tiene (non a caso) ancora oggi. Come noto, infatti, la censura amministrativa, sebbene riformata, è ancora in vita.
Come si vede, il quadro è molto più complesso di quanto non si tenda a credere: non ci sono i buoni che difendono la libertà a sinistra e i neomedievisti a destra con in mezzo l’istituto ormai obsoleto della censura amministrativa. Capita che le posizioni tra i due schieramenti si sovrappongano tatticamente e che sia l’istituto della censura a negoziarle.[18] Se, infatti, per certi versi la censura preventiva ha dato garanzie di controllo, per altri ha di fatto mitigato l’azione repressiva. Motivo per cui alla fine è convenuto a tutti tenerla in vita. Perciò mi pare si possa sostenere che la censura amministrativa ha giocato nel nostro paese un ruolo di negoziatore del conflitto.
3. La revisione cinematografica cattolica
Il secondo orizzonte di azione dei cattolici nell’ambito della censura dell’osceno è rappresentato dalla loro revisione cinematografica, definita da alcuni come una sorta di «censura parallela».[19] Un parallelismo che a volte si fa, come vedremo, vera e propria sovrapposizione. La revisione cinematografica cattolica è infatti strettamente connessa alla censura amministrativa fin dal 1947 quando, con «provvedimento riservatissimo»[20] Andreotti autorizza la partecipazione di due rappresentanti del CCC nelle commissioni di censura amministrativa.
Una lettera scritta nel dicembre del 1947 da Ferdinando Prosperini (Consulente Ecclesiastico dell’Ente dello Spettacolo prima di Galletto) ci fornisce un termine post quem per collocare l’avvio di una pratica che, tra l’altro, spiega come, da questo momento, il CCC riuscisse a revisionare per tempo la gran parte dei film distribuiti in Italia: «finalmente una buona notizia: proprio oggi (ma non la lasci trapelare, se no qualcuno ci mette i classici pali fra le ruote) abbiamo concluso con la Direzione Generale della Cinematografia […] per la nostra partecipazione alle sedute (cioè alle visioni) della Commissione Ministeriale di Censura, come spettatori. […] È veramente un successo».[21]
Quando Angelicchio è nominato consulente ecclesiastico dell’Ente dello Spettacolo chiede al suo predecessore un parere in relazione ai compiti che gli stono stati assegnati. Nel rispondergli Galletto svela «il funzionamento della Commissione di revisione durante i 12 anni della mia Consulenza Ecclesiastica all’Ente dello Spettacolo».[22] Ebbene in questo documento non solo si vengono a conoscere le precise clausole dell’accordo tra Andreotti e il CCC ma si comprende anche il motivo per cui ad un certo punto diviene necessario distinguere tra revisione preventiva e revisione definitiva:
Tutti i film destinati alle pubbliche sale venivano anzitutto visionati in sede di censura governativa (per cortese concessione del competente Ministero) da Commissari laici (normalmente due). Si tratta di una situazione di privilegio (anche se non strettamente legale) rispetto agli altri paesi; situazione che consente di reperire alla fonte tutti i film, prima che siano messi in programmazione. I Commissari laici, dopo la visione di un film, dovevano comunicare subito per telefono alla Segreteria della Commissione di revisione il giudizio preventivo (e cioè orientativo) da loro dato. Entro tre giorni dovevano inviare una relazione con la trama del film, la valutazione estetica e quella morale, scritta su apposito formulario. I film visionati al Ministero venivano quindi richiesti alla rispettive Case Cinematografiche e revisionati collegialmente nella saletta del CCC dai Membri Ecclesiastici.[23]
C’è insomma una chiara divisione dei ruoli. La revisione vera e propria è effettuata dai ‘membri ecclesiastici’, il giudizio dei laici è considerato in ogni caso solo orientativo e sempre bisognoso di essere convalidato (o meno) dal clero.
Si capisce cosa accadde concretamente in occasione de La dolce vita: i membri laici vedono il film con i commissari della censura amministrativa e lo dichiarano «sconsigliato» (ma non «escluso»). Tra la visione dei membri laici e la pubblicazione del giudizio definitivo si collocano le lettere con cui sia Montini sia Siri chiedono a Galletto di modificare il giudizio preventivo sul film: che diviene da sconsigliato a escluso.[24]
Se è vero che nel caso de La dolce vita i due commissari laici del CCC possono essere stati in un qualche modo influenzati nel loro giudizio da quello espresso dalla commissione di censura amministrativa che li ospitava (in un clima che non posso non pensare amicale, di condivisione di prospettive e sensibilità), è anche possibile il contrario: che in molti casi il giudizio dei commissari del CCC possa aver influito su quello delle commissioni di censura amministrativa. Mi pare questo un nodo da indagare, individuando un corpus di casi in cui lo scambio possa essere avvenuto, in una direzione come nell’altra.
Dando notizia a Montini di questo «provvedimento riservatissimo», Andreotti precisa:
Ho autorizzato (con provvedimento riservatissimo, e noto solo ai più fidati dirigenti dei competenti uffici) la costante partecipazione di due rappresentanti del Centro Cattolico Cinematografico a tutti i lavori delle Commissioni di revisione, con la esplicita intesa che, pur non potendo essi esercitare un diritto di voto, il loro parere sarebbe stato tenuto nella debita considerazione; e comunque essi possono informare lo scrivente ogni qualvolta stia per essere adottata una decisione che non sembri moralmente soddisfacente.[25]
Viene da chiedersi fino a che punto tale provvedimento potesse restare riservato: possibile che i membri delle commissioni ne fossero all’oscuro? Fino a che punto possiamo immaginare si sia spinta la politica dell’invisibilità che, come noto, ha caratterizzato il sottosegretariato di Andreotti?
Secondo Luigi Chiarini, Andreotti «pur dirigendo nei più minuti particolari la politica cinematografica, ha rappresentato per il mondo del cinema il grande Invisibile, l’Autorità, l’Alto, una potenza, insomma, molto al di sopra delle misere e terrene beghe cinematografiche, che faceva rare apparizioni in specialissime occasioni».[26] Non diversamente Lorenzo Quaglietti sottolinea come Andreotti usi muoversi dietro le quinte potendo fare affidamento su uomini da lui stesso collocati in posizioni di potere.[27] Un documento conservato all’ACEC sembra confermare un simile ritratto, consentendo di ipotizzare che perfino i membri della commissione di revisione potessero essere all’oscuro di quanto gli alti funzionari andreottiani tramassero insieme ai cattolici del CCC intrufolatisi nella saletta di proiezione della Censura Amministrativa. Il documento dà conto di accordi presi tra i dirigenti dei cattolici impegnati nel mondo del cinema e il segretario di Andreotti alla Direzione dello Spettacolo. L’estensore del documento, senza dubbio appartenente al succitato gruppo dirigente, sotto la voce «Segnalazioni – Commissioni di censura» annota: «Ad evitare che la commissione ministeriale di Censura esprima parere favorevole su pellicole moralmente negative, sarà opportuno che gli osservatori del CCC facciano conoscere tempestivamente e riservatamente al Dr. Del Ciglio il loro parere contrario, in modo che la commissione possa essere chiamata ad una più attenta revisione e valutazione della pellicola incriminata».[28] I commissari del CCC, dovessero trovarsi in disaccordo con il giudizio della commissione di censura amministrativa, devono guardarsi bene dall’esternare tale disaccordo se non, in privata sede, a Del Ciglio che richiamerà la commissione perché riformuli il suo giudizio in senso restrittivo.
La revisione cinematografica dei cattolici appare insomma come qualcosa di ancor più invasivo che non una semplice censura parallela: dai documenti citati sembra in un qualche modo incunearsi nella stessa censura amministrativa, influenzandola subdolamente quanto concretamente.
4. Conclusioni
Secondo Guido Piovene «una caratteristica che distingue le società veramente democratiche dalle altre è che nelle prime, a un certo punto, si diventa adulti e nelle seconde non si diventa adulti mai».[29] Due fattori almeno, che affondano nei secoli, contribuiscono a consolidare nelle gerarchie ecclesiastiche il sospetto che il gregge loro affidato non diventerà mai adulto.
In primo luogo agisce l’ideologia del peccato originale, che di fatto mina alla radice la possibilità di una vita pienamente autonoma e autodeterminata: la condizione dell’uomo è compromessa fin dall’inizio, è quella di chi è caduto.
In secondo luogo appare determinante la separazione tra chierici e laici. Il fatto che i secondi fossero affidati ai primi in una rigida scala gerarchica ha fatto in modo che si diffondesse (soprattutto tra i vertici, ma non solo) l’idea che la divisione dei ruoli all’interno della Chiesa si giustificasse non solo per una differenza di carismi e servizi ma anche per una differenza di maturità: il laico (soprattutto negli anni ’40 e ’50, ma anche successivamente e nonostante il Concilio Vaticano II), anche se adulto, necessita di essere istruito, educato, guidato, protetto.
* La presente ricerca nasce nell’ambito di un programma PRIN (coordinato da Tomaso Subini) sui rapporti tra i cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70. Il progetto ruota intorno a un cospicuo corpus di documenti, selezionati, digitalizzati, catalogati sulla base delle finalità del progetto e messi in rete tramite un database disponibile (con accredito) all’indirizzo http://users.unimi.it/cattoliciecinema. In tale database sono consultabili anche molti dei documenti citati in questo saggio: di essi si dà oltre alla segnatura di origine (ove esistente, visto che in molti casi si tratta di documenti accatastati e mai realmente archiviati) anche quella, segnalata tra parentesi in coda alla nota, con cui si conservano nel database del PRIN.
1 G. Aristarco, ‘Nota introduttiva’ a La porpora e il nero, Milano, Edizioni di Cinema Nuovo, 1961, p. 12.
2 Ibidem.
3 G.P. Brunetta, ‘Quando il censore cattolico criticava Tarzan e Charlot’, la Repubblica, 26 febbraio 1976.
4 F. Vigni, ‘La censura’, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X – 1960/1964, Venezia-Roma, Marsilio / Edizioni di Bianco & Nero, 2001, p. 520.
5 Va precisato che Andreotti ha sempre ritenuto più pericoloso il film che incita alla lotta sociale di quello che scopre qualche centimetro di coscia: «Del resto – e ebbi polemiche in casa nostra – io ero e sono più preoccupato della violenza e della cattiveria, che non di una certa larghezza di vedute in tema… sentimentale, per così dire» (G. Andreotti, ‘Intervista all’ex sottosegretario Giulio Andreotti’, in A. Farassino (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, Torino, EDT, 1989, p. 77). Sulla questione si veda anche G. Andreotti, ‘Il cinema italiano non è comunista’, Oggi, VIII, 42, 16 ottobre 1952, p. 4.
6 G. Andreotti, 1953. Fu legge truffa?, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 137-138. Cfr. anche ivi, p. 161. In seguito a tale attacco Andreotti, pur confermato Sottosegretario, nel governo Pella cede lo spettacolo, suo malgrado, a Teodoro Bubbio (ivi, pp. 198-200).
7 Cfr. T. Subini, La doppia vita di Francesco giullare di Dio. Giulio Andreotti, Félix Morlion e Roberto Rossellini, Milano, Libraccio, 2011; seconda edizione accresciuta 2013, pp. 176-183, la foto è riprodotta a p. 308.
8 F. Angelicchio, Lettera a Italo Gemini, 21 aprile 1962 (ACEC 489).
9 V. Ancini, Lettera a Ildefonso Schuster, 1 giugno 1947, Archivio Storico della Diocesi di Milano, Fondo Schuster, 8469 (ASDMI 16).
10 F. Lambruschini, studio allegato a Francesco Angelicchio, lettera a Membri della Commissione Nazionale di Revisione, 9 febbraio 1963 (ACEC 483). Lambruschini precisa inoltre la necessità di «dichiarare normativa e assoluta la classifica data dal CCC […] in modo che la violazione di essa costituisca [nel senso di ponga] lo spettatore in stato di peccato mortale o di coscienza lassa da illuminare da parte dei confessori».
11 S. Battisti, Lettera a Francesco Dalla Zuanna, 23 giugno 1958 (ACEC 612).
12 F. Dalla Zuanna, Lettera a Luigi Gui, 24 giugno 1958 (ACEC 613).
13 L. Gui, Lettera a Francesco Dalla Zuanna, 23 luglio 1958 (ACEC 614).
14 Commissione CEI per le Comunicazioni Sociali, Verbale della riunione tenuta il 27-28 aprile [1965] presso la Domus Mariae a Roma (ACEC 984).
15 F. Angelicchio, Lettera a Giuseppe Siri, 18 gennaio 1964 (ACEI 173).
16 Progetto allegato a Angelo Dell'Acqua, lettera a Francesco Angelicchio, 22 aprile 1964 (ACEI 55 / ACEC 152).
17 Documento concordato da esponenti della DC e del PSI il 22 ottobre 1965 (ACEC 502).
18 Del resto la censura nasce nel secondo decennio del ’900 su richiesta dei produttori che intendono in questo modo sfuggire alla discrezionalità dell’azione di prefetti e questori.
19 G. Manzoli, ‘La censura parallela. Il Centro Cattolico Cinematografico’, in T. Saguineti (a cura di), Italia Taglia, Ancona-Milano, Editori Associati, 1999, p. 233.
20 G. Andreotti, Lettera a Giovanni Battista Montini, 9 novembre 1948, in Archivio Giulio Andreotti, Serie Vaticano, fascicolo Rapporti con S. Sede, busta 178.
21 F. Prosperini, Lettera a Francesco Dalla Zuanna, 5 dicembre 1947, in ISACEM, Fondo Prosperini, busta 1, fascicolo 5, 1947 (ISACEM 98).
22 A. Galletto, lettera a Francesco Angelicchio, 1961 (ACEC 176).
23 Ibidem.
24 Poco dopo l’Ufficio Stampa del Centro Cattolico Cinematografico dirama il comunicato che segnala la classificazione definitiva del film, giustificando il giudizio così: «Constatiamo che ne La dolce vita non c’è speranza, non rimorso, non possibilità di redenzione». Rispondendo a Montini, Galletto allega il comunicato e una lettera a giustifica della condotta del Centro Cattolico Cinematografico: «[…] da informazioni sicure mi risultava che il film era stato visionato da un gruppo di Padri Gesuiti (erano certamente presenti anche rappresentanti del S. Fedele) e che era stato giudicato perlomeno non negativo. S’aggiunga che avevo saputo che il film sarebbe stato proiettato in serata di gala, presenti molti membri del Governo, i Presidenti delle Camere ecc., il che avvenne. Il giudizio preventivo e provvisorio “sconsigliato” sembrava del resto sufficientemente cautelativo ai fini di una immediata segnalazione, che deve essere tempestiva, ma che non può essere sempre sufficientemente meditata» (Archivio Storico della Diocesi di Milano, Fondo Montini, Serie prima, cartella 257, fascicolo 17, carta 55). I principali quotidiani italiani pubblicano la notizia dell’aggravata classificazione tra il 9 e il 10 febbraio: cfr., tra gli altri, [Redazionale], ‘La dolce vita divide in due fazioni i giornali cattolici’, Paese Sera, 9-10 febbraio 1960. Sul caso de La dolce vita cfr. T. Subini, ‘L’arcivescovo di Milano e La dolce vita’, Bianco e Nero, LXXI, 567, maggio-agosto 2010, pp. 33-43.
25 G. Andreotti, Lettera a Giovanni Battista Montini, 9 novembre 1948, in Archivio Giulio Andreotti, Serie Vaticano, fascicolo Rapporti con S. Sede, busta 178.
26 L. Chiarini, Cinema quinto potere, Bari, Laterza, 1954, p. 84.
27 L. Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano 1945-1980, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 52 ss.
28 Risultati dell’incontro col dr. Del Ciglio, 9 novembre 1948 (ACEC 756)
29 G. Piovene, ‘Uno strumento di restaurazione politica’, in La porpora e il nero, p. 32.