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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

 

«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute... per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».

Laura Betti

 

 

Laura Betti ha attraversato con «ferocia felina» (Risset 2006, p. 9) la storia culturale del secondo dopoguerra, disegnando una parabola per certi aspetti inedita, scandita da un invincibile fuoco espressivo (si pensi all’epiteto bretoniano «Laura calamitante») e da un dirompente gioco a nascondere. L’unicità del suo stile si misura a partire dalla capacità di intrecciare generi e linguaggi – cabaret, canzone, teatro, cinema, rivista – secondo un disegno anarchico che si preciserà via via grazie soprattutto all’incontro con Pier Paolo Pasolini («Fino ad allora, la mia vita non era stata altro che un’abitudine. Lui è diventato la mia vita»), di cui nel tempo diventerà musa e custode.

La fibra passionale del suo temperamento e la scelta di ruoli e codici spesso ibridi, fuori dai canoni, hanno reso problematico l’inquadramento di Betti dentro i binari del divismo italiano e soprattutto hanno condizionato l’indagine sul suo alfabeto d’attrice: pur essendoci diversi dossier a lei dedicati, manca uno studio sistematico del suo «idioletto» (Naremore 1990) e spesso la lettura dei suoi «segni di performance» (Dyer 2009) rimane schiacciata da ipoteche biografiche o aneddotiche.

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Care amiche, cari amici di «Arabeschi»,

ho pensato a lungo alla vostra proposta e alla fine ho deciso di mandarvi quattro fotografie di pagine di poesia. Proprio così: ho riprodotto quattro pagine del libro di Pasolini che mi è più caro, pagine un po’ ingiallite, che la riproduzione restituisce nella materialità della grana della carta, delle pieghe e degli svolazzi, con le mie sottolineature e qualche nota a margine.

Alcune righe di giustificazione, ve le devo.

In nessun luogo come nella poesia vedo manifestarsi in modo così netto la facoltà di Pasolini di ‘vedere le cose’ e di essere ‘visionario’: da qui, e non da altro, viene quello che avete chiamato il suo «spiccato interesse per la dimensione visuale».

In una nota (1962) in margine a La rabbia, riprodotta in Le regole di un’illusione, Pasolini dichiara:

C’è quindi in Pasolini, fin dai primi anni della sua attività cinematografica, la coscienza che essa si colloca nell’alveo della sua esperienza poetica.

Ricordo quello che Moravia disse, subito dopo la morte dell’amico: hanno ammazzato un poeta (cito a memoria). Non ha detto un intellettuale, un regista, un polemista. Ha detto un poeta.

Si impoverisce la portata di tutto quello che Pasolini ha fatto nella critica, nel romanzo, nel cinema e nel giornalismo se non si parte dal suo modo originario di esprimersi nella poesia, di vedere attraverso lo sguardo della poesia. Ho messo in quest’ordine i generi nei quali si è espressa l’attività artistica e intellettuale di Pasolini perché, secondo una scala di valore e importanza, io metto al primo posto la poesia e, di seguito, la critica letteraria, il romanzo, il cinema e, infine, il giornalismo.

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Abstract: ITA | ENG

L’articolo analizza i rapporti tra il mondo cattolico e la censura del cinema osceno nei primi due decenni dell’Italia repubblicana. Dopo aver sottolineato l’importanza che il tema ha rivestito per il mondo cattolico, ricostruisce attraverso documentazione d’archivio inedita l’azione censoria messa in atto dai cattolici nel contesto della censura amministrativa statale e nell’ambito della revisione dei film da essi operata per le sale parrocchiali.

The article deals with the relationship between the Catholic world and the censorship of the obscene movie in Italy during the first two decades of Italian Republic. It stresses the importance that the theme of obscenity has had for the Italian Catholics, and then it sheds light on censorship exercised by Catholics on the one hand in the context of the State Censorship Office and on the other reviewing movies for the church halls. 

1. Il tema dell’osceno

Alla fine del 1961 (nel bel mezzo del dibattito intorno alla nuova legge sul cinema) viene pubblicato La porpora e il nero nel quale Aristarco mette a punto un argomento polemico cui Brunetta darà quindici anni dopo dignità scientifica: «si punisce Rocco e L’avventura mentre si lascia libero corso a tanti altri film non solo d’ignobile livello artistico, ma, questi sì, profondamente volgari, immorali, allusivamente lascivi, diseducatori»;[1] o ancora: «come mai si prendono provvedimenti […] contro film artistici» e «si indulge nei confronti di film pornografici?».[2]

Nel 1976, in uno dei primi scritti di Brunetta sui cattolici e il cinema, viene ripresa e approfondita questa tesi, che ha influenzato in profondità gli studi sulla censura cattolica dell’osceno. Sulla scia di Aristarco, anche Brunetta ritiene infatti la censura dell’osceno pretestuosa riconoscendo le reali intenzioni della macchina censoria cattolica nella difesa dal film politico: «La crociata in difesa della morale, l’allineamento ai programmi della Legion of Decency […] tradiscono […] altre intenzioni, tra cui […] proteggersi dalle aggressioni del film bolscevico».[3]

Nel 2001, in uno studio per molti aspetti ingenuo ma dalla collocazione prestigiosa, indicativo dello stato dell’arte, Franco Vigni rispolvera la vecchia tesi secondo cui è «impercettibile e labile […] la linea di confine tra la (presunta) difesa della morale e della pubblica decenza e il fine politico e ideologico, che sovente si confondono».[4]

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Le premier photo-ciné-roman publié en Italie est Il brigante Musolino (1950) de Mario Camerini, qui paraît dans la collection Super Cinema le 10 décembre 1950. La production atteindra son point culminant en 1954, mais le succès sera aussi intense que de courte durée: déjà dès 1956 les éditeurs seront obligés de déplacer leur production vers la France.

En raison des liens entre éditeurs et sociétés de production cinématographique, mais aussi à cause problèmes de regroupements obligatoires, les collections des ciné-photos-romans, souvent spécialisées en termes de genres, présenteront une grande diversité interne. Le critère de sélection n'est pas la ‘politique des auteurs’, mais la ‘politique des acteurs’ (et parfois celle des genres). Les films novellisés le sont parce qu’ils sont populaires: soit parce qu’ils ont eu du succès, soit parce qu’ils sont conçus pour un public populaire. Les rencontres entre mélodrame et cinéma débouchent parfois sur des solutions peu habituelles. Une chose en effet est d’adapter Mario Costa ou Luigi Capuano, une tout autre, d’adapter Antonioni, Fellini ou Bergman.

Lorsque le film adapté ne relève pas directement du Néo-réalisme, le résultat tient du super-mélodrame, enfermé dans les thèmes et les personnages typiques du genre. Les redites sempiternelles entraînent des répétitions à deux niveaux: celui du mélodrame même (amours interdits, coups de théâtre, enfants illégitimes, expiations, etc.) et celui du code propre au plus populaire des réalisateurs du genre, Raffaello Materazza (phrases et expressions toutes faites, noms et situations des personnages, cadrage, costumes etc.). Cette accumulation de citations intertextuelles suppose un public capable de déchiffrer le moindre détail du code, mais surtout la parfaite coïncidence des intentions stylistiques du metteur en scène, de la mémoire narrative du public et de la restriction du film aux seuls éléments essentiels, tant narratifs que pragmatiques, du récit. Au niveau verbal, le recours à l’épithète et à l’adjectif stéréotypé qui dévoilent tout de suite le rôle du personnage se surajoute encore à la logique binaire caractéristique du mélodrame.

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La nostra considerazione del fotoromanzo è viziata dalla pregiudizievole e snobistica designazione di un genere popolare, paraletterario, legato ad un pubblico connotato in modo netto in termini socioculturali. La nostra idea è legata ad una serie di luoghi comuni: il fotoromanzo sarebbe una sorta di fumetto, ma con delle foto; le sue storie sono quelle che troviamo nella letteratura rosa; il suo pubblico sembra essere quello femminile; la presenza infine di qualche variante a vocazione essenzialmente parodica non cambia di una virgola il carattere fisso di un genere non molto mutato dalla sua introduzione alla fine del secondo dopoguerra. Questa mostra virtuale, costituita da un ampio saggio introduttivo e da una serie di percorsi tematici e storici, ricostruisce la genesi del fotoromanzo dalle origini ai suoi sviluppi più recenti, lascia emergere l’influenza di format iconotestuali affini e consente così di superare pregiudizi e luoghi comuni, restituendo al lettore/visitatore la possibilità di cogliere il valore storico e culturale di una narrazione che ha nutrito l’immaginario di una parte significativa della società occidentale.

1. Le grand inconnu de l’histoire de la photographie

Que savons-nous, au fond, du roman-photo? Sans doute ‘trop’, car n’importe quel lecteur a bien une idée et surtout un avis, négatif bien entendu, sur ce genre très singulier. Mais sans doute aussi ‘pas assez’, car ces idées et ces avis se résument facilement en quelques lieux communs, qui ne cessent d’être ressassés depuis plus d’un demi-siècle: le roman-photo passe pour être une sorte de bande dessinée, mais avec des images; ses histoires sont celles que l’en retrouve dans la littérature à l’eau de rose; son public semble féminin; et l’existence de quelques variantes à vocation essentiellement parodique ne change rien au caractère figé d’un genre qui n’a guère changé depuis son introduction dans l’immédiat après-guerre.

Comme beaucoup d’autres genres de la culture populaire ou médiatique, le roman-photo ne souffre pas seulement d’un manque de reconnaissance. Il est surtout très mal connu. Et comme souvent, ceci est lié à cela et inversement: le peu de chose qu’on sait du genre tend non seulement à le faire mépriser, mais empêche aussi qu’on se penche de plus près sur son histoire et ses formes plus ou moins alternatives, en tout cas plus riches que les stéréotypes ayant cours, ce qui renforce encore le manque de prestige qui colle au roman-photo comme une seconde peau. La phrase la plus citée sur le roman-photo reste donc, paradoxalement, celle de Roland Barthes, auteur en général peu suspect du renforcement des hiérarchies entre culture légitime et culture populaire:

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