Pur prediligendo nei suoi film un cast formato prevalentemente da attori non professionisti, Pasolini non disdegna di lavorare con i divi e le dive del grande schermo: da Anna Magnani a Orson Welles, da Totò a Silvana Mangano, da Maria Callas a Elsa de’ Giorgi, i volti e i corpi delle star sfilano accanto a quelli dei ragazzi di borgata andando a comporre quel variegato paesaggio antropologico rappresentato dalla filmografia pasoliniana. Al di là della possibile individuazione di diverse fasi che segnano lo stile della direzione attoriale del regista, per lui il lavoro con l’attore – come egli afferma nel corso di un’intervista trasmessa dalla Televisione della Svizzera Italiana il 29 aprile del 1975 mentre sta lavorando a Salò – costituisce sempre la fase della «raccolta di materiale» (Pasolini 2001, p. 3016) grezzo che prenderà forma nel corso del montaggio. È in questa prospettiva che la fugace presenza di Marilyn in una breve ma intensa sequenza de La rabbia, può essere letta, per paradosso, come un esempio particolarmente significativo della poetica attoriale pasoliniana.
L’immagine della diva che Pasolini introduce nelle maglie del suo film di montaggio è in quel momento, a pochi mesi dalla tragica conclusione della sua esistenza, al culmine del processo di iconizzazione: l’operazione seriale di Warhol, infatti, aveva trasformato il volto dell’attrice nell’emblema della mercificazione dei soggetti umani dell’epoca postmoderna, di cui le stelle del cinema rappresentano appunto il simbolo più appariscente («come Marilyn Monroe […] vengono esse stesse mercificate e trasformate nella propria immagine», Jameson 2015). Monroe diviene dunque rapidamente la personificazione di un tempo e del suo destino crepuscolare, ma sono soprattutto il suo carattere eccentrico e la sua improvvisa scomparsa a catturare l’attenzione di scrittori e intellettuali – quali appunto Pasolini – che puntano lo sguardo sulla sua personale e individuale tragica sorte.