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Questo appunto, datato giugno 1987 e icasticamente intitolato Quando prendiamo un appuntamento al buio con la consunzione, è solo uno dei tanti in cui compare il nome di Pasolini. Per Jarman il poeta bolognese rappresenta una sorta di feticcio, il modello di un’audacia letteraria ed erotica che fin dalla giovinezza assurge a paradigma, declinandosi poi in vari modi.

Provando a pedinare le diverse forme di contatto fra i due, è possibile individuare almeno tre livelli di convergenza. Il livello più immediato è quello biografico-artistico, che si traduce in una serie di analogie dai risvolti interessanti. Sul piano delle relazioni parentali di Jarman si segnala il rapporto contrastato col padre – uomo d’ordine di una severità esemplare – e di contro il rapporto privilegiato con la madre, di cui egli ammira la dedizione e il carattere. La rigidità dell’educazione ricevuta condizionerà molto l’orientamento emotivo di Jarman, come emerge da numerosi passaggi dei suoi diari in pubblico dedicati al ricordo della durezza paterna e, insieme, al rimpianto per la figura della madre. Alla luce di tale rapido quadro familiare è facile intuire le somiglianze con la vita di Pasolini, che però non si limitano al dato meramente biografico ma si traducono presto in una sorta di reciprocità di destino e di sentimenti, come lascia intendere in fondo lo stesso Jarman:

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L’immagine di Lenin sdraiato sul fieno con un filo d’erba in bocca è tratta da Rasskazy o Lenine (Racconti su Lenin, 1957) di Sergej Jutkevič, regista formatosi alla scuola di Mejerchol’d. Il fotogramma fa parte del primo dei due racconti che compongono il film sovietico, nel quale si narra della fuga di Lenin nella campagna russa ai confini con la Finlandia (Ul’janov è ricercato dai cosacchi, che hanno l’incarico di arrestarlo con l’accusa di spionaggio). Lontano dalla sua casa di Pietrogrado, Lenin si crea uno «studio nel verde» (zelënyj kabinet), presso la casa dei contadini che lo nascondono, vicino ad un fienile, tra le betulle, usando due ceppi come sedia e tavolo (immagine che riporta, fosse anche involontariamente, all’«orto» ricordato in Atti impuri, dove Pasolini passava «lunghe ore […] leggendo o scrivendo»). Lì Lenin continua a lavorare agli articoli per la Pravda e a Stato e rivoluzione. Pasolini seleziona la brevissima serie di fotogrammi che mostra lo statista sdraiato sul fieno, che medita guardando il cielo (altra immagine pasoliniana topica), tenendo un filo d’erba in bocca, e quindi prende la matita e scrive. Sebbene nella costruzione delle inquadrature dedicate al Lenin nello zelënyj kabinet si rifletta con evidenza l’iconografia stereotipata della ritrattistica del Realismo socialista dedicata al padre dell’Ottobre, Maksim Štrauch, l’attore che lo interpreta, annulla ogni retorica attraverso la recitazione. I gesti sono studiati, è vero, ed è evidente la volontà e la necessità di imitare il modello in modo quasi scientifico, ma altrettanto evidente è la consapevolezza del proprio corpo attoriale, che non è simulacro, ma realmente (non realisticamente) segno (di Lenin, in questo caso) all’interno di un progetto semiotico (come l’attore aveva appreso alla scuola di Ejzenštein e di Mejerchol’d). Difficile supporre che Pasolini potesse avere coscienza di tutto questo al momento della scelta delle immagini del film di Jutkevič (anche se tre anni dopo, nel 1966, le sue riflessioni sul linguaggio del cinema ricorderanno in modo suggestivo quelle di Ejzenštein). Di fatto, però, anche se per pura intuizione estetica e politica, Pasolini individua nell’interpretazione di Štrauch (nel suo cinèma) un elemento affine alla sua idea di cinema, preferendo un Lenin cinematografico a quello “vero” rintracciabile nei documentari disponibili presso l’archivio di Italia-Urss; cosa che gli permette, inoltre, di proporre un’immagine altrimenti impossibile da trovare, quella di un Lenin steso sul fieno con in bocca un filo d’erba. E a Pasolini serviva proprio quell’immagine (che nel suo campo semantico comprendeva anche il se stesso di Casarsa) per rendere l’idea del leader della Rivoluzione russa quale intellettuale immerso nel mondo della Tradizione. Il topos del fiore o lo stelo d’erba in bocca accompagna l’opera di Pasolini dagli esordi di Atti impuri fino a Petrolio. È un topos nato in Friuli, nelle campagne di Casarsa, dove, negli anni Quaranta, Pasolini annota le immagini di fiori, erba, fieno, grano e alberi, che formeranno uno stabile nucleo iconico all’interno del suo immaginario e della sua ideologia. La natura friulana è il deposito uterino dei segni che dicono l’infanzia, la madre, la morte del fratello, l’omosessualità, il ballo, la musica, la religiosità e la perdita della fede, l’approccio erotico/pedagogico ai giovani, le questioni linguistiche, la filologia, la pittura, l’adesione al marxismo. La poesia. Da un punto di vista ‘figurale’ (o meglio dell’ ‘immagine’, come avrebbe detto Pavese), essa media due realtà: l’eros concreto e carnale dei giovani contadini (che diventerà poi quello dei sottoproletari romani e infine dei giovani del “Terzo Mondo”), e l’ ‘innocenza’, forza politica, pura, barbara e sensuale, espressione del Passato. All’interno di questa più vasta ‘figura’, l’immagine del fiore, o dello stelo d’erba in bocca, fissa, in particolare, i segni dell’eros di cui è intriso il ruolo pedagogico che Pasolini si assume in Friuli, e dell’innocenza rivoluzionaria appresa durante le lotte contadine nelle campagne intorno a Casarsa che lo condurranno all’adesione al marxismo (come ricorda il poeta, «una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista»).

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Sulla base di una ricerca d’archivio in corso, il saggio avanza alcune riflessioni preliminari sul trattamento che la censura cinematografica dell’Italia repubblicana ha riservato alla rappresentazione dell’omosessualità, dall’iniziale vagheggiamento di un divieto assoluto al subentrare di più complesse negoziazioni a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fino al profilarsi di una possibile riabilitazione del soggetto.

This essay presents first results of an ongoing archival research on homosexuality and Italian cinema in the after war period. It analyses how film censorship dealt with the representation of homosexuality, first trying to interdict it and then, from the late 1950s, negotiating its depiction in more refined manners, eventually envisaging the possibility of withdrawing it from the list of forbidden topics since the early 1970s.

 

A partire dal secondo dopoguerra, lo sforzo della censura di contrastare la diffusione di contenuti cui viene applicata la terminologia sinonimica oscenità/pornografia/immoralità investe un territorio esteso di soggetti e di materiali, in cui il cinema rappresenta un tassello centrale ma non esclusivo. Si può ricavare un’idea di tale estensione da un fascicolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, intestato «Pubblicazioni immorali»,[1] in cui sono inclusi incartamenti relativi al primo decennio del dopoguerra: riviste illustrate, teatro, televisione, arte (sotto accusa i disegni di Salvador Dalì per la Divina Commedia commissionati nel 1949 dal Poligrafico dello Stato) e persino decalcomanie da «applicare a moto-scooter e calendarietti». E ovviamente il cinema: un sottofascicolo riguarda il divieto d’importazione della rivista Paris-Hollywood (che tra il 1947 e il 1973 con il cinema intrattiene per la verità un rapporto piuttosto pretestuoso, sfruttando quali pin-up per le sue copertine attrici americane frammiste a una miriade di modelle anonime); un secondo riguarda invece la proiezione di film propriamente pornografici, nel corso di serate clandestine organizzate da privati in casa propria (ma anche nella sala di una gelateria, dopo l’orario di chiusura) grazie alla compiacenza di un operatore che prestava competenze e pellicole, a sua detta senza scopo di lucro. L’irruzione della polizia, organizzata a seguito della segnalazione di un quotidiano romano, ha esiti tragicomici: si scontra infatti con l’impossibilità di procedere al preventivato arresto di tutti i convenuti (uomini e donne), a causa della presenza fra il pubblico di «membri del Corpo Diplomatico e personalità politiche».[2]

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Riprese audio-video: Simona Scattina; Montaggio e grafica: Gaetano Tribulato.

Qui di seguito la trascrizione dell'intervista. Si ringrazia Roberta Gandolfi per aver coordinato il progetto.

 

D: Cosa vi ha spinto a fondare la compagnia? Cosa vi ha spinto a dire: questa è la nostra identità?

 

Marco: Nanou nasce ufficialmente il 13 luglio del 2004, dopo che nel ’99 avevo conosciuto Rhuena, a Ravenna. A quel tempo stavo studiando a Milano e lavoravo con una compagnia che si chiamava Mes cabre. Invece con Roberto ci siamo conosciuti nel 2001 durante l’allestimento dell’Iliade con Teatro Clandestino. Nel 2003 – loro due non si conoscevano ancora – dissi: vogliamo fare un progetto assieme? Abbiamo fondato l’associazione e abbiamo partecipato con il nostro primo vero progetto al concorso Giovane Danza d’Autore per l’Emilia Romagna. Ci piaceva molto quella tipologia di concorso perché era suddiviso in quattro tappe, e in ogni tappa bisognava proporre un minutaggio e un’elaborazione diversa. Ricordo che la prima tappa era un abstract del progetto in versione urbana: una vetrina. Oltretutto il discorso ci tornava molto perché noi stavamo lavorando a Namoro. «Namoro» è una parola che Fernando Pessoa inizia a introdurre nella lingua portoghese parlando di quell’innamoramento che si ha rispetto a una persona prima di conoscerla. Non è esattamente il colpo di fulmine italiano, è più l’essere attratti da una figura che sta facendo altro. Per comprenderci tra di noi si diceva: una persona che allestisce una vetrina, che quindi è esposta ma non sul piano comunicativo. Sta compiendo un’azione per se stessa, sta allestendo una vetrina. Io ne sono rapito, in quel momento capisco che quell’attrazione è, per me, fondamentale.

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Seguiranno personaggi in bilico fra narrazione e astrazione, prima con tinte noir (Desert-Inn, 2006), successivamente forgiati come ‘imperi della mente’ onirici e dell’orrore (sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla], 2007). Un compiuto discorso si dispiega con il progetto Motel (2008/2011), suddiviso in tre diversi episodi spettacolari (o Stanze) e fondamentale tappa di maturazione poetica e produttiva. Si entra nella Prima stanza inseguendo le ossessioni individuali di un uomo e una donna, l’andamento cronologico è destrutturato, oscure presenze srotolano papiri con messaggi destinati a rimarcare la nostra responsabilità di spettatori che guardano; così si passa nella Seconda stanza, dove il disegno del movimento diventa più coreografato e sembra guardare in controluce le tensioni duali di un rapporto amoroso, mentre ombre proiettate ci ricordando l’esistenza di un ‘fuori’ urbano; si chiude (o si ricomincia) con una Anticamera, la cui scena contiene un cubo che distilla gesti e oggetti prelevati dalle altre Stanze; il cubo ricostruisce un interno casalingo, è abitato da una donna e l'angusto spazio viene disegnato saggiando le possibilità che restano nel piccolo perimetro, mentre noi riflettiamo sulle cornici che orientano il nostro guardare e ragionare. Il passaggio del decennio vede gruppo nanou impegnato ad asciugare il movimento da certe ‘cadute narrative’, in una sfida che punta all’astrazione del gesto.

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Abstract: ITA | ENG

L’articolo prende in esame la relazione linguistica tra la costruzione scenica dei progetti Motel e Strettamente Confidenziale di gruppo nanou e le teorie sull’immagine fotografica contenute ne La Camera Chiara di Roland Barthes.

The essay examines the linguistic relationship between the stage's construction of the projects Motel and Strettamente Confidenziale performed by gruppo nanou and the theories on the photographic image expressed by Roland Barthes in Camera Lucida.

La trilogia Motel, faccende personali (2008-2011) rappresenta il punto di non ritorno, la nomenclatura e il fulcro concettuale dell’intera produzione performativa di gruppo nanou. Articolato su tre camere (Prima Stanza, Seconda Stanza e Anticamera), che sono al contempo finestre in sé conchiuse ed episodi di una serie, il progetto è stato recentemente celebrato attraverso l’ostensione di alcuni suoi elementi in Strettamente Confidenziale, un’originale operazione di musealizzazione articolata anch’essa in stanze che fungono da contenitori dell’azione, sorta di time boxes che, aperte a distanza di anni, espongono frammenti di memorie deformate dal tempo e dal ricordo.

Topos della cinematografia da Alfred Hitchcock in poi, la camera del motel è il non-luogo per eccellenza, il paradigma di quell’essenza tutta americana dell’abitare transitando. Gli oggetti in essa contenuti, solo apparentemente anonimi, rappresentano in realtà il «paesaggio reificato» e l’«oggettivizzazione delle personalità degli abitanti che la occupano».[1] L’utilizzo della stanza di motel come dispositivo scenico, che diviene una sorta di assoluto per i nanou, trova un noto precedente sulle scene italiane in Twin Rooms (2002) di Motus. Lo spettacolo, mediante un serrato montaggio di frammenti video unito a costanti riferimenti alla letteratura postmoderna americana inscenava il potenziale narrativo connaturato all’immaginario cinematografico del luogo.[2]

Fin dal primo episodio di Motel, la critica teatrale italiana ha guardato anche agli ambienti scenici di gruppo nanou evidenziandone il rapporto con l’immaginario cinematografico.

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Abstract: ITA | ENG

Una danza che racconta, un teatro di corpi e poche parole, un percorso sonoro che punta all'evocazione e non rifiuta la narrazione. Gruppo nanou nasce a Ravenna e da sempre si è contraddistinto per il tentativo di raccontare spezzando una normale linearità dei ‘fatti’. Negli spettacoli del gruppo vi sono lacerti di accadimenti, reperti che chi guarda deve ricostruire, in cerca di un ‘intero’ che la compagnia di Ravenna programmaticamente nega. Così è per Namoro, la prima opera del 2004 e considerabile come una sorta di prologo. Successivamente si saggiano le possibilità del corpo e della mente in Desert-Inn e Sulla conoscenza irrazionale dell'oggetto [tracce verso il nulla], spettacoli del 2006 e 2007, si mette in campo lo studio di un quotidiano sottilmente sabotato e rifratto in rivoli che chi guarda può scegliere di seguire (la trilogia Motel, 2008-2011) infine si sosta nel bilico fra composizione astratta del gesto danzato (con tinte sportive) e disegno narrativo di figure, personaggi, simboli (dal progetto Dancing Hall a Strettamente Confidenziale, giungendo all'ultimo J.D.). Il saggio analizza la traiettoria poetica di gruppo nanou, tentando altresì di creare un contesto relativo al sistema del teatro e della danza italiani odierni.

A dance that tells, a theatre of bodies and few words, a sound path that goes directly to the evocation and not reject the narration. Nanou group was born in Ravenna and always has characterized by the attempt to tell, breaking a normal linearity of ʻfactsʼ. In the group’s performances there are fragments of events, finds that the viewer have to reconstruct, looking for a ʻwholeʼ that the acting company of Ravenna programmatically denies. So it is for Namoro, first work of 2004, esteemed as a kind of prologue. Afterwards, are tested the possibilities of body and mind in Desert-Inn and sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [trace verso il nulla], performances of 2006 and 2007, in which the group approaches the study of a daily subtly sabotaged and refracted into rivulets that the viewer can choose to follow (the trilogy Motel, 2008-2011). Lastly, stopping in balance between abstract composition of danced gesture (with sports tints) and the narrative design of figures, characters, symbols (from the project Dancing Hall to Strettamente Confidenziale, reaching the last work J.D.). The essay analyzes the poetic course of nanou group, trying also to create a context relating to the contemporary system of Italian theater and dance.

 

Kostia, 2003. Un palcoscenico all'aperto in una calda sera d'estate al Museo del Senio di Alfonsine (Ra), con un folto pubblico composto da addetti ai lavori, spettatori venuti appositamente dalla città e avventori dei bar della piazza. La dinamica dei gesti intreccia figure e affastella fugaci visioni, sul palco due corpi si rincorrono, la luce sovraespone movimenti che sembrano lasciare una scia.

Namoro, 2004. Un pomeriggio in piazza San Francesco, a Ravenna. Sul fondo della piazza una basilica paleocristiana, sul lato opposto c'è un nugolo di persone che osserva la vetrina dei chiostri della biblioteca comunale, un interno affacciato sullo spazio pubblico. Dietro al vetro scorgiamo un corpo femminile che si espone, ostende il bacino, si curva fino a piegarsi formando un arco acuto.

Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla], 2007. Un tardo pomeriggio primaverile, al secondo piano di un noto club musicale riminese. Le luci naturali bagnano uno spazio vuoto, due figure umane sono in preda a rantoli e contorsioni, una scatola blu e una sfera vitrea ci riportano a un'oggettualità che vorremmo ristabilisse un raziocinio.

Scegliamo di partire da tre visioni personali che legano il percorso professionale di chi scrive alla vicenda artistica e biografica di gruppo nanou. Scegliamo di aprire la porta assecondando le indicazioni di questa compagnia che ha la sua base a Ravenna, prendendo alla lettera alcuni dei titoli dei loro spettacoli (Faccende personali, Strettamente confidenziale) anche per vedere dove ci porterà questo varco e se mai potremo richiuderlo. Scegliamo dunque queste veloci impressioni come incipit, cercando di procedere con gli strumenti del racconto e dell'analisi, provando a coniugare la necessità della ricostruzione con il tentativo di una contestualizzazione sia estetica che più genericamente allacciata alle vicende del teatro e della danza di ricerca italiani degli ultimi anni. Adotteremo dunque uno sguardo cronologico, partendo dal primo spettacolo per arrivare all'ultimo, con pause diacroniche che speriamo possano illuminare alcuni nodi legati al fare danza oggi in Italia.

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