1. Abitare lo spazio coreografico
La danza si fa architettura poiché idea, erige e progetta continuamente luoghi nei luoghi
Marco Valerio Amico
Questo scritto si inserisce nell’ambito delle tematiche di ricerca sul progetto dello spazio scenico, nei casi in cui la creazione ‘astratta’, priva di riferimenti testuali, non si sviluppi in un racconto ma in un percorso introspettivo, attraverso i caratteri di uno spazio rarefatto che non cerca conforto nel luogo, anzi ricorre ad una white box, evitando i condizionamenti derivanti dal site specific.
L’evidenza del processo creativo è un obiettivo nato come risposta al diffuso manierismo che deriva dalla creazione di linguaggi personali costruiti dalle compagnie a favore di spettacoli, piega che non lascia tempo alla ricerca personale. Il pubblico è rivolto sempre meno ai «linguaggi teatrali», per cui la danza contemporanea si rimette in gioco, rivede le proprie regole nello strenuo tentativo di trovare «le sue radici in territori diversi», guardando fuori da sé, «trasformando le esperienze in materia».[1]
La necessità di uno studio che ripieghi su se stesso, di uno spazio scenico ridotto ad una ‘mappa’ che, restando visibile anche a produzione avvenuta renda leggibile allo spettatore il riferimento che ha condizionato l’elaborazione coreografica, ci riporta alle condizioni artistiche in cui il processo si sostituisce al risultato: mostrare l’elaborazione creativa è più importante della performance.