Videointervista a gruppo nanou

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Il 25 gennaio del 2015 la redazione di Arabeschi ha incontrato a Ravenna Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura che hanno raccontato la fondazione e le premesse artistiche di gruppo nanou, rievocando le tappe essenziali del loro percorso e le parole-chiave di molti spettacoli.

Riprese audio-video: Simona Scattina; Montaggio e grafica: Gaetano Tribulato.

Qui di seguito la trascrizione dell'intervista. Si ringrazia Roberta Gandolfi per aver coordinato il progetto.

 

D: Cosa vi ha spinto a fondare la compagnia? Cosa vi ha spinto a dire: questa è la nostra identità?

 

Marco: Nanou nasce ufficialmente il 13 luglio del 2004, dopo che nel ’99 avevo conosciuto Rhuena, a Ravenna. A quel tempo stavo studiando a Milano e lavoravo con una compagnia che si chiamava Mes cabre. Invece con Roberto ci siamo conosciuti nel 2001 durante l’allestimento dell’Iliade con Teatro Clandestino. Nel 2003 – loro due non si conoscevano ancora – dissi: vogliamo fare un progetto assieme? Abbiamo fondato l’associazione e abbiamo partecipato con il nostro primo vero progetto al concorso Giovane Danza d’Autore per l’Emilia Romagna. Ci piaceva molto quella tipologia di concorso perché era suddiviso in quattro tappe, e in ogni tappa bisognava proporre un minutaggio e un’elaborazione diversa. Ricordo che la prima tappa era un abstract del progetto in versione urbana: una vetrina. Oltretutto il discorso ci tornava molto perché noi stavamo lavorando a Namoro. «Namoro» è una parola che Fernando Pessoa inizia a introdurre nella lingua portoghese parlando di quell’innamoramento che si ha rispetto a una persona prima di conoscerla. Non è esattamente il colpo di fulmine italiano, è più l’essere attratti da una figura che sta facendo altro. Per comprenderci tra di noi si diceva: una persona che allestisce una vetrina, che quindi è esposta ma non sul piano comunicativo. Sta compiendo un’azione per se stessa, sta allestendo una vetrina. Io ne sono rapito, in quel momento capisco che quell’attrazione è, per me, fondamentale.

Quindi questo rapporto di attrazione verso una figura che sta compiendo qualcosa per se stessa è la prima tappa del concorso. Ci venne proposto di mettere in scena un’azione performativa dietro ad un vetro. Con Roberto si stava già iniziando a parlare di percezione dal punto di vista sonoro, più che semplicemente di ascolto musicale. Infatti il primo esperimento fu quello di mettere un subwoofer attaccato al vetro per farlo, semplicemente, vibrare.

A partire da questa prima azione in dieci anni si sono tracciate delle linee di lavoro, di curiosità, che tuttora sono presenti all’interno di nanou. L’idea di un corpo che agisce non tanto per essere guardato ma che cerca un’azione per autoalimentarsi, autorigenerarsi. Più avanti avremmo definito anche il fatto di avere un corpo che cerca di perdere emotivamente una frontalità. Il concetto di suono, in un paesaggio sempre ricollocato, e la dimensione del silenzio, che non vuol dire semplicemente assenza di musica. Fin da subito la parola chiave è stata erotismo, tuttora sempre molto presente. Erotismo inteso come attrazione. L’attrazione nel senso più ampio del termine, per cui come negli studi di Bataille, ci può essere l’attrazione verso un qualcosa di terrificante tanto quanto verso qualcosa di molto bello. C’era un bell’esempio su un saggio su Bataille che diceva: «Quell’attrazione che si ha anche nel fermare una macchina per vedere l’incidente». Un gesto che porta arcaicamente la persona a rallentare per la sua morbosità rispetto a un qualcosa di cui non conosce ancora esattamente la forma e per questo viene rapita e attratta nella sua azione.

Direi che questa è la partenza e poi tutto si è evoluto.

 

D: Nel vostro percorso ci sono orizzonti progettuali che sembrano catalizzarsi attorno a dei macro-concetti: l’assenza di identità, gli indizi, il noir... Raccontateci come nascono metodologicamente le domande e gli stimoli che poi portano all’opera.

 

Rhuena: Metodologicamente, a seconda dei progetti nati negli anni, c’è uno di noi che porta una curiosità all’interno. Namoro era il nostro primo lavoro, una mia richiesta di lavorare su tre soli paralleli, quindi un solo del corpo, un solo della parola con un attore in scena di spalle con un monologo durante tutto il pezzo, ed un solo del suono. Il lavoro successivo Desert-Inn invece è stato creato su input di Marco.

Marco: Le parole chiave all’interno dei percorsi, spesso, arrivano verso la conclusione. Io odio profondamente scrivere i progetti a priori, nel senso che spesso partiamo da una serie di frammenti, di suggestioni, che nel lavoro di sala trovano la sintesi. Ci siamo resi conto in questi dieci anni che ci sono delle volte che apparecchi queste tracce di percorso e molte vengono scartate, per cui è sempre molto complicato. Anche se poi, di contro, da un punto di vista attuativo, pragmatico ed empirico, normalmente i primi due giorni di prova sono lo spettacolo.

Rhuena: Ogni singolo spettacolo ha il suo quaderno di appunti, per ognuno di noi. Io ho notato, negli anni, che nelle prime due pagine c’è già tutto, anche se poi si perde, si smonta completamente, fa venire tutti i dubbi del mondo… Ma quello era: chiudere il cerchio e tornare a quelle due pagine. Essere sicuri della domanda che stai facendo, ma assolutamente non della risposta.

 

D: In Namoro c’è una scaturigine formale. Gli elementi tecnico-formali messi in campo lì poi acquisiscono, con il tempo, anche un orizzonte tematico. Guardando l’insieme dei vostri lavori sembra di intravedere la persistenza di alcuni indizi, la ripresa di alcune ‘frasi’ che ritornano (il noir, l’assenza di identità, i geroglifici del corpo). È veramente così?

 

Marco: La dimensione dell’assenza del volto, il corpo che si fa sempre più azione e sempre meno geroglifico, sempre meno segno che deve necessariamente portare ad un significato o ad un codice, sono cose che stiamo approfondendo, per questo ritornano. E perché sono delle necessità. Per me il volto in scena è un problema. Perché ho la sensazione che l’eliminazione dei tratti somatici di un corpo mi permetta una possibilità di mimesi, all’interno del soggetto che viene presentato, della figura, che altrimenti mi porterebbe a comprendere una figura che è in scena.

 Desert Inn © Laura Arlotti

Verso la fine di un progetto, spesso, nascono delle domande o delle curiosità o degli accenni che portano al progetto successivo. Eclatante, per me, fu il passaggio tra Desert-Inn e Sulla Conoscenza in cui stavamo chiudendo il percorso. Saltò fuori l’improvvisazione fisica che venne tenuta sul finale del progetto Desert-Inn; io e Rhuena ci siamo guardati e abbiam detto che da lì, da quell’accenno che era un percorso a schiena bassa e accosciata da un punto ad un altro, saremmo partiti per il progetto successivo.

Rhuena: Questo probabilmente anche perché ci sono le micro-tematiche interne ad ogni singolo spettacolo che ad un certo punto vengono esaurite. Senti di averle, anche se non comprese appieno, esaurite. Quello che potevi indagare lo hai indagato. Poi ci sono sicuramente le macro-tematiche che sono il nostro percorso. Non volendo lavorare per la realizzazione di spettacoli esteticamente risolti (non è questo che ci interessa, non è il ‘bello’) è appunto una serie di domande che ci stiamo facendo, ci stiamo portando dietro. L’identità non-identità è una di quelle cose che ci portiamo, consapevolmente o meno, dietro fin dall’inizio. E ci sono altre tematiche come questa, come per esempio l’erotismo di un’azione esposta. Della carne in sé. Infatti è difficile che nei nostri spettacoli si sia super coperti, super vestiti. Non abbiamo costumi di scena particolarmente ingombranti, perché comunque l’azione nella sua articolazione del corpo per noi è sempre stata da vedersi, da lasciar vedere. Sicuramente c’è un percorso sotto che si sta sviluppando nonostante noi. Sono domande che tornano e sono le domande che ci fanno passare da uno spettacolo all’altro e da una micro-tematica all’altra.

Roberto: Per Namoro la figura di Marco in scena in fondo era sicuramente una presenza, ma Marco usava la parola, e la parola veniva microfonata e amplificata. Ci siamo chiesti anche lì quanto dovesse essere percepito chiaramente che in quel momento Marco stava parlando o quanto dovesse rimanere il dubbio che quella presenza stesse dicendo qualcosa in diretta o che magari fosse tutto registrato. In realtà se ci pensi anche il discorso della perdita di identità in fondo un po’ si ritrova anche in questo meccanismo che avevamo trovato. Sono quindi veramente tante le cose che facciamo ritornare anche inconsapevolmente.

 Motel © Laura Arlotti

Marco: Queste sono forse le macro-tematiche che voi riconoscete come possibili passaggi o anche approfondimenti o ritorni ciclici nei nostri spettacoli. Poi sì, ci sono delle tematiche sulla progettualità più ampie, come può essere l’assenza di identità di John Doe, la visione dell’interno borghese di Motel, la bestialità di sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, l’indizio come gioco che non porta a nulla se non ad un continuo rilancio di curiosità ed interesse di Desert-Inn. Poi a me piace molto il noir americano, i cadaveri, anche se poi riconosco che, come nell’autobiografia di Ellroy o in Blow Up di Antonioni, ad essere importante non è l’assassino ma l’indagine, cioè l’essere continuamente rapito da un segno che ti porta ad un altro segno. Sperando che non finisca mai. Non so se qualcuno di voi ha avuto modo di vedere True Detective: arrivi all’ultima puntata e negli ultimi dieci minuti dici: «Dai, non puoi finire così, ancora!». Il discorso della relazione tra i linguaggi è uno dei più importanti, perché su quello, anche con John Doe, c’è veramente un nodo. E per me è anche una delle motivazioni più grosse che mi fa dire alla compagnia: «Dobbiamo andare in sala prove e provare». Le cose non si capiscono a tavolino, perché è proprio una carne che si pone lì e che può rendersi viva solamente se esperita con tanti errori.

 

D: Restiamo sulla relazione tra linguaggi, che è anche il focus della rivista Arabeschi. Parlateci un po’ di che cosa vi nutrite, cioè di quali sono nello specifico, al di là di quello che avete scelto come vostra scrittura personale, gli altri codici che vi interessano. Che cosa guardate, che cosa vi interessa far collidere con le singole lingue che parlate all’interno di nanou?

 

Rhuena: Per un po’ di lavori ci siamo ispirati molto alla fotografia. Per me la sfida e la curiosità era rendere quell’istante, attimo estremamente parziale di un racconto, renderlo racconto, renderlo azione. Non ho ancora capito come avviene, ma ci sono alcune immagini che per me sono movimento e veramente sono lo stimolo per produrre movimento. Insieme a questo, quando ci sono immagini di riferimento chiaramente circolano all’interno della compagnia. Faccio un esempio su tutti. Una ragazza, suppongo una prostituta, di vent’anni, distesa su un divano in lingerie girata in modo che il volto non le si veda. Quello per me è stato lo stimolo per creare tutta la scena che c’è sul divano rosso di Motel vista riflessa allo specchio. Quella è una foto, uno scatto di Brassaï, ed è diventata un’azione, che poi si sviluppa anche in moltissimi altri modi, perché il divano si ribalta, questa figura viene poi trascinata in giro come un corpo massacrato. Ci sono tutti i risvolti. Ma nello specifico quell’immagine ha stimolato tutto un immaginario che è diventato azione.

Marco: Siamo partiti con Namoro. Lo stimolo più grosso, per me, è stata questa mappa sul libro di Pessoa, che era un appunto un disegno su un foglietto, che tracciava un percorso molto arzigogolato, e aveva scritto sotto “Il percorso più lungo per accompagnare Ofelia a casa”. Ofelia era la sua amata. Durante questo corteggiamento lui ipotizzava i percorsi più lunghi per impiegare più tempo per accompagnarla a casa. Per quanto riguardava Motel, c’è stato un lavoro di creazione di storie attraverso quadri e fotografie radunati nel percorso. quando noi parliamo di racconto, di narrazione, per me è molto chiaro riferirmi a un’esposizione, una mostra fotografica piuttosto che ad un racconto letterario-narrativo. Prendiamo The americans di Robert Frank: è una serie di scatti fotografici coast-to-coast che non hanno un rapporto narrativo fra di loro, ma allo stesso tempo visti tutti quanti insieme offrono il paesaggio di quell’America negli anni Cinquanta.

Rhuena: Lo stesso riferimento si può fare sulla parola, perché il lavoro con maggiore testo nostro è Namoro, e il testo utilizzato non era originale, e non era neanche un monologo.

Marco: Sono state prese frasi da diversi libri. Abbiamo scelto due autori a cui fare riferimento, che erano Genet e Barthes. Abbiamo preso le frasi che ci interessavano di più, abbiamo provato a sovrapporle all’azione scenica ed eliminare tutto ciò che faceva didascalia ridondante, ma doveva sempre offrire un ulteriore significato a quello che veniva mostrato. Preso tutto e shakerato. Rompendone la grammatica, il ritmo, il senso.

Rhuena: Per ricostruire una grammatica, un ritmo o un senso su un ampio tempo.

Marco: E con l’idea di restituire una percezione della parola. Una significanza, più che un significato.

Rhuena: Fin dai primi lavori parlavamo di fuori peso del suono, di carnalità della parola, quindi spostavamo quelle che erano delle indicazioni specifiche di un campo di lavoro agli altri campi. Ora parliamo di ritmo della luce, di tempo della luce.

Marco: C’è un processo da motore di ricerca di internet, o rizomatico – se vogliamo utilizzare anche riferimenti filosofici. Nel corso delle giornate si prendono appunti, per cui mando a Roberto una musica, e lui mi manda un’altra cosa. Rhuena mi fa vedere una fotografia, io vado a vedere un film, e piano piano si creano delle connessioni che determinano l’oggetto di indagine, il progetto, il lavoro di sala e via via fino ad arrivare allo spettacolo. Se vado a rileggere gli appunti di Namoro ritrovo momenti in cui io e lei per la prima volta andammo a Ravenna. C’era una mostra di Giacometti e lei mi disse «Questa te la metterò in scena», ed era ritratto di Donna sgozzata. Una scultura, una figura a forma di scorpione del periodo cubista di Giacometti. Sei mesi dopo abbiamo fatto Namoro e c’era quella che per noi era quella figura lì, chiaramente rielaborata.

Rhuena: Che non vuole essere identificata dallo spettatore. Questo rimane un discorso interno. Non c’è la volontà di far riconoscere gli spunti. Per noi sono stimoli, non vogliono essere citazioni, anzi, più si amalgamano con il nostro lavoro, più riusciamo a dargli un nostro tono, un nostro colore, più secondo me quello stimolo è digerito. Non so se ci è mai capitato di fare palesemente citazioni, di essere così riconoscibili. Una cosa che mi viene in mente è un commento di Viviana Gravano che dopo aver visto Namoro ci disse: «Ma voi avete studiato su Bellmer per fare questo lavoro?». Io non conoscevo, all’epoca, Bellmer. Chiaramente sono andata a cercare, incuriosita. C’è una posizione mia, di Namoro, che è esattamente una delle bambole fotografate da Bellmer. Anche l’angolazione dell’occhio è esattamente quella, ed era un puro caso, una pura coincidenza. Quindi ho capito cosa intendesse. Oltre a questa immagine c’erano altri particolari, per cui una delle tematiche di Namoro era nascondere parti di corpo e su Bellmer questa cosa la riconosco. A tratti io sembravo senza braccia, senza un pezzo di gamba, senza una spalla, ero solo tutta pancia. Questo secondo me fa anche molto parte di Bellmer, non mettere in evidenza parti di corpo per farle sparire. Poi lui aveva la possibilità effettivamente di non metterle quelle parti di corpo. Io a mio modo lo avevo tradotto in azione.

 Stefano Ricci, La mia scimmia segreta

Marco: Per esempio su Motel abbiamo incontrato le illustrazioni di Stefano Ricci. Guardando La mia scimmia segreta c’era questa scimmia con un cappello che guarda dentro ad un cubo e ad un certo punto ci siamo ritrovati a mettere un cubo in scena con dentro una figura. C’è un uomo con il cappello in tutta quanta la trilogia. C’è stato poi tutto un lavoro sull’horror coreano, con questi fantasmi bianchi che si muovono in maniera strana nel pavimento, uscendo dai posti più assurdi. Sicuramente su tutti i piani che insieme mettiamo in campo cerchiamo di mantenere sempre un lato che sia un po’ di illusione ma nel senso della magia del piccolo mago. Allora nella prima stanza di Motel apparire e sparire sotto un tavolo è veramente la magia de noartri, però può creare quell’ambiente. Così come con Roberto si parla tantissimo di piani di ascolto. Cioè dove quell’azione sonora è collocata. Qui? In questa stanza? Là dietro? Che tipo di spazio percettivo deve raggiungere nel contesto che si va a creare? In tutto il progetto Dancing Hall l’azione doveva sempre accadere nella stanza accanto.

 

D: C’è una questione che è stata già toccata e che rimanda al panorama teatrale contemporaneo della danza, ma infondo alla danza tout court: l’intensità che mettete nel movimento. Mi sembra di poter dire che emerga soprattutto in John Doe, ma credo che sia una di quelle cose che ritornano.

Qual è la qualità che voi ricercate nel parlare corporeo, per fare in modo che non diventi semplicemente disegno coreografico ma che resti paesaggio?

 

Rhuena: Per me l’azione coreografica ha la valenza di questo gesto (prende un bicchiere da terra e se lo poggia davanti a sé, sul tavolo). Per cui il contenuto deve avere questa concretezza. Non è la bellezza dell’orpello, del disegno dell’aria che rimane su se stesso. È veramente un’azione spesa per fare qualcosa, per spostare il corpo da un punto A ad un punto B. C’è una necessità nel mezzo. Rimane nell’ambito dell’astrazione, perché non ho un bicchiere in scena, solitamente.

Marco: In Motel anche.

Rhuena: In Motel anche, però in Motel salto anche fuori con una ribaltata dal divano. Ma la volontà è che il contenuto di quell’azione sia di una profonda necessità e concretezza, per cui vorrei che si leggesse che sto uscendo e sto andando a fare la spesa. Ma non in modo così letterario, da racconto, ma il contenuto, la necessità di quell’azione vorrei che fosse leggibile come tale. Non ve lo so spiegare meglio. Quindi si distanzia da quella che è la linea nello spazio. La bellezza della linea che riconosco, assolutamente. Arrivo da uno sport che è assolutamente virtuosistico, performativo, acrobatico, in quanto ex ginnasta.

 Sport © Laura Arlotti

Marco: Per me per capire questo tipo di discorso, cioè afferrarlo anche in maniera intellettualmente elaborata, è stata fondamentale la relazione che abbiamo avuto io e Rhuena su Sport. Io sono un antisportivo, odio lo sport molto profondamente, lei ci propose di lavorare sulla tematica dello sport, e il primo problema che ci trovammo davanti era: un’azione della ginnastica artistica dura un minuto e mezzo, mentre noi dovevamo fare uno spettacolo di trenta minuti almeno. Cosa ci inventiamo? Però nell’analisi di questo movimento, in cui si cercava di capire cosa fosse un corpo sportivo, una cosa che per me è stata chiara è che il disegno del corpo sportivo è dettato dal massimo risultato da ottenere, per cui la forma che il corpo assume è per fare il salto più lungo, o il salto più in alto, o per non sbattere il collo all’arrivo, perché devi arrivare con i piedi. Da lì in poi per quanto io possa partire da un’immagine fotografata e abbia l’intenzione di riafferrarla all’interno di uno spettacolo, non mi interessa che quell’immagine venga riprodotta a manichino, ma che quel corpo nella sua necessità ritrovi quella situazione, neanche più posa, quello stato. E così anche quando noi parliamo di coreografia prima di tutto parliamo di presa di spazio, cioè il corpo si muove perché produce uno spazio, perché conquista uno spazio continuamente. Il corpo, deve trovare, pur in una sua criticità espressa, un modo per non essere danza. Cioè, nel momento in cui si presenta la figura del riconoscibile come linguaggio di danza codificato, via. Immediatamente via. Nel momento in cui si forma un gesto che può essere rimandato al simbolo di una statua, a una simbologia, via. È anche molto castrante. Lì è la scommessa non ancora risolta del dire “ok tolgo la simbologia, tolgo il messaggio di cosa voglio dire, tolgo la figura caratterizzata”. Che cosa mi rimane in mano? La struttura del corpo, che è presente in quel momento in scena è altamente, esponenzialmente caratterizzante.

 

D: Come voi ben sapete questa mia incursione in Arabeschi è molto legata al mio interesse per la cultura visiva americana, che mi sembra di cogliere anche nella vostra poetica. Studiando questo argomento mi sono accorta che si tratta di una risonanza comune a molti alti artisti romagnoli, soprattutto fotografi. E allora vi chiedo se c’è, effettivamente, un filo conduttore tra l’immaginario paesaggistico visivo della Romagna e quello americano e in che modo tale dialettica si declina nel vostro lavoro.

 

Marco: In realtà non lo so. Quello che ritrovo, nella Romagna, a parte le luci al neon della vita notturna, è una violenza che rimanda ad un certo tipo di America. Una violenza sotterranea, non sempre espressa, che ricorda molto quella dell’America degli anni Cinquanta, dell’America di provincia. Non si sta parlando soltanto di Chicago e New York insomma. Poi sicuramente gli Stati Uniti, ad un certo punto, hanno fatto un salto di qualità di ricerca del linguaggio, la cui eco è arrivata in maniera molto forte in Italia, anche se non in tutti i campi. Per esempio dal punto di vista narrativo, la scrittura americana, in particolare dagli anni ’60, ha fatto uno scarto. O come si diceva prima «il movimento necessario». La scrittura americana da Cormac McCarthy in avanti comincia a dire soggetto-verbo-predicato verbale-punto. E così la scrittura diventa un elenco di azioni, fino ad arrivare fino al massimo che è James Ellroy.

Sì, di americano c’è tanto. E poi, secondo me, la mia generazione è quella dei telefilm. Non a caso uno dei nostri riferimenti è stato CSI. Nella settima stagione di CSI, dove c’è un serial killer modellista, tornano una serie di riprese che sono state materiale che ad un certo punto si è infiltrato nel nostro lavoro.

 

D: Non abbiamo ancora parlato di un aspetto che secondo me è importante almeno accennare, cioè il panorama nel quale voi vi state muovendo, e quindi il sistema delle arti performative, fra teatro, danza e altri linguaggi. Verso quali itinerari vi state muovendo adesso? E quali sono i vostri compagni di viaggio?

 

Rhuena: Non mi interessa particolarmente collocarmi. Io mi occupo di quello che è il mio linguaggio e in questo riconosco degli interlocutori interessanti, con alcuni dei quali ho avuto la fortuna di lavorare, collaborare, studiare. Da Monica Francia a Ravenna, a Michele De Stefano della Compagnia MK con sede a Roma, i Kinkaleri in Toscana. Bello poter avere in casa il teatro Comandini nel quale andare a vedere ogni tanto qualcosa di estremamente interessante, altrimenti te lo dovresti andare a cercare in angoli altri del mondo e dell’Europa. È stato molto interessante e formativo, per me, lavorare con Mariangela e Cesare della Valdoca. Non a caso nomino quasi tutti romagnoli, perché il territorio è estremamente ricco. Non ci sono solo questi, ho quella che io definisco un’auto-formazione, nell’ambito della danza. Io arrivo dall’artistica. Poi sono stati workshop e incontri a formarmi come danzatrice e il lavoro di sala, fondamentalmente. Quindi quello che mi aiuta a collocarmi sono gli interlocutori che ho nominato, che ovviamente hanno linguaggi differenti dal nostro. Non lavoriamo sulle stesse tematiche o con le stesse modalità. Quindi io scelgo di non collocarmi, questo è per me l’importante.

Marco: Collocarsi oggi penso che sia difficile. Oggi ci si colloca in un deserto, perché tutto quello che è attorno rispetto ad un percorso di ricerca linguistica lo stanno cercando di abbattere. Secondo me la danza in Italia ha fatto uno scarto che il teatro si è rimangiato. Uno scarto di pensiero, dell’ottica di una messinscena, di come si mettono in scena le cose. Negli ultimi quattro, cinque anni mi è sembrato di vedere una scena teatrale che è diventata molto reazionaria, riproponendo una drammaturgia che ha una linearità narrativa molto precisa e delineata. Rispetto a degli esperimenti di qualche tempo fa sono pochissime le realtà che continuano ad esporsi con progetti teatrali fuori da una narratività, chiamiamola, classica.

 

D: riascoltando le vostre parole, il modo cui raccontate la vostra creazione, il tentativo di produrre qualcosa che arrivi a una sorta di non-riconoscibilità ma che allo stesso tempo è nominabile, mi viene da chiedervi: quale può essere ancora la differenza del linguaggio della scena rispetto a questo orizzonte, oggi e nel futuro? Per che cosa ci dobbiamo battere?

 Strettamente confidenziale © Stefania Scano

Marco: Io in questo momento ho riscoperto la scena ribaltandone gli aspetti. Mi sono profondamente rinnamorato con il progetto Strettamente confidenziale. È un progetto che dice: «l’opera dev’essere presa come un museo». Non è intrattenimento. C’è un percorso che non è dettato da conduttori o percorsi obbligati. Uno può andare avanti indietro, fumarsi una sigaretta e far due chiacchiere e intanto accadono delle cose che cercano di costruire continuamente un paesaggio, un habitat. Mi piacerebbe che ci fosse proprio un bar, dentro questa attività scenica. Per cui anche da un punto di vista performativo, quando parliamo fra di noi, diciamo che il tempo del corpo dell’azione non deve essere più quello dell’intrattenimento, del colpo di scena, della fiction e via dicendo, ma, anzi, come io scelgo di stare davanti a un quadro e andarmene lasciando l’opera nella collocazione, così l’azione deve eccedere nel tempo proprio per far sì che lo spettatore se ne vada dall’azione. È chiaro che si crea una relazione diversa. Lo spettatore è libero di muoversi, quindi non siamo più noi che dettiamo il ritmo, ma è l’attenzione dello spettatore, la curiosità, l’erotismo. E questo aspetto, questo habitat, questa relazione che si tenta di costruire ospitando il malcapitato, anziché intrattenerlo, ha creato, per me, delle sorprese. Persone, non necessariamente dell’ambiente teatrale, che si sono fermate all’interno di un’installazione fino a due ore, senza che nessuno gli dicesse niente. C’era un’entrata ed un’uscita ma non c’era un inizio o una fine dello spettacolo. Non c’era un obbligo. E la cosa ancora più bella, per me, era aver creato, come Nanou, dei luoghi di disimpegno in cui la gente si ritrovava senza conoscersi. Si scambiavano informazioni e ritornavano a reinnestarsi all’interno di un percorso. Allora si è venuta a creare una piccola comunità, anche estemporanea, effimera, però una comunità attiva. È una cosa che abbiamo cominciato a scoprire nel 2013 per la prima volta e che stiamo continuando a mandare avanti che non sta neanche diventando un progetto, ma un dispositivo da mettere in campo per scoprire altre situazioni. E lo scarto forte, che io sento, rispetto a quel teatro installativo degli anni ’90 o degli anni ’80 è che si sono eliminate le costruzioni teatrali. Nel teatro sensoriale, in tantissime attività di quegli anni, c’era comunque la dimensione teatrale, una dimensione, spesso, di visione frontale, o di tempo deputato, perché c’era un inizio e una fine dell’azione che doveva essere seguita per una narrazione successiva. Una conduzione dello spettatore che veniva preso e accompagnato nel tempo e nello spazio della performance. Qui è veramente libero. Uno può starci venticinque minuti senza che succeda niente. Lì succede qualcosa, che forse è la messa in pratica, a livello di dispositivo, di quel Namoro di dieci anni fa, in cui non cerco più di attrarti, ma se inizia questa intesa, se hai scelto di entrare in quest’habitat, può essere che tu non voglia più uscirne per un po’, per un lungo tempo. Allora lì, veramente, mi si è risvegliato qualcosa di molto importante, che stiamo cercando di capire come poter riportare sulle dimensioni di palcoscenico. Il progetto John Doe serviva proprio a capire questo. Che cosa vuol dire, oggi, dopo questa esperienza di Strettamente confindenziale che stiamo portando avanti, riporsi in una visione frontale. Son tentativi, per ora.