2.7. Autoritratto in forma di Lenin

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L’immagine di Lenin sdraiato sul fieno con un filo d’erba in bocca è tratta da Rasskazy o Lenine (Racconti su Lenin, 1957) di Sergej Jutkevič, regista formatosi alla scuola di Mejerchol’d. Il fotogramma fa parte del primo dei due racconti che compongono il film sovietico, nel quale si narra della fuga di Lenin nella campagna russa ai confini con la Finlandia (Ul’janov è ricercato dai cosacchi, che hanno l’incarico di arrestarlo con l’accusa di spionaggio). Lontano dalla sua casa di Pietrogrado, Lenin si crea uno «studio nel verde» (zelënyj kabinet), presso la casa dei contadini che lo nascondono, vicino ad un fienile, tra le betulle, usando due ceppi come sedia e tavolo (immagine che riporta, fosse anche involontariamente, all’«orto» ricordato in Atti impuri, dove Pasolini passava «lunghe ore […] leggendo o scrivendo»). Lì Lenin continua a lavorare agli articoli per la Pravda e a Stato e rivoluzione. Pasolini seleziona la brevissima serie di fotogrammi che mostra lo statista sdraiato sul fieno, che medita guardando il cielo (altra immagine pasoliniana topica), tenendo un filo d’erba in bocca, e quindi prende la matita e scrive. Sebbene nella costruzione delle inquadrature dedicate al Lenin nello zelënyj kabinet si rifletta con evidenza l’iconografia stereotipata della ritrattistica del Realismo socialista dedicata al padre dell’Ottobre, Maksim Štrauch, l’attore che lo interpreta, annulla ogni retorica attraverso la recitazione. I gesti sono studiati, è vero, ed è evidente la volontà e la necessità di imitare il modello in modo quasi scientifico, ma altrettanto evidente è la consapevolezza del proprio corpo attoriale, che non è simulacro, ma realmente (non realisticamente) segno (di Lenin, in questo caso) all’interno di un progetto semiotico (come l’attore aveva appreso alla scuola di Ejzenštein e di Mejerchol’d). Difficile supporre che Pasolini potesse avere coscienza di tutto questo al momento della scelta delle immagini del film di Jutkevič (anche se tre anni dopo, nel 1966, le sue riflessioni sul linguaggio del cinema ricorderanno in modo suggestivo quelle di Ejzenštein). Di fatto, però, anche se per pura intuizione estetica e politica, Pasolini individua nell’interpretazione di Štrauch (nel suo cinèma) un elemento affine alla sua idea di cinema, preferendo un Lenin cinematografico a quello “vero” rintracciabile nei documentari disponibili presso l’archivio di Italia-Urss; cosa che gli permette, inoltre, di proporre un’immagine altrimenti impossibile da trovare, quella di un Lenin steso sul fieno con in bocca un filo d’erba. E a Pasolini serviva proprio quell’immagine (che nel suo campo semantico comprendeva anche il se stesso di Casarsa) per rendere l’idea del leader della Rivoluzione russa quale intellettuale immerso nel mondo della Tradizione. Il topos del fiore o lo stelo d’erba in bocca accompagna l’opera di Pasolini dagli esordi di Atti impuri fino a Petrolio. È un topos nato in Friuli, nelle campagne di Casarsa, dove, negli anni Quaranta, Pasolini annota le immagini di fiori, erba, fieno, grano e alberi, che formeranno uno stabile nucleo iconico all’interno del suo immaginario e della sua ideologia. La natura friulana è il deposito uterino dei segni che dicono l’infanzia, la madre, la morte del fratello, l’omosessualità, il ballo, la musica, la religiosità e la perdita della fede, l’approccio erotico/pedagogico ai giovani, le questioni linguistiche, la filologia, la pittura, l’adesione al marxismo. La poesia. Da un punto di vista ‘figurale’ (o meglio dell’ ‘immagine’, come avrebbe detto Pavese), essa media due realtà: l’eros concreto e carnale dei giovani contadini (che diventerà poi quello dei sottoproletari romani e infine dei giovani del “Terzo Mondo”), e l’ ‘innocenza’, forza politica, pura, barbara e sensuale, espressione del Passato. All’interno di questa più vasta ‘figura’, l’immagine del fiore, o dello stelo d’erba in bocca, fissa, in particolare, i segni dell’eros di cui è intriso il ruolo pedagogico che Pasolini si assume in Friuli, e dell’innocenza rivoluzionaria appresa durante le lotte contadine nelle campagne intorno a Casarsa che lo condurranno all’adesione al marxismo (come ricorda il poeta, «una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista»).

Il fotogramma di Lenin all’interno della Rabbia va letto, dunque, attraverso il topos del fiore o dello stelo d’erba, naturalmente, che perde però la sua valenza erotica, per enfatizzare quella legata al valore rivoluzionario dell’innocenza contadina, della Tradizione. Il primissimo piano del padre dell’Ottobre, che apre il lungo episodio ‘sovietico’ del film, è accompagnato da parole molto chiare in tal senso – «Una nazione che ricominci la sua storia, ridà prima di tutto agli uomini l’umiltà di assomigliare con innocenza ai padri. La tradizione!». Il punto in cui Lenin appare rappresenta uno snodo fondamentale nel discorso ideologico della Rabbia pasoliniana, proponendo forse il punto più dolente e drammatico del pensiero del poeta negli anni Sessanta – quale cultura può essere davvero rivoluzionaria? Quella contadina e operaia, o quella intellettuale borghese? Lenin, da intellettuale (come Pasolini stesso), appartiene alla cultura borghese, quella che, come insegna Spinoza a Julian in Porcile, ha creato tanto i capolavori della letteratura e del pensiero moderno quanto il nazismo. Una cultura che ha ridotto in schemi logici l’«innocenza dei padri», e che attraverso il cristianesimo ha strutturato l’innocenza anche nel mondo contadino. Come ripete spesso Pasolini, riprendendo Lenin, i contadini sono anche dei piccolo-borghesi, che ambiscono a integrarsi nel mondo del Logos. La risposta è quindi complessa, ma può essere individuata nel «cinèma» del Lenin che scrive Stato e rivoluzione mentre gioca con un filo d’erba in bocca, come farebbe un ragazzo contadino o lo stesso Pasolini casarsese. La Tradizione è rivoluzionaria («la Rivoluzione salva il Passato»), ma perché lo sia effettivamente deve essere coscienza del presente in progress, non suo vincolo. E deve essere ‘innocente’, cioè vitale e non modellizzante. Perciò appartiene sì al mondo dei padri, alla barbarie contadina, ma può (e deve) essere anche parte integrante del pensiero dell’intelligent borghese. Deve cioè conciliare le radici innocenti del Passato (il filo d’erba) con la costruzione culturale (intellettuale-borghese) del Progresso (la scrittura di Stato e rivoluzione), nella prospettiva di una rivoluzione che è «marcia» verso il «totale decentramento del potere», come voleva il pensiero di Lenin e di Marx che lo stato sovietico post-leninista ha tradito. Perché ciò accada, l’intellettuale borghese deve immergersi nell’umile innocenza della Tradizione. Il lungo stelo del fiore degli autoritratti della fine degli anni Quaranta, come il filo d’erba di Lenin, dicono proprio di questo. Pasolini ricerca quell’innocenza prima nei giovani contadini friulani, poi nei sottoproletari romani, e infine nei ragazzi del sud dell’Italia e del mondo, e se ne appropria, carnalmente e ideologicamente, come di una linfa vitale. Il Lenin di Rasskazy o Lenine si finge aiutante del contadino che lo ospita, si confronta con lui, con umiltà, imparando e insegnando. Il Pasolini di Casarsa (ma così sarà sempre, per il poeta) è nello stesso tempo pedagogo e discepolo dei suoi ragazzi e del loro mondo. Lenin lo è dei contadini che ne proteggono la fuga. Privata dell’elemento erotico, imprescindibile in Pasolini, l’immagine dello statista russo sdraiato sul fieno mentre lavora alla teoria e alla prassi dell’Ottobre, è perciò, in qualche modo, un altro autoritratto del poeta, da accostare a quelli del ’46 e del ’47.

Nel 1973, Pasolini viene fotografato da Massimo Listri con un fiore in bocca, di fronte al suo autoritratto del 1947. Un gioco di specchi tipicamente pasoliniano, che rimanda a Narciso (tema di un’altra sua opera pittorica degli anni Quaranta, oltre che delle ben note composizioni della prima raccolta casarsese), e raddoppia il topos dell’ ‘intellettuale-contadino’. Ma lo sguardo ironico del poeta dice che ora il gioco è scoperto (anzi, che, dopo l’abiura della Trilogia della vita, egli non ha «voglia più di giuocare», come scrive a Moravia nella lettera che accompagna il dattiloscritto di Petrolio spedito all’amico). La disillusione non è resa (non lo sarà mai, per Pasolini), ma è coscienza che il tempo romantico degli ideali della rivoluzione ‘antica’ e innocente è ormai irrimediabilmente finito. È arrivato il tempo del ‘meta’ (come il poeta aveva appreso da Jakobson) – la meta-storia e la sua meta-rappresentazione e meta-narrazione. Anche l’autoritratto diventa perciò meta-ritratto, pastiche dichiarato, citazione di citazione, procedimento (šklovskiano) esplicitato. Dieci anni dopo la Rabbia nessuna identificazione poteva ormai essere più possibile con il Lenin disteso sul fieno, con un filo d’erba in bocca.

 

Bibliografia

P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Milano, Mondadori, 1999.

P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude,  Milano, Mondadori, 1999.

P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999.

P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001.

P.P. Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2001.