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Il volume di Riccardo Donati (Quodlibet, 2022) innesca un’interessante riflessione già a partire dal sottotitolo, appunto Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici. La suggestiva epitome invita il lettore a porsi alcune domande sulla concretezza e la materialità dei media. Da una parte abbiamo la corporeità della parola, dall’altra la presenza fantasmatica di alcune emanazioni cinematografiche. Ci si muove dunque in un continuum il cui centro è occupato dall’immaginario[1] e alle cui estremità si trovano rispettivamente la parola poetica e il cinema. Siamo quindi di fronte a due materialità messe in comunicazione da un diaframma immateriale, in un circuito dialogico così strutturato: materialità dell’immagine-in-movimento – immaginario spettrale – materialità testuale. Gli spettri si staccano dal corpo del cinema e formano un immaginario che è il diretto responsabile di precise «referenze» o «trasposizioni intermediali».[2] ‘Intermedialità’ qui intesa quindi come continua permeabilità tra la concretezza del cinema e quella parola, filtrata però attraverso un preciso immaginario e realizzata il più delle volte per mezzo di una particolare forma di traduzione intersemiotica: l’ekphrasis. In definitiva, si va dal materiale al materiale, transitando per l’incorporeo. Dal medium cinema al medium poesia, passando per il dispositivo dell’immaginario.

Al di là, comunque, di questa suggestione, il testo di Donati è tutt’altro che astratto e si fonda su connessioni tangibilissime tra la poesia italiana del Novecento e alcune figure iconiche della storia del cinema. Queste ultime assurte ad autentiche ‘emozioni mediali cinematografiche’ nello stesso momento in cui – alludendo alla «componente puramente visiva, intuitiva dell’immagine filmica e insieme a quella mentale» (p. 8) – si sono fatte responsabili di una «soddisfazione immaginaria dei desideri inconsci», di un «divertimento» ambivalente, «di una credenza condivisa» (p. 8).

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Rappresentare artisticamente il perturbante, o per essere più precisi quel sentimento commisto di familiarità ed estraneità che Freud chiama Unheimliche, è una questione che porta a ridefinire la relazione tra la percezione psichico-corporea della realtà e il raggio d’influenza dell’inconscio; e quindi, in ultimo, a (de)strutturare le ragioni dell’immaginario. In questa direzione si muove la ricerca espressiva di Laura Fortin che esplora, per mezzo del disegno, nevrosi e inquietudini di un sentire profondamente contemporaneo. Nello specifico l’artista, la cui poetica denota alcune tangenze con la temperie della dark art, pone al centro delle proprie opere una linea d’ombra tra corpo e mente, tra coscienza sensoriale e interpretazione intellettiva, che non di rado si risolve nella raffigurazione di soggetti difformi dalla norma codificata, che perciò non sarebbe lecito mostrare, e anzi andrebbe rimosso: diciamo pure un eccesso, uno scarto.

Nero residuo, accolto nella raffinata collana d’arte de Le Farfalle (2022), non fa eccezione rispetto a quanto detto finora. Il volume consta di quattordici disegni di Fortin – il cui numero parrebbe richiamare una personale ‘via crucis’ di un corpo-psiche femminile ferito – e da altrettanti testi poetici di Roberto Deidier, interlocutore idealmente «all’altro capo» (come titola l’ultimo libro edito per Lo specchio Mondadori) che raccoglie l’implicita richiesta di dare voce al dolore e al disagio dell’artista. Il lavoro di Deidier si presenta dunque come la traduzione poetico-verbale del perturbante di Fortin, ovvero della cifra stilistica di Nero residuo volta a una rappresentazione-ossessione della corporeità femminile che rinnega le proporzioni naturalistiche poiché la realtà, qui, coincidendo con il corpo-mente di chi disegna, è un luogo di estraneazione e di minaccia.

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Ci sono casi particolari in cui la relazione tra il critico e l’opera di un determinato autore si dispiega nel corso del tempo in «una lunga fedeltà» (come nell’esempio di Contini verso Montale), ovvero essa dà testimonianza di una frequentazione assidua, ininterrotta e soprattutto definita da un atteggiamento di lealtà del primo nei confronti della seconda. Se è vero che il critico sarebbe colui che, ponendosi al servizio dell’opera, sta un passo indietro rispetto ad essa, allora è laddove tale rapporto non si instaura in questi termini che è più probabile rintracciare episodi di tradimento-allontanamento seguiti da altrettanti improvvisi ritorni di fiamma.

Quest’ultimo è certamente il caso di Walter Siti che nell’arco di mezzo secolo ingaggia un vero e proprio agone con la figura di Pasolini: corpo-fantasma che porta il vessillo di un desiderio erotico prima rimosso e poi rimodellato altrove e con altri mezzi. Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini (Rizzoli, 2022) è infatti, prima di tutto, un ‘corpo a corpo’ tra Siti e Pasolini; così serrato e familiare da far venire il sospetto che la lotta sia di Walter contro Pier Paolo, e che la letteratura, come il ‘sesso’ per il poeta de La solitudine, sia un pretesto, vale a dire il piano assolutamente contingente e necessario in cui ha luogo questo incontro-scontro pugilistico suggerito dal titolo, consumato in quindici stazioni o shots, se si vuole immaginare un Siti che pedina dietro una macchina da presa i movimenti di PPP.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
  • Arabeschi n. 20→

 

 

Pier Paolo Pasolini non ha mai codificato una puntuale e organica teoria della recitazione cinematografica ma ha sempre prestato grande attenzione alle scelte di casting, intervenendo continuamente su questioni relative al rapporto con gli attori e le attrici. La sua sensibilità verso la dimensione corporale, l’interesse per la relazione tra spazi e figure fanno sì che ogni film rilanci sempre nuove traiettorie di senso legate alla presenza e alle dinamiche di interazione fra interpreti. L’importanza delle pose, dei gesti, degli sguardi dei personaggi determina una frizione costante fra verità e artificio, puntando alla perfetta combinazione fra carattere e atto performativo.

Con la Galleria «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini si vuole disegnare una mappa delle pratiche e delle teorie attoriali messe in atto dal regista, tema finora poco indagato dalla critica ma decisivo per intendere gli equilibri e le dinamiche del suo sguardo. La struttura prevista sarà quella di un dizionario-atlante, con voci dedicate ad attori e attrici che ricostruiscano – dove è possibile sulla base della documentazione disponibile – la relazione fra il regista e l’attore, le peculiari caratteristiche performative che il viso e il corpo di ogni interprete assumono nei film di Pasolini, oppure (nel caso degli attori professionisti e delle star) le modalità con cui lo scrittore si confronta con la loro immagine divistica.

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1. Introduzione

 

 

Sono i versi di A chi esita, la terza parte di Paesaggio con fratello rotto, trilogia del 2005 firmata Teatro Valdoca; a pronunciarli, al centro del palco, un attore e un’attrice legati in un unico vestito di scena, simbolo di una figura insieme doppia e spezzata. L’immagine funziona bene anche se pensata come manifesto della compagnia, nota per la doppiezza che la caratterizza: il mondo plastico e pittorico della scena, diretto da Cesare Ronconi, e quello verbale (poi sonoro) dei testi poetici di Mariangela Gualtieri, autonomi nella collana einaudiana ma nati per e sul palco.

Molta letteratura critica[2] si è soffermata a lungo su questa spaccatura, che da sempre risulta fertile, ha indagato gli scarti e le potenzialità dell’incontro tra versi e scena, il sofferto passaggio dal silenzio degli esordi alla ‘parola Valdoca’, le tensioni e le sintonie possibili tra corpo e testo. Emanuela Dallagiovanna ha parlato in tal proposito di una «parola incarnata», e quindi della composizione degli spettacoli come di uno «scontro amoroso»,[3] suggerendo che la parola di questo teatro nasca combattendo con la scena e gli attori una guerra innamorata senza tregua, quella che alla fine, proprio esibendo le ferite che procura, garantisce ai lavori un carattere unitario.

È alla luce dei precedenti studi, e al loro fianco, che vogliamo pensare l’indiscussa unità di questi spettacoli come punto di partenza per nuove indagini, tentando una riflessione che proceda per riconoscimenti, somiglianze, e che rintracci una stessa logica a guida di tutte le autorialità gravitanti intorno al gruppo. Questa intuizione nasce nell’occasione per cui, osservando quelli che sono i segni materiali del suo teatro, emerge con forza qualcosa di ‘terzo’ nelle dinamiche spettacolo-attore, attore-regista, spettacolo-spettatori: tali relazioni sembrano seguire le ragioni e i principi della poesia. La centralità del silenzio, i valori di premonizione e conoscenza del sé conferiti alla pratica scenica, la rete di possibili significati e significanti che si tesse a partire da richiami e ascolti interiori, sono motivi percorsi da molti teatri che nel caso Valdoca segnano invece un preciso marchio d’azione.

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Non c’è sperimentalismo nella poesia, c’è

sperimentalismo nella vita, c’è

sperimentalismo finché si fa una ricerca di se

stessi nell’esperienza.

Amelia Rosselli

 

Amelia Rosselli nasce nel 1930 a Parigi, dove i genitori, Marion Cave e Carlo Rosselli, si erano rifugiati dopo il confino a Lipari del padre. La sua infanzia è segnata da numerosi viaggi e trasferimenti, un nomadismo esistenziale forzato dalle contingenze storiche e dall’antifascismo della famiglia. Fuggiasca, profuga, orfana e straniera (Barile 2014, p. 131), la sua è una «formazione non italiana, anglo-francese-americana», come la definisce lei stessa durante l’intervista rilasciata a Renato Minore nel 1984 (Rosselli in Venturini e De March 2010, p. 65), interdisciplinare, e destinata a essere cosmopolita.

«Mi misi ad un certo punto della mia adolescenza a cercare le forme universali», così scrive Amelia in Spazi Metrici (1962), saggio teorico sulla metrica sollecitatole da Pier Paolo Pasolini e pubblicato in coda a Variazioni Belliche nel 1964. La redazione di questo saggio mette in gioco l’ampio patrimonio culturale e di studi da lei coltivato negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (Carpita 2013), e che spazia dalla letteratura all’etnomusicologia, dalla pittura astratta (in particolare Mondrian) alla psicologia della Gestalt e la filosofia orientale. Sono anni decisivi, questi, anche per le sperimentazioni a cavallo fra le arti esercitate dalla giovane Rosselli che, in quel periodo, alla teoria e alla pratica musicale affianca la scrittura a le arti visive: pittura, fotografia e ripresa cinematografica si rivelano esperienze estetiche determinanti per la stesura di Spazi Metrici, e permeano tutta la sua opera. Una modernissima «avanguardia personale» (Paris 2020, p. 129), ai margini, ma tutt’altro che marginale, della letteratura.

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Il volume di Nicoletta Mainardi su Luzi e lo sguardo dell’arte (Edizioni ETS, 2020) propone uno studio inedito della figura di Mario Luzi critico d’arte e poeta. La passione figurativa del poeta non è sconosciuta, così come la sua attività di critico d’arte: i libri en artiste e le prove di poesia visiva sono stati oggetto di indagine da parte degli studiosi negli ultimi anni e già nel 1997 – vivo l’autore – sono stati raccolti gli scritti critici del poeta (Luzi critico d’arte, LoGisma Editore, 1997), con significativi saggi introduttivi. Mainardi apre tuttavia una nuova strada di ricerca, non descrivendo soltanto una vera e propria ‘galleria’ delle opere che Luzi prediligeva e teneva a mente nel suo personale processo di «creazione incessante», ma mettendo finalmente in luce le caratteristiche peculiari del rapporto di scambio reciproco che lega lo «sguardo sull’arte», la critica vera e propria e la produzione letteraria dell’autore. Lo studio tiene costantemente insieme questi tre elementi e rileva come il poeta guardasse all’arte figurativa con occhi plasmati dalla propria poetica, assorbendone d’altro canto immagini e linguaggio – restituiti poi nei testi. Lo stesso Luzi ha parlato di questa complementarità tra figurazione e lingua poetica («La pittura per me è come la parola» è la dichiarazione più celebre, qui a p. 5) in diverse occasioni, e un grande merito di questo libro sta nelle indagini sulla presenza – soprattutto lessicale – dei linguaggi delle arti visive nei componimenti in apparenza più lontani da questo ambito: la studiosa mette bene in evidenza, nei diversi capitoli, come Luzi abbia assorbito la lingua dell’arte e della critica artistica e la riproponga nei suoi testi prettamente poetici, mostrando una stretta correlazione tra i due campi.

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Al talento plurimo di Toti Scialoja, pittore e poeta tra i più originali della cultura italiana novecentesca, è dedicata la recente raccolta di saggi curata da Eloisa Morra, già autrice di un’importante monografia incentrata proprio sull’artista romano. Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte (Carocci, 2019) prende spunto, nel titolo, da un’espressione adoperata dallo stesso Scialoja per definire le sue poesie nonsense degli anni Settanta, capaci di liberare «il bambino dalla soggezione del linguaggio». Un’espressione dentro la quale, come suggerisce Morra nell’introduzione al volume, è in realtà possibile leggere in filigrana l’intera parabola espressiva di Scialoja, funambolicamente tesa sul confine tra parola e figura. A partire dalla definizione proposta da Michele Cometa di ‘doppio talento’ o, meglio, plurimo nel caso di Scialoja, il volume mira a gettare luce sul processo creativo che già l’artista stesso ha saputo sintetizzare in alcuni testi autobiografici, uno su tutti il Giornale di pittura (1991), ma che in Paesaggi di parole riceve un’illuminazione particolarmente efficace grazie all’attenzione che i vari contributi rivolgono a casi di studio capaci di proporre comunque una visione d’insieme del profilo artistico di Scialoja.

Alla ricerca di un ritorno alle origini stesse del fatto artistico sembrano tendere le esperienze, pittorica e poetica, degli stampaggi degli anni Cinquanta e della poesia del nonsense, indagate da Elena Carletti, che suggerisce una comparazione tra le due forme espressive utilizzando un terzo medium, quello fotografico, quale reagente in grado di evidenziare lo snodo epistemologico alla base di entrambi i processi. Come lo statuto della fotografia – intesa qui in termini analogici – si fonda sulla nozione di ‘traccia’, così sia le tele degli stampaggi – in cui è il corpo dello stesso artista a imprimersi sulla materia – che le poesie nonsense – alla cui base si situa il gioco fonatorio della sillabazione che ne rivela la ‘quiddità di senso’ – svelano «l’ignota, drammatica condizione psico-fisica vissuta precisamente nell’immersione del presente» (p. 28). L’impressione delle tele, ma anche i giochi sonori della prima fase poetica di Scialoja, si dispongono come testimonianza tangibile dell’esperienza stessa dell’artista, secondo un rapporto di contiguità che rende la fotografia una metafora cognitiva particolarmente adatta a dar voceall’io lirico anche delle ‘poesie adulte’, in cui i rimandi tematici alla sismografia di luce ripropongono sul piano semantico la pregnanza di quel buio, di quel vuoto che sono la scaturigine stessa dell’atto creativo.

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  • Arabeschi n. 15→

Ne La delicatezza del poco e del niente Roberto Latini legge una selezione di poesie di Mariangela Gualtieri, lasciando che queste scorrano una dopo l'altra, in una sequenza articolata in voce, suoni e respiri. Su un palco minuscolo, al centro di una scena nuda, l'attore vestito di bianco sta solo con il leggio, le aste e i due microfoni dentro una chiazza di luce. Così in un'essenzialità che odora di sacro, di antico, ma anche di accoglienza e di partecipazione, si snodano i singoli testi provenienti da diverse raccolte, come se si trattasse di un'unica poesia.

La limitatezza dello spazio impone un confine dello sguardo, ed è da questo luogo ristretto, controllabile in quanto fatto di margini materiali, che la poesia di Mariangela Gualtieri si smargina nella voce di Roberto Latini e nel paesaggio sonoro costruito da Gianluca Misiti, mentre la semplicità del disegno luci di Max Mugnai rimanda all'essenza primaria del teatro, ovvero al corpo dell'attore che in purezza si offre allo sguardo altrui.

L'inizio con il Monologo del Non so (da Parsifal) immette su una strada maestra che è quella del legame fortissimo della parola con il teatro, attraverso il personaggio che si presenta alla scena e dice 'io', sebbene sia sempre un io che afferma di non sapere, di non capire. Nel dichiarare i propri limiti, l'attore apre un dialogo con lo spettatore, dichiara di sapere poco, ma quel 'poco' lo rivolge ad un altro che ascolta, lo porge come un atto e una richiesta di comunicazione. Più ci si abbandona all'ascolto, lasciandosi guidare dal suono e non dal senso delle parole, più la strada maestra si biforca in sentieri diversi, percorsi possibili in cui l'io di Parsifal diventa il 'voi' del Sermone ai cuccioli della mia specie, assieme predica e preghiera, adorazione e implorazione rivolta agli adulti che siamo e ai bambini che un tempo siamo stati. Il contrasto è molto forte, soprattutto per chi conosce la versione audio pubblicata dal Teatro Valdoca nel 2012; la voce della poetessa che nel Sermone guarda 'da una quasi nausea' il mondo dei grandi e prova pietà, nel timbro maschile di Latini si nutre di nuovi slittamenti di persona, di genere, di numero. Gli aggettivi al femminile come 'piccola' e 'lontanissima' restano credibili e rinnovano, nella loro indicazione di un tempo e di uno spazio che appartengono all'indeterminatezza dell'infanzia, il ricordo di quando ognuno di noi, prima di diventare una persona grande, dal buio provava ad allontanare la paura recitando parole magiche, inventando la propria 'formula che salva'.

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