Roberto Deidier, Laura Fortin, Nero residuo

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Rappresentare artisticamente il perturbante, o per essere più precisi quel sentimento commisto di familiarità ed estraneità che Freud chiama Unheimliche, è una questione che porta a ridefinire la relazione tra la percezione psichico-corporea della realtà e il raggio d’influenza dell’inconscio; e quindi, in ultimo, a (de)strutturare le ragioni dell’immaginario. In questa direzione si muove la ricerca espressiva di Laura Fortin che esplora, per mezzo del disegno, nevrosi e inquietudini di un sentire profondamente contemporaneo. Nello specifico l’artista, la cui poetica denota alcune tangenze con la temperie della dark art, pone al centro delle proprie opere una linea d’ombra tra corpo e mente, tra coscienza sensoriale e interpretazione intellettiva, che non di rado si risolve nella raffigurazione di soggetti difformi dalla norma codificata, che perciò non sarebbe lecito mostrare, e anzi andrebbe rimosso: diciamo pure un eccesso, uno scarto.

Roberto Deidier, Laura Fortin, Nero residuo (Le Farfalle, 2022)

Nero residuo, accolto nella raffinata collana d’arte de Le Farfalle (2022), non fa eccezione rispetto a quanto detto finora. Il volume consta di quattordici disegni di Fortin – il cui numero parrebbe richiamare una personale ‘via crucis’ di un corpo-psiche femminile ferito – e da altrettanti testi poetici di Roberto Deidier, interlocutore idealmente «all’altro capo» (come titola l’ultimo libro edito per Lo specchio Mondadori) che raccoglie l’implicita richiesta di dare voce al dolore e al disagio dell’artista. Il lavoro di Deidier si presenta dunque come la traduzione poetico-verbale del perturbante di Fortin, ovvero della cifra stilistica di Nero residuo volta a una rappresentazione-ossessione della corporeità femminile che rinnega le proporzioni naturalistiche poiché la realtà, qui, coincidendo con il corpo-mente di chi disegna, è un luogo di estraneazione e di minaccia.

Fortin ‘vede’ il corpo da un «interno, specchio del tempo» (II), e da questa prospettiva deformata la parola di Deidier – che al contrario rimane sempre sul crinale della compostezza e della misura ‘illuministica’ del verso – scompone chirurgicamente il testo iconografico così da restituire ai fruitori di Nero residuo la frammentazione anatomico-metaforica del corpo femminile: «Pochi gradini al mio seno oscurato, / Ho il petto come il volto di un pirata. / […] Ho arterie / Come la rete di una calza bene in vista» (II); «Ogni gioia si è nascosta fra i denti. // Un mandala al posto dello stomaco» (III). Posto davanti a una vulva-specchio, il pubblico di spettatori-lettori è invitato a entrare (e a riconoscersi) in una storia che mette a nudo le proprie fragilità e l’urto con il mondo: «Mentre osservi l’occhio della vulva / In quest’urna spoglia, / Fai caso alla mano che preme // Come una resa. Sono in mostra, / Disincantata. Aperta / Come la tua storia» (V).

Nel complesso si potrebbe affermare che l’incontro tra Fortin e Deidier, cioè la collaborazione tra arti visive e arti della parola, in Nero residuo dà luogo a un caso di intermedialità posta sotto il segno dell’integrazione tra i due codici. La resa poetica di Deidier, lontano dal porsi come un’operazione ecfrastica dell’opera di Fortin, lavora infatti a rendere più familiare le spigolosità del tratto figurativo, le linee essenziali dei disegni che non convergono mai verso un punto di fuga geometrico e prospettico. La rappresentazione spaziale del testo iconografico elude ogni criterio di tridimensionalità («La parete è una finzione», II) dal momento che il punctum delle scene di Fortin è dato da un tempo sconvolto, rovesciato, forse persino abiurato; uno spaziotempo soggettivo e asfittico che suggerisce l’idea di una clausura dalla realtà, nonché di una coazione a ripetere l’estraneità dei giorni:

Ovunque sono quattro le linee, le pareti che mi separano dal mondo. Ovunque, sempre. Se sali dalle gambe, ferme lungo lo stesso sterile perimetro, fino a dove pulsano pensieri, la rete s’infittisce e mi scompone in un gioco che non so radunare. Circo della mente dove le stringhe dei giorni convergono in una prospettiva che non so più riconoscere (XI).

Se dunque non è il tempo della ragione, è senz’altro quello del gestus espressivo di Fortin che viene presentato qui come un «residuo» e perciò, se leggiamo bene, come uno scarto, un’anomalia che reclama voce e dignità di presenza. Ed è proprio in questo frangente che il ‘rebus-altalena’ (come per esempio nei disegni IV e XII), davanti a cui Fortin inchioda il nostro sguardo sgomento, trova nei versi di Deidier una configurazione altra del «nero», o, se vogliamo dirla in altri termini, una sponda empatica in cui l’inchiostro della poesia si fa carico della sofferenza iconografica.

Roberto Deidier, Laura Fortin, Nero residuo (Le Farfalle, 2022). Per gentile concessione di Edizioni Le Farfalle e di Laura Fortin

Deidier, soprattutto, sembrerebbe offrire a questo residuo (aborto?) generato da una immaginazione ipertrofica e autotelica una prospettiva di fuga («Dentro di me, nascosta da me, è una sinopia di germogli, una linea viva che permea un labirinto», XIII) che si concretizza nella disposizione all’ascolto e quindi in un poiein logico-lineare che fa breccia nel labirinto visivo (e allucinato) dell’artista. Come se compito della poesia qui fosse quello di intervenire sul disegno per creare (in sinergia con esso) uno sfondo, ovverosia quella «parete» mancante entro cui il soggetto psico-corporeo delle immagini possa stagliarsi per trovare infine, in questa relazione, una inedita apertura verso l’alterità:

 

La trasparenza dell’ostacolo,
La trasparenza del mio riflesso
E notti come una cornice sgombra
Gettata ai piedi di una scala.
Finalmente la porta verso il giorno (XIV).

 

Con questa ipotesi di una ‘uscita’ finale dal proprio sé, chi guarda e legge Nero residuo è chiamato a conferire un senso all’incontro di carne e inchiostro tra i due autori, prima ancora che tra i due diversi media espressivi.