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Non c’è nel Novecento italiano scrittore per cui il rapporto parola e immagine abbia un’evidenza maggiore di quella che attraversa l’intera, multiforme opera di Italo Calvino, dalle atmosfere fiabesche ai giochi combinatori di suggestione postmoderna. Del resto, egli stesso nell’intervento delle Sei lezioni americane dedicato alla ‘Visibilità’ postula con chiarezza tale legame distinguendo due processi immaginativi, l’uno che parte delle parole e approda alle immagini visive, l’altro che, all’opposto, scaturisce dall’immagine visiva e giunge all’espressione verbale, in un continuo, reciproco scambio. E nel definirsi figlio della ‘civiltà delle immagini’ egli precisa come per la sua epoca fondamentali siano state le illustrazioni di riviste e i volumi per l’infanzia.

Ecco perché a Genova le celebrazioni in occasione del centenario della nascita dello scrittore nato a Cuba il 15 ottobre 1923, ma di fatto sanremese, hanno puntato sulla mostra Calvino Cantafavole, allestita fra gli spazi della Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e Casa Luzzati fino al prossimo 7 aprile. Il percorso espositivo, curato da Eloisa Morra, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Toronto e Luca Scarlini, saggista, drammaturgo e studioso di Letterature comparate, ripercorre con esito felice l’immaginario calviniano nelle sue diverse declinazioni nell’intero arco della sua produzione, ricostruendo un rapporto che con il tempo si arricchisce di suggestioni molteplici e di una contaminazione di linguaggi (in una sorta di postmodernismo in taluni momenti ante litteram) ampiamente restituita dai documenti in mostra, frutto di una selezione guidata dall’intento di restituire a quel legame la centralità occupata nella produzione e nella vita dello scrittore.

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Al talento plurimo di Toti Scialoja, pittore e poeta tra i più originali della cultura italiana novecentesca, è dedicata la recente raccolta di saggi curata da Eloisa Morra, già autrice di un’importante monografia incentrata proprio sull’artista romano. Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte (Carocci, 2019) prende spunto, nel titolo, da un’espressione adoperata dallo stesso Scialoja per definire le sue poesie nonsense degli anni Settanta, capaci di liberare «il bambino dalla soggezione del linguaggio». Un’espressione dentro la quale, come suggerisce Morra nell’introduzione al volume, è in realtà possibile leggere in filigrana l’intera parabola espressiva di Scialoja, funambolicamente tesa sul confine tra parola e figura. A partire dalla definizione proposta da Michele Cometa di ‘doppio talento’ o, meglio, plurimo nel caso di Scialoja, il volume mira a gettare luce sul processo creativo che già l’artista stesso ha saputo sintetizzare in alcuni testi autobiografici, uno su tutti il Giornale di pittura (1991), ma che in Paesaggi di parole riceve un’illuminazione particolarmente efficace grazie all’attenzione che i vari contributi rivolgono a casi di studio capaci di proporre comunque una visione d’insieme del profilo artistico di Scialoja.

Alla ricerca di un ritorno alle origini stesse del fatto artistico sembrano tendere le esperienze, pittorica e poetica, degli stampaggi degli anni Cinquanta e della poesia del nonsense, indagate da Elena Carletti, che suggerisce una comparazione tra le due forme espressive utilizzando un terzo medium, quello fotografico, quale reagente in grado di evidenziare lo snodo epistemologico alla base di entrambi i processi. Come lo statuto della fotografia – intesa qui in termini analogici – si fonda sulla nozione di ‘traccia’, così sia le tele degli stampaggi – in cui è il corpo dello stesso artista a imprimersi sulla materia – che le poesie nonsense – alla cui base si situa il gioco fonatorio della sillabazione che ne rivela la ‘quiddità di senso’ – svelano «l’ignota, drammatica condizione psico-fisica vissuta precisamente nell’immersione del presente» (p. 28). L’impressione delle tele, ma anche i giochi sonori della prima fase poetica di Scialoja, si dispongono come testimonianza tangibile dell’esperienza stessa dell’artista, secondo un rapporto di contiguità che rende la fotografia una metafora cognitiva particolarmente adatta a dar voceall’io lirico anche delle ‘poesie adulte’, in cui i rimandi tematici alla sismografia di luce ripropongono sul piano semantico la pregnanza di quel buio, di quel vuoto che sono la scaturigine stessa dell’atto creativo.

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Per i tipi del Verri, è uscito nel 2014 lo studio di Alessandro Giammei Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja. Topi, toponimi, tropi, cronotopi, risultato dalla rielaborazione della tesi di laurea dell’autore. Lo studio è apparso subito meritevole, tanto da essere insignito del prestigioso Edinburgh Gadda Prize – Novecento in saggio (edizione 2015), istituito dall’Università di Edimburgo. Il libro ricostruisce accuratamente la storia culturale della produzione poetica di Toti Scialoja (dalle rime zoomorfe ai poemi in prosa, agli ultimi componimenti), nel quadro di una storia del nonsense italiano, rifiutando una volta per tutte la presunzione di Tomasi di Lampedusa che quella italiana sia una letteratura condannata alla serietà (p. 11). Centrale, e senz’altro innovativo rispetto alla bibliografia esistente, è lo studio della biblioteca dell’autore a via di Santa Maria in Monticelli a Roma. Il libro è ispirato, direi addirittura nutrito anche dalle prime esperienze di Giammei come insegnante di italiano a studenti principianti presso la New York University, e ancora prima presso la sede romana del Dartmouth College – oggi Giammei insegna letteratura italiana a Princeton – testimonianza dell’emergere di una nuova coscienza linguistica, «un’idiomatica fanciullezza» (pp. 8-9). Questo libro sfrutta la sensibilità specialissima del suo autore per i confini delle possibilità espressive dell’italiano, verificate sull’opera di Toti Scialoja, un autore che aveva cominciato la propria esplorazione metalinguistica proprio durante e attraverso un’esperienza di esilio linguistico all’estero, precisamente a Parigi.

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Abstract: ITA | ENG

All'inizio del Novecento il passaggio dalla fisica newtoniana a quella einsteiniana determina un cambiamento di paradigma nel panorama scientifico condiviso. Man mano che le teorie della relatività ristretta si diffondono tra la comunità di intellettuali e tra le persone comuni si assiste a un progressivo mutamento non solo su un piano epistemologico, ma anche sociale, filosofico e artistico. Il cambiamento del paradigma porta dunque a un cambiamento nella visione del mondo. Uno dei concetti emblematici emersi dalla relatività ristretta è quello del cronotopo, ovvero dello spazio-tempo. Il presente saggio si propone di adottare proprio il nucleo epistemologico dello spazio-tempo come asse guida per confrontare interdisciplinariamente la poetica di tre artisti che hanno inglobato le riflessioni sulla spazio-temporalità nella loro produzione artistica. Si partirà dall’arte tetradimensionale proposta dallo spazialismo di Lucio Fontanta per procedere ad analizzare le questioni spazio-temporali nella pittura e nella poesia di Toti Scialoja. Scialoja, quindi, si offrirà come trait d’union per rivelare le profonde affinità tra pensiero pittorico e poetico. Infine, si prenderà in considerazione la spazialità metrica di Amelia Rosselli e la sua poesia considerata come un cubo a quattro dimensioni.

At the beginning of the twentieth century the transition from Newtonian physics to Einsteinian physics determined a paradigm shift in the scientific panorama. As the theory of relativity spread among the community of intellectuals and among people, the whole of society underwent a progressive change, not only on an epistemological level, but also on a social, philosophical and artistic scale. The paradigm shift, thus, led to a change in worldview. One of the emblematic concepts emerged from the theory of relativity is that of chronotope, or space-time. This essay aims to adopt the epistemological concept of space-time as the axis along which to compare the poetics of three artists, who managed to incorporate the reflections on space-time in their artistic production. I shall start from analysing the four-dimensional art proposed by Lucio Fontanta’s spatialism and I will then discuss the issues of space-time in the painting and poetry of Toti Scialoja, who will function as a link to reveal the deep interconnection between visual arts and poetry. Finally, I will consider the spatial metrics of Amelia Rosselli and her poems considered as four-dimensional cubes.

 

We refuse to think that science and art are two distinct facts, and that the gestures made in one of the two disciplines do not also belong to the other. Artists anticipate scientific gestures, scientific gestures always provoke artistic gestures.[1]

Primo Manifesto dello Spazialismo, Milano, 1947

 

Art and science are indistinguishable facts, such is the provocative statement Fontana made in his Primo Manifesto dello Spazialismo, in 1947. Katherine Hayles would define these two disciplines ‘isomorphic’, Edgard Morin would speak of ‘recursivity’ and Pierpaolo Antonello would not hesitate to add philosophy and technology to the equation[2]. The artwork throughout the Twentieth Century, indeed, becomes rhizomatic, since it ingests and in return offers a series of different stimuli, in open dialogue with other art forms, with science, with philosophy and with technology. The artistic research of post-war Italy at large was entangled in this discovery; the fading anachronism of realism (and neorealism) coexisted with new lines of research in the visual arts, as well as in music and writing. The experimental wave looked back and added to the avant-garde movements of the first half of the century, which were now considered «museal art»,[3] ready to become a tradition for much needed innovation after the impasse generated by autarchism and by the fascist regime. Art finally opened up to contamination which was at once transnational and transdisciplinary.

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