Eloisa Morra (a cura di), Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte

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Al talento plurimo di Toti Scialoja, pittore e poeta tra i più originali della cultura italiana novecentesca, è dedicata la recente raccolta di saggi curata da Eloisa Morra, già autrice di un’importante monografia incentrata proprio sull’artista romano. Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte (Carocci, 2019) prende spunto, nel titolo, da un’espressione adoperata dallo stesso Scialoja per definire le sue poesie nonsense degli anni Settanta, capaci di liberare «il bambino dalla soggezione del linguaggio». Un’espressione dentro la quale, come suggerisce Morra nell’introduzione al volume, è in realtà possibile leggere in filigrana l’intera parabola espressiva di Scialoja, funambolicamente tesa sul confine tra parola e figura. A partire dalla definizione proposta da Michele Cometa di ‘doppio talento’ o, meglio, plurimo nel caso di Scialoja, il volume mira a gettare luce sul processo creativo che già l’artista stesso ha saputo sintetizzare in alcuni testi autobiografici, uno su tutti il Giornale di pittura (1991), ma che in Paesaggi di parole riceve un’illuminazione particolarmente efficace grazie all’attenzione che i vari contributi rivolgono a casi di studio capaci di proporre comunque una visione d’insieme del profilo artistico di Scialoja.

Alla ricerca di un ritorno alle origini stesse del fatto artistico sembrano tendere le esperienze, pittorica e poetica, degli stampaggi degli anni Cinquanta e della poesia del nonsense, indagate da Elena Carletti, che suggerisce una comparazione tra le due forme espressive utilizzando un terzo medium, quello fotografico, quale reagente in grado di evidenziare lo snodo epistemologico alla base di entrambi i processi. Come lo statuto della fotografia – intesa qui in termini analogici – si fonda sulla nozione di ‘traccia’, così sia le tele degli stampaggi – in cui è il corpo dello stesso artista a imprimersi sulla materia – che le poesie nonsense – alla cui base si situa il gioco fonatorio della sillabazione che ne rivela la ‘quiddità di senso’ – svelano «l’ignota, drammatica condizione psico-fisica vissuta precisamente nell’immersione del presente» (p. 28). L’impressione delle tele, ma anche i giochi sonori della prima fase poetica di Scialoja, si dispongono come testimonianza tangibile dell’esperienza stessa dell’artista, secondo un rapporto di contiguità che rende la fotografia una metafora cognitiva particolarmente adatta a dar voceall’io lirico anche delle ‘poesie adulte’, in cui i rimandi tematici alla sismografia di luce ripropongono sul piano semantico la pregnanza di quel buio, di quel vuoto che sono la scaturigine stessa dell’atto creativo.

Il secondo contributo, a firma di Eloisa Morra, ci conduce nell’officina mentale dell’artista, attraverso un close reading delle pagine del Giornale di pittura (1991), vero e proprio zibaldone – come lo definisce la studiosa – in cui Scialoja ha raccolto le proprie riflessioni sul dipingere con un andamento diaristico e giornaliero tra il 1954 e il 1964, per poi rarefarne la scrittura nei decenni successivi. Con un occhio attento tanto al piano del contenuto quanto a quello della forma, Morra rintraccia la riflessione teorica di Scialoja, ancorata a un’idea di arte spaziale e temporale insieme, che nel principio della sovraimpressione e stratificazione, tipiche dell’action painting ma anche delle prove più tardive dell’artista, trova la via per trasformare la superficie, e non più la prospettiva, nello strumento atto a far emergere il ‘racconto del tempo’. Anche lo stile della scrittura scialojana tende al medesimo fine, evitando le ekphrasis e avvalendosi, piuttosto, di un lessico capace di aderire alla materialità del gesto pittorico senza rinunciare alla potenzialità evocativa dell’astrazione.

Un lato piuttosto inedito di Toti Scialoja viene messo a fuoco da Chiara Mari, che tratta di un aspetto altamente sintomatico del clima di fervore culturale che animava anche la televisione pubblica negli anni Settanta. Si tratta delle collaborazioni che l’artista instaurò con la RAI, grazie alla mediazione di Donatella Ziliotto, in quanto scenografo e costumista per alcune trasmissioni dedicate al pubblico dell’infanzia. In Le fiabe dell’albero (1974) e Fantaghirò (1975) è evidente l’apporto scialojano nell’ideazione di uno scenario essenziale e astratto, in cui gli oggetti assumono un potere altamente allusivo, all’interno del quale si riconosce anche un’eco del coevo dibattito sulle fiabe popolari portato avanti da Italo Calvino. Ed è proprio con quest’ultimo che Scialoja concepirà una trasmissione purtroppo mai messa in onda, ma di cui Mari ci restituisce preziosamente le tracce: Teatro dei ventagli – così avrebbe dovuto chiamarsi – si configura come una serie di racconti fiabeschi scritti da Calvino e ispirati da alcuni oggetti scenici, a partire dai quali Scialoja progettò scenografie, costumi ma anche movimenti di scena in stretta consonanza con la ‘visibilità’ calviniana, ma in linea anche con la centralità della riflessione materica che investe la superficie nella pittura dell’artista. Chiara Mari ci restituisce questa suggestiva esperienza mancata grazie a un sapiente lavoro di archivio, di lettura e di interpretazione delle carte e dei bozzetti sopravvissuti.

A suggellare il passaggio dai saggi più legati alle arti visive a quelli maggiormente impegnati nell’analisi poetica, si pone il contributo a quattro mani di Valeria Eufemia ed Eloisa Morra, le quali stilano idealmente un catalogo analitico dei libri d’artista di Scialoja, oggetti inafferrabili a cavallo tra parola e immagine, tra libro e manufatto d’arte, spesso di difficile reperimento perché a bassissima tiratura, in cui il talento plurale dell’artista si esprime nel confronto serrato tra la pagina scritta e quella illustrata.

Gli ultimi tre contributi della raccolta propongono un affondo nella parola poetica di Scialoja, solo apparentemente dicotomica nelle due direttrici dei componimenti ‘per l’infanzia’ o nonsense, e quelli della fase ‘adulta’ o ‘seria’. In realtà le due linee, più che disporsi in modo parallelo, si intrecciano profondamente già a partire dagli anni Sessanta, e gli autori e le autrici dei tre saggi ci accompagnano lungo un attraversamento degli orizzonti della parola, mai svincolata dal suo potere immaginativo e immaginifico.

Guardando soprattutto al rapporto con il nonsense, Laura Lucia Rossi evidenzia le strategie sperimentali messe in atto dallo Scialoja poeta, che si allontana dalle esperienze più estreme della neoavanguardia e che gioca con il lettore attraverso la sovversione del senso compiuto, sfruttando, e non rifiutando, le norme del linguaggio comune. Il ricorso a forme metriche regolari, alla rima, alla citazione, al modo di dire produce quello ‘choc dell’inatteso’ che prima fa «leva sul senso comune, per poi scardinarlo e infine farlo esplodere nella nonsensicità» (p. 85). Inoltre, l’abbondanza di figure retoriche quali «agglutinazioni, concrezioni, annominazioni, scomposizioni, poliptoti, paronomasie» contribuiscono alla creazione di un mondo combinatorio e puramente linguistico da cui il lettore non viene respinto, ma piuttosto invitato ad abbandonarsi alla «magia della parola» (p. 94).

Valeria Eufemia si concentra invece sull’ultima fase della produzione poetica di Scialoja, in cui il poeta sperimenta un ritorno alla dimensione mitica della tradizione metrica attraverso una reinterpretazione personale dell’esametro. Questo processo di ‘rivitalizzazione della tradizione’ avviene in modo volutamente imperfetto, rispettando più il ritmo che non la partitura sillabica in ottonari e novenari, delineando un interessante parallelismo tra parola e pittura: l’alternanza di sillabe toniche e atone, nell’interpretazione di Eufemia, sembra riproporre sulla pagina scritta quell’accostamento tra pieni e vuoti tipici delle tele dell’artista. Anche da un punto di vista tematico, gli esametri di Scialoja presentano un’insistenza sulla dicotomia memoria/oblio, e in particolare sull’amnesia «intesa come il recupero di una condizione primigenia» (p. 102).

Chiude il volume la lettura attenta di Federico Francucci a proposito delle ultime raccolte dell’autore romano, Cielo coperto e Costellazioni, di cui alcuni componimenti vengono sottoposti a un’analisi del testo puntuale, tesa a sottolineare di nuovo il nesso strettissimo tra verso e immagine, e in particolare il manifestarsi, come ci dice Francucci a proposito di Nuda che scende le scale, di «un erotismo dell’immaginazione attiva, processuale e tecnicamente disciplinata, che ci permette di sentir arrivare un’immagine in movimento, o di sentire il farsi di un’immagine» (p. 125).

Attraversando fotogrammi pittorico-verbali, sillabazioni nonsense, passando per il Giornale di pittura, le collaborazioni scenografiche, i meno noti libri d’artista, fino all’ultima produzione poetica, Paesaggi di parole delinea il ritratto di uno Scialoja inquieto, sperimentatore, amante di una ritualità creativa che costantemente ha inseguito, senza mai esaurirla, quella tensione così proficua che si instaura fra parola e immagine nel loro incontrarsi e mescolarsi reciproco.