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Una scultura monumentale, quasi totemica, composta da cavi elettrici e fili di rame che, intrecciati come fasci muscolari protesi verso l’alto, terminano in un’enigmatica protome animale. L’autore dell’installazione, l’artista praghese Krištof Kintera, utilizza scarti di produzione industriale per costruire organismi sintetici in cui ogni tipo di materiale, rizomaticamente, diventa elemento ri-plasmabile in funzione di una nuova creazione.

È questa la copertina del libro CHANGES. Riscritture, sconfinamenti, talenti plurimi, che Angela Albanese ha recentemente curato per i tipi di Mimesis.[1] Il carattere evocativo dell’immagine scelta, che rinvia alla mutazione, alla riconfigurazione e all’interpretazione in atto, ben introduce alla lettura di uno studio prismatico, in cui si moltiplicano gli sguardi analitici su un fenomeno cruciale della cultura contemporanea: le dinamiche di ibridazione e intreccio tra linguaggi eterogenei – visivo, verbale, musicale – che si attivano negli autori dal talento plurimo.

Ponendosi all’interno di un dibattito vasto e composito, che supera i confini disciplinari e che evidenzia la necessità di un approccio comparatistico, il volume curato da Albanese ha senz’altro il merito di porre l’accento su alcuni specimina esemplari relativi alla categoria ermeneutica del Doppelbegabung (letteralmente ‘doppio talento’), tutti sostanziati dall’idea-chiave di sconfinamento tra codici diversi da parte di un medesimo artista.

Per orientare i lettori nel canone di exempla presi in esame, l’introduzione redatta dalla curatrice riassume in modo puntuale gli ultimi approdi teorico-critici intorno al tema del polimorfismo autoriale, a partire dalla basilare distinzione introdotta da Michele Cometa tra doppio talento inteso in senso stretto (quando l’autore fa esperienza di due media considerandoli però come sfere di azione distinte), concrescenza genetica (quando i due media concorrono entrambi alla genesi dell’opera) e intreccio dialogico (quando uno dei due linguaggi integra, amplifica, interpreta e completa l’altro).[2]

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Al talento plurimo di Toti Scialoja, pittore e poeta tra i più originali della cultura italiana novecentesca, è dedicata la recente raccolta di saggi curata da Eloisa Morra, già autrice di un’importante monografia incentrata proprio sull’artista romano. Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte (Carocci, 2019) prende spunto, nel titolo, da un’espressione adoperata dallo stesso Scialoja per definire le sue poesie nonsense degli anni Settanta, capaci di liberare «il bambino dalla soggezione del linguaggio». Un’espressione dentro la quale, come suggerisce Morra nell’introduzione al volume, è in realtà possibile leggere in filigrana l’intera parabola espressiva di Scialoja, funambolicamente tesa sul confine tra parola e figura. A partire dalla definizione proposta da Michele Cometa di ‘doppio talento’ o, meglio, plurimo nel caso di Scialoja, il volume mira a gettare luce sul processo creativo che già l’artista stesso ha saputo sintetizzare in alcuni testi autobiografici, uno su tutti il Giornale di pittura (1991), ma che in Paesaggi di parole riceve un’illuminazione particolarmente efficace grazie all’attenzione che i vari contributi rivolgono a casi di studio capaci di proporre comunque una visione d’insieme del profilo artistico di Scialoja.

Alla ricerca di un ritorno alle origini stesse del fatto artistico sembrano tendere le esperienze, pittorica e poetica, degli stampaggi degli anni Cinquanta e della poesia del nonsense, indagate da Elena Carletti, che suggerisce una comparazione tra le due forme espressive utilizzando un terzo medium, quello fotografico, quale reagente in grado di evidenziare lo snodo epistemologico alla base di entrambi i processi. Come lo statuto della fotografia – intesa qui in termini analogici – si fonda sulla nozione di ‘traccia’, così sia le tele degli stampaggi – in cui è il corpo dello stesso artista a imprimersi sulla materia – che le poesie nonsense – alla cui base si situa il gioco fonatorio della sillabazione che ne rivela la ‘quiddità di senso’ – svelano «l’ignota, drammatica condizione psico-fisica vissuta precisamente nell’immersione del presente» (p. 28). L’impressione delle tele, ma anche i giochi sonori della prima fase poetica di Scialoja, si dispongono come testimonianza tangibile dell’esperienza stessa dell’artista, secondo un rapporto di contiguità che rende la fotografia una metafora cognitiva particolarmente adatta a dar voceall’io lirico anche delle ‘poesie adulte’, in cui i rimandi tematici alla sismografia di luce ripropongono sul piano semantico la pregnanza di quel buio, di quel vuoto che sono la scaturigine stessa dell’atto creativo.

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Provare a indagare la figura poliedrica del letterato artista Ardengo Soffici non è un’operazione priva di rischi. Ciò nonostante, nel volume edito da Le Lettere, il giovane studioso Ruben Donno li affronta senza timore, destreggiandosi all’interno di una letteratura critica vasta e interdisciplinare. L’intento dell’autore è quello di avanzare, attraverso una dettagliata ricostruzione cronologica della vita dell’artista, una lettura contigua della sua opera letteraria e figurativa. Sin dal primo capitolo difatti, essa viene esplorata in maniera duplice: da un lato, analizzando l’attenta scelta lessicale che lascia trasparire il genuino soggettivismo proprio della sperimentazione letteraria di Soffici, dall’altro, ponendola in dialogo con l’operazione eminentemente ecfrastica della critica longhiana. Il denominatore comune di questa particolare forma di scrittura è rappresentato per Donno dalla messa in luce di una volontà sottesa nel «dare forma plastica alle parole e far sì che esse, fuoriuscendo dalla pagina per effetto pop-up, possano modellarsi concretamente sulla scorta del dato figurativo» (p. 25). L’uso fluido di una terminologia specifica, priva dei tecnicismi propri della disciplina storico-artistica, coadiuvato dal forte gusto narrativo e metaforico – non esente da localismi e toni colloquiali – evidenzia così quel «parlar figurato» (G. De Robertis, ‘Ardengo Soffici’, in A. Soffici, Fior Fiore. Pagine scelte e ordinate da Giuseppe De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 15) che caratterizza la scrittura dell’autore del Poggio, oggetto di curiosità e interesse di un pubblico eterogeneo.

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«Marchesi era un argine, Walter era la piena. […] Walter danzava sulle parole come se fossero scarpe. Marchesi lavorava sulle parole come un ciabattino». Il ricordo di Tatti Sanguineti (2015) di due personalità celebri del mondo dello spettacolo, Walter Chiari e Marcello Marchesi, ci sembra un interessante punto di partenza per analizzare e avvicinare le due autobiografie di un autore e di un attore protagonisti di un lungo e prolifico sodalizio. L’autobiografia di Walter Chiari Quando spunta la luna a Walterchiari. Semiromanzo quasi biografico (1974) e in special modo il romanzo di Marcello Marchesi Il Malloppo (1971), infatti, oltre ad essere editi nel medesimo periodo storico (siamo nella prima metà degli anni Settanta ed entrambe le figure si trovano ad un punto di svolta sia a livello personale che professionale) sono in primo luogo due testi che mostrano il rapporto, talvolta conflittuale, con la parola. Se per Marchesi le parole si aggrovigliano, si attorcigliano e appesantiscono l’animo umano (il ‘malloppo’ è il nome dato al peso che affligge le persone e che le costringe, infine, a svuotarsi in un flusso di coscienza ininterrotto), per Chiari, al contrario, la parola non ha un peso specifico ma è vaporosa e leggera. L’articolo tenterà di osservare le due autobiografie alla luce dei recenti studi sul doppio talento e sulle ‘divagrafie’, e cercherà di definire quali siano gli obiettivi e quali le speranze riposte da Chiari e Marchesi nella scrittura (del sé e per sé).

«Marchesi was a bank, Walter was the flood […] Walter danced on words as they were shoes. Marchesi worked with words like a cobbler». Tatti Sanguineti’s memory represents an interesting starting point for reflections on Walter Chiari and Marcello Marchesi’s autobiographies. Chiari’s autobiography Quando spunta la luna a Walterchiari. Semiromanzo quasi biografico (1974) and Marcello Marchesi’s Il Malloppo (1971), published in the same period, show in a clearly and exemplifying way the complex and somehow conflicting relationship between author and words. According to Marchesi, words are heavy and they weigh the human spirit down (the ‘malloppo’ is the weight that troubles the main character); on the contrary, according to Chiari words haven’t got a specific weight, they are light and weightless. Starting from the latest studies on ‘double talent’ and on the so-called ‘divagrafie’, this paper focuses on Chiari and Marchesi’s autobiographies and on their peculiar way of ‘writing the self’.

 

scambiamoci un sacco

d’idee sbagliate

 

invecchiamo un’ora insieme.

Marcello Marchesi

 

1. Premessa

«Marchesi era un argine, Walter era la piena. […] Walter danzava sulle parole come se fossero scarpe. Marchesi lavorava sulle parole come un ciabattino».[1] Il ricordo di Tatti Sanguineti di due celebri personalità del mondo dello spettacolo, Walter Chiari e Marcello Marchesi, ci sembra un interessante punto di partenza per analizzare e avvicinare le autobiografie di un autore e di un attore protagonisti di un lungo e prolifico sodalizio.

Marcello Marchesi e Walter Chiari si incontrano nel 1947, e da quell’anno ha inizio una collaborazione che interseca al contempo il teatro, il cinema[2] e, in tempi successivi, la televisione. Tra i diversi autori che hanno avuto modo di scrivere testi per Chiari, Marchesi risulta fin da subito il più adatto a trattare e ad arginare l’inesauribile e generoso flusso di parole dell’attore. L’autore milanese, in sostanza, sembra parlare la medesima lingua di Walter Chiari, tanto da divenirne una sorta di controfigura; sono ormai noti, infatti, i racconti legati ai proverbiali ritardi e alle vere e proprie sparizioni di Chiari nel corso dei suoi spettacoli teatrali, così come sono passate agli annali le improvvisate sostituzioni dell’attore compiute da Marchesi stesso. Del resto quest’ultimo era tra i pochi a perdonare all’attore la sua «infantile incapacità alla puntualità e alla osservanza di tutte le altre meschine esigenze della vita che vive maldestramente e da cui non si sa difendere».[3]

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La Cancellatura rappresenta il codice più identificativo del poeta, scrittore e drammaturgo Emilio Isgrò. Assieme alla poesia visiva, delinea ancora oggi l’indagine che l’artista siciliano conduce sul fronte linguistico, alla ricerca sempre di un significato nuovo della parola e dell’immagine, minacciate dalla cultura massmediatica. Negli stessi anni George Steiner riflette attraverso una serie di saggi raccolti in Linguaggio e Silenzio, sul senso della parola nel Novecento e sui valori ormai sbiaditi della cultura umanistica europea. Entrambi gli autori si soffermano, quindi, su una questione cruciale che riguarda il destino della parola e il suo valore semantico. Il linguaggio di Isgrò si affianca anche a quello di altri poeti e artisti che hanno rinnovato le loro espressività attraverso il silenzio e cercato con esso di sanare il rapporto con la parola per rinnovarne significati e rigenerare discorsi umani. 

The Erasure represents the most identifying code of the poet, writer and playwright Emilio Isgrò. It still outlines, together with visual poetry, the investigation that the Sicilian artist leads on the linguistic front, always looking for a new meaning of words and images, threatened by the mass media culture. In the same years, George Steiner reflects, through a series of essays collected in Linguaggio e Silenzio, on the meaning of the word in the twentieth century and on the faded values of the European humanistic culture. Therefore, both authors focus on a crucial issue that concern the destiny of the word and its semantic value. Isgrò's language also joins that of other poets and artists who have renewed their expressiveness through the silence and have tried, through it, to heal the relationship with the word to renew its meanings and to regenerate human discourses.

 

 

 

 

Nel 1964 Emilio Isgrò scopre la cancellatura. L’episodio che ricorda l’occasione di tale scoperta è quello avvenuto a Venezia negli anni in cui l’artista curava le pagine culturali de Il Gazzettino. L’articolo di giornale tanto incriminato apparteneva forse a Comisso, Palazzeschi o Zanzotto e i dubbi sul contenuto di quella scrittura costrinsero l’artista ancora giovane a cancellare tutte le parti ritenute spurie. Sebbene Isgrò rievochi quell’editing come una mezza bugia – che della parte opposta rivela una profonda verità – quell’episodio si ritiene significativo non solo per lui, che da quel momento diventa il ‘maestro cancellatore’, quanto per l’eco incisiva che quell’atto, quasi sacrilego, fece scaturire nel mondo dell’arte e della letteratura. L’invenzione della cancellatura, accompagnata dalla profonda e duratura riflessione sul suo valore estetico, sta a fianco alle audaci sperimentazioni del Novecento e diventava un gesto che, seppur nato quasi per caso, è destinato a diventare un linguaggio.

La cancellatura fino al quel momento era stata considerata, infatti, una pratica di poco valore, un segno funzionale alla scrittura, l’impronta di una mente che ragiona sull’errore. Cancellare significava mettere in discussione una parola o una frase (un’immagine) che per motivi di natura grammaticale o sintattica, semantica, non meritava di essere pronunciata sul foglio. Da Isgrò in poi, invece, all’interno del ‘mondo naturale’ della scrittura e del linguaggio, questo gesto quasi incauto diviene esso stesso segno poetico. L’artista lo considera «un processo dialettico in vitro»,[2] che riqualifica il gesto dell’errore, non interrompe più discorsi e significati ma è capace di generarne di nuovi. Sembra seguire un principio ‘fisico’ ben preciso; analogo a una ‘materia oscura’ del linguaggio, esiste come massa che conserva e si conserva. Non distrugge e non crea, ma trasforma le parole e le cose. «Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola»,[3] una macchia che copre e la libera, separandola dal mondo.[4] L’intuizione profonda di quell’atto fisico rappresenta, nell’immediato, l’inizio di una ricerca che riflette sulle dubbie sorti della parola, sulla condizione del linguaggio che non sembra riuscire più a sprigionare vigore semantico. Sin dagli esordi della cancellatura però Emilio Isgrò medita anche sull’impatto visuale, suggestivo, che la parola cancellata, negata alla sua vocazione alfabetica e fonetica, aveva nell’universo delle immagini. Diventa dunque anche occasione per queste ultime, così volgarmente reiterate e consumate, per purificarsi nel segno della cancellatura.

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Così Franca Valeri racconta nella sua autobiografia per frammenti, Bugiarda no, reticente, l’inizio della sua carriera. Come nei più classici romanzi di formazione, la sua prende avvio con un fallimento. È vicenda nota, infatti, che Valeri non verrà ammessa all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, come avrebbe voluto, restando tuttavia nella capitale sotto la protezione benevola di tre donne – «le tre complici hanno protetto la mia menzogna. “Tutto bene, promossa”» (Valeri 2010, p. 70) – che le permetterà di sperimentare la libertà, l’indipendenza e ancor più l’intraprendenza. Otterrà presto i primi successi teatrali assieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli con cui dà vita, nel 1951, al Teatro dei Gobbi, compagnia che rivoluziona la satira di costume in chiave minimalista. Il gruppo trova immediata fortuna tra le macerie della guerra e una società agli esordi del boom economico, che i tre comici tratteggiano in un susseguirsi di sketch caricaturali fondati su un raffinato equilibrio tra scrittura e gesto scenico. D’altra parte Valeri aveva già affinato le sue doti di osservatrice e cantora della nuova borghesia del dopoguerra nei suoi anni di attività in radio, dove nel 1949 aveva dato vita al personaggio, ben presto mitico, della Signorina Snob [fig. 1]. Personaggia, in realtà, e quanto mai autobiografica, che Valeri ci ricorda essere scaturita dalle attente e divertite esplorazioni adolescenziali, «quando con la mia amatissima amica Billa abbiamo cominciato a trovarci in testa e in bocca il linguaggio delle signore “bene” di Milano» (Valeri 2010, p. 26). «Tipo umano ben definito», la Signorina Snob entra in scena «vestita di parole scritte», con un eloquio «per metà inventato e per metà letterario» (Valeri 2010, pp. 26-27), prima e più evidente testimonianza di una predilezione dell’attrice per la scrittura, vista come pratica inscindibile da quella attoriale. Così ricorda ancora l’attrice-autrice:

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La prima prova narrativa di Laura Morante – dopo la scrittura per il cinema a quattro mani con Daniele Costantini per due film di cui la Morante è anche regista e protagonista (Ciliegine, 2012 e Assolo, 2016) – appare simile al lavoro preliminare di un sarto: è come se sull’ampio pezzo di stoffa delle sue prove cinematografiche l’attrice avesse poggiato un cartamodello traendone un nuovo pezzo, una nuova forma. Soltanto un pezzo, certo, che lascia fuori tutto il resto ma che solo da questo poteva ricavarsi. E forse, per continuare la metafora, quel che appare più interessante dell’opera Brividi immorali. Racconti e interludi (2018) è non la nuova forma bensì proprio l’atto del poggiare la leggera carta sulla stoffa prima del taglio, sia per la scelta dei contenuti che per quella formale della brevità del racconto. Assomigliano tanto i protagonisti degli otto racconti, inframmezzati da sette interludi, ai ruoli interpretati dalla Morante al cinema, ruoli che vanno via via rinsaldandosi, seppur dentro generi cinematografici differenti, fino a costruire un’icona del cinema italiano contemporaneo riconoscibile e definita e per questo, dopo le primissime prove, voluta sempre più dai registi con cui ha lavorato per incarnare un certo tipo di donna – spesso madre e moglie – che non cela fragilità e nevrosi, ma anzi le restituisce come frutto e causa della complessità delle relazioni umane.

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Per provare a trovare un punto fermo tra le molteplici scritture che costellano la lunga vita e carriera attoriale di Isa Miranda (1905-1982) si può partire da una traccia. Si tratta della firma con la quale l’attrice milanese verga innumerevoli cartoline, fotografie, ritratti, libri: un ‘marchio’ destinato a sopravvivere alla sua stessa morte, che si ritrova oggi ancora copioso tra i materiali venduti nei mercati di modernariato e le collezioni di memorabilia dei cinefili, forse nel tentativo – a lungo perseguito dall’attrice – di attestare la propria presenza e di promuovere il proprio ricordo. I caratteri alti e regolari, l’inclinazione ascendente, la precisa sottolineatura del nome mantengono una stabilità sorprendente nel tempo: essi si ritrovano immutati nei primi autografi degli anni Trenta fino a quelli dell’età matura e della vecchiaia resistendo all’età, alle mode, ai cambiamenti storici. Nella permanenza di questa cifra espressiva è senza dubbio contenuto il segreto più profondo della personalità di Ines Isabella Sampietro: l’analisi grafologica svela il carattere combattivo e volitivo, l’ambizione, l’egocentrismo, ma anche la solitudine di una donna divenuta nella tarda età amministratrice e vestale del suo stesso mito. La regolarità della calligrafia lascia trasparire l’indole dell’ex segretaria, poi scrupolosa raccoglitrice di articoli e immagini, ordinati cronologicamente e assemblati in album che contengono le attestazioni gloriose del suo passato.

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Ho più ricordi che se fossi carico

di mille anni. Una gran cassettiera

gremita di bilanci, di poemi,

dolci biglietti, processi, romanze,

con folte chiome avvolte entro quietanze,

cela meno segreti del mio triste cervello.

Charles Baudelaire

 

Chi fa uso della parola “io”, ha a disposizione il miglior mezzo per nascondere se stesso. E chi ne fa uso quando racconta è svincolato dall’obbligo di autentificare l’uso che ne fa, oppure deve ammettere che non può farlo, per cui chiede soccorso.

Stanley Cavell

 

 

«Tutto quello che mi capita è la mia vita». Riparto dalla fine. O meglio, da dove ero rimasta lo scorso anno. Dalle parole di Giuliana, che proclama il dogma tautologico della propria inconoscibilità nel finale de Il deserto rosso (M. Antonioni, 1964). Apro una piccola parentesi: è buffo, ma spesso e volentieri, quando l’esperienza autobiografica diventa oggetto di studio, la scrittura – intesa come prodotto di quello studio – comincia a mutare e ad assumere la forma di chi scrive. Magari è soltanto una questione di pronomi: a furia di imbattersi in ‘io’, la studiosa si sente autorizzata a rivendicare un proprio spazio espressivo. Forse, in questo caso specifico, è la parola ‘divagrafia’ a creare imbarazzo, nel senso che, banalmente, siamo tutte un po’ primedonne sul proscenio della nostra esistenza: ogni cosa deve poter contare per noi, avere un valore all’interno della nostra ricerca, della nostra storia personale, del nostro presente. Oppure, volendo andare più a fondo, è il cinema stesso, nel suo essere interconnesso alla dimensione della memoria, a innescare sconfinamenti di campo. Alla base di ogni racconto di sé soggiace un bisogno di riconoscimento che soltanto una comunità di appartenenza – un ‘noi’, un ‘pubblico’ – è in grado di soddisfare. Pertanto, se è la diva a raccontarsi, allora ci sentiamo chiamate in causa noi in primis, come risucchiate nell’abisso di un vortice polimorfico che ci restituisce riflessi confusi. Chi è che sta scrivendo? A chi appartiene quella voce? O, ancora, in che misura riusciamo a tenere distinte la diva-donna (che di professione fa l’attrice e che decide di parlare di sé, di riplasmare i propri ricordi di essere umano) dalla diva-personaggia (protagonista di un’altra storia, fatta di tante donne diverse, intrappolate nello scrigno dei nostri ricordi di spettatrici cinematografiche)? Tutto questo per dire che forse non sono stata io a scegliere Monica Vitti, ma è stata lei a scegliere me, a richiamare la mia attenzione da una costola della ricerca che sto conducendo – ormai da tempo immemore – sul di lei pigmalione Michelangelo Antonioni. La sua autobiografia si è fatalmente intrecciata alla mia (alle mie conoscenze, alle mie parole, alla mia vita), generando una stratificazione di senso (e di sensi) fittissima, da cui è pressoché impossibile svincolarsi. Chiusa parentesi.

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