Nel 1964 Emilio Isgrò scopre la cancellatura. L’episodio che ricorda l’occasione di tale scoperta è quello avvenuto a Venezia negli anni in cui l’artista curava le pagine culturali de Il Gazzettino. L’articolo di giornale tanto incriminato apparteneva forse a Comisso, Palazzeschi o Zanzotto e i dubbi sul contenuto di quella scrittura costrinsero l’artista ancora giovane a cancellare tutte le parti ritenute spurie. Sebbene Isgrò rievochi quell’editing come una mezza bugia – che della parte opposta rivela una profonda verità – quell’episodio si ritiene significativo non solo per lui, che da quel momento diventa il ‘maestro cancellatore’, quanto per l’eco incisiva che quell’atto, quasi sacrilego, fece scaturire nel mondo dell’arte e della letteratura. L’invenzione della cancellatura, accompagnata dalla profonda e duratura riflessione sul suo valore estetico, sta a fianco alle audaci sperimentazioni del Novecento e diventava un gesto che, seppur nato quasi per caso, è destinato a diventare un linguaggio.
La cancellatura fino al quel momento era stata considerata, infatti, una pratica di poco valore, un segno funzionale alla scrittura, l’impronta di una mente che ragiona sull’errore. Cancellare significava mettere in discussione una parola o una frase (un’immagine) che per motivi di natura grammaticale o sintattica, semantica, non meritava di essere pronunciata sul foglio. Da Isgrò in poi, invece, all’interno del ‘mondo naturale’ della scrittura e del linguaggio, questo gesto quasi incauto diviene esso stesso segno poetico. L’artista lo considera «un processo dialettico in vitro»,[2] che riqualifica il gesto dell’errore, non interrompe più discorsi e significati ma è capace di generarne di nuovi. Sembra seguire un principio ‘fisico’ ben preciso; analogo a una ‘materia oscura’ del linguaggio, esiste come massa che conserva e si conserva. Non distrugge e non crea, ma trasforma le parole e le cose. «Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola»,[3] una macchia che copre e la libera, separandola dal mondo.[4] L’intuizione profonda di quell’atto fisico rappresenta, nell’immediato, l’inizio di una ricerca che riflette sulle dubbie sorti della parola, sulla condizione del linguaggio che non sembra riuscire più a sprigionare vigore semantico. Sin dagli esordi della cancellatura però Emilio Isgrò medita anche sull’impatto visuale, suggestivo, che la parola cancellata, negata alla sua vocazione alfabetica e fonetica, aveva nell’universo delle immagini. Diventa dunque anche occasione per queste ultime, così volgarmente reiterate e consumate, per purificarsi nel segno della cancellatura.