Non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio.
Ma la nostra loquacità è prenatale.
Razza di parolai, di spermatozoi verbosi,
noi siamo chimicamente legati alla parola.
Cioran
La traduzione iconografica della Divina Commedia procede da sempre a fianco al suo secolare commento verbale: una tradizione, quella visuale, che ha consentito di risemantizzare nel tempo le qualità ecfrastiche delle terzine dantesche, consegnandole al denso universo delle immagini moderne, impegnate a tramandare il poema trecentesco fino ai giorni nostri. Le nuove visioni e ricostruzioni iconiche sono diventate uno stimolo e un pretesto.
Anche la spregiudicata libertà immaginifica professata dalle arti del Novecento non si è sottratta al fascino del poema dantesco e ha ritrovato, nei luoghi dell’ultraterreno, nei racconti delle anime sventurate e meritevoli, la metafora perfetta del viaggio dell’uomo, dando nuovo corpo e nuova voce al sentimento di finitezza e smarrimento che disorienta l’uomo moderno.
Gli artisti contemporanei, infatti, per riportare all’attenzione del nostro sguardo un riverbero della poesia dantesca non hanno solo ricercato le forme più audaci e le cromie più consone al loro sentire. Il magnetismo visuale, per niente sbiadito della Commedia, ha concesso loro di vestire i panni del viaggiatore/sognatore in cammino, alla ricerca di un sé frammentato da quella ormai nota modernità baudelairiana, transitoria, fuggitiva e contingente.