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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Le ricerche nell’ambito dei film festival studies sottolineano la centralità che i Film Festival, e in particolare i Women Film Festival, ricoprono nella promozione di registe indipendenti. Essi sono come una ‘casa’ nelle cui ‘stanze’ le registe possono confrontarsi tra loro e con gli spettatori (salotto), far nascere nuove idee e progettualità (cucina), avviare transazioni economiche (studio) e dare espressione alla propria identità, alle proprie aspirazioni e ai propri desideri (camera da letto). Ma da ambienti protettivi, i festival possono anche rischiare di diventare prigioni, nel momento in cui falliscono nel compito di far conoscere al pubblico più ampio le opere che promuovono. Il contributo si interroga sull’impatto che i Women Film Festival hanno sulla vita dei film e sulla carriera delle registe indipendenti attraverso il caso di Sguardi Altrove Film Festival. Del festival si ripercorrono le origini, gli obiettivi e le sezioni principali; i dati sulla distribuzione dei lungometraggi a regia italiana degli ultimi dieci anni e sulla carriera delle loro autrici sono un primo output per ricerche più articolate sui Women Film Festival.

Research in the field of film festival studies underlines the pivotal role of Film Festivals, and in particular of Women Film Festivals, in the promotion of independent female filmmakers. They are like a ‘home’ in whose ‘rooms’ female filmmakers can confront each other and spectators (living room), give birth to new ideas and projects (kitchen), engage economic transactions (studio), and give expression to their identity, aspirations and desires (bedroom). But from being protective environments, festivals can also risk becoming prisons, when they fail in the task of making the works they promote known to the wider public. The contribution questions the impact of Women Film Festivals on the lives of films and the careers of independent women filmmakers through the case of Sguardi Altrove Film Festival. The festival’s origins, purposes and main sections are traced; data on the distribution of Italian-directed feature films over the last ten years and on the careers of their authors are a first output for more articulated research on Women Film Festivals.

It’s not about knocking on closed doors. It’s about building our own house and having our own door.

Ava DuVernay, «Time», 14 settembre 2017

 

1. I film festival: la ‘casa’ del cinema indipendente

È frequente incorrere nella metafora della ‘casa’ a proposito dei film festival per indicare la sede elettiva di un cinema di qualità, soprattutto indipendente, che diversamente avrebbe poco spazio per esistere. Una ‘casa’ che possiamo immaginare, per continuare la metafora, organizzata in ‘stanze’ diverse: le sezioni del festival stesso, gli eventi che lo animano, le attività di cui è sede, ma anche, in senso più trasversale, le funzioni che assolve. Palcoscenico per i film e luogo di confronto e di incontro tra autore e spettatore (un salotto), fucina di nuove idee e di progettualità (una cucina), sede di transazioni e valutazioni economiche (uno studio), antro misterioso che racchiude identità, aspirazioni, desideri (una camera da letto). All’interno di questa ‘casa’ gli autori hanno modo di crescere, di misurarsi tra loro e con il pubblico, di imbastire o migliorare il proprio progetto. E come ogni ‘casa’ anche quella del festival si collega con il mondo esterno attraverso ‘porte’ e ‘finestre’, che talvolta risultano difettose o aperte verso vicoli ciechi: il film non arriva al pubblico e il suo autore resta sconosciuto ai più. Ecco allora che la ‘casa festival’, da ambiente sicuro e protettivo, di crescita e di espressione sincera del sé, rischia di diventare una gabbia, magari dorata, ma incapace di comunicare con quanto sta fuori.

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L'Antropocene è un'ipotesi scientifica che dà il nome al nuovo periodo geologico in cui la Terra e la sua atmosfera sono state trasformate dalle attività umane (in particolare dallo sfruttamento dei combustibili fossili), e che di fatto ha spinto il clima terrestre sull'orlo del collasso. Reso popolare nel 2000 durante il convegno dell’International Geosphere-Biosphere Programme,[1] grazie all’accordo tra il biologo naturalista Eugene F. Stoermer, che lo aveva proposto fin dagli anni Ottanta, e il premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, il termine Ê»antropoceneʼ è ormai oggi entrato nell’uso e si è molto diffuso, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più presenti e tangibili. Spesso abusato e di recente messo in discussione e sostituito da altri – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene,[2]Chtulocene[3], Capitalocene[4]… – è innegabile che viviamo in un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell'attività umana sull'ecosistema. Alla luce di quanto sta accadendo intorno a noi risulta chiaro, infatti, quanto sia impellente e necessario acquisire consapevolezza sul valore Ê»politicoʼ delle decisioni assunte nell’ambito, ad esempio, della pianificazione territoriale, del funzionamento economico e dell’organizzazione industriale o sociale per garantirne la sostenibilità.

In tal senso, una nuova consapevolezza ecologica si sta facendo strada all’interno di una massa critica mondiale sempre più consistente e numerosa. Essa ha preso coscienza della complessità del problema: preservare l’ambiente, limitare i danni dell’impatto antropico significa prendere in considerazione, ad esempio, la demografia e gli effetti perversi della mondializzazione, della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza con il conseguente aumento dei flussi migratori. In altre parole: si può leggere e comprendere il contemporaneo solo attraverso il prisma della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali.

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Lo studio avanza una rilettura del genere artistico relativo ai confini geo-politici e concettuali (Border Art) nel contesto dell’Antropocene. Attraverso una metodologia interdisciplinare articolata tra geografia e arte contemporanea, si ripercorre un doppio binario, concreto ed epistemico. Lo studio sviscera, dunque, l’annoso dibattito attorno alla più adeguata (e decolonizzata) denominazione per la nuova era geologica e analizza una selezione di opere provenienti da diversi contesti frontalieri. Da quest’ultima, emergono due nodi principali — la “traccia” e la “mobilità” — attraverso cui la Border Art si rende un utile strumento per orientarsi all’interno delle dinamiche antropoceniche. Se la prima si presenta come un simbolo della forma mentis d’epoca moderna e coloniale, il secondo manifesta la necessità di concentrare l’attenzione verso l’idea di movimento, sostenendo così le tesi sulle kinopolitiche e sul Kinocene di Thomas Nail.

The study proposes a re-reading of the artistic genre concerning geo-political and conceptual borders (Border Art) in the Anthropocene context. The research moves through a concrete and epistemic double track, by following an interdisciplinary methodology between contemporary art and geography. By tracing the long-standing debate on the most adequate (and decolonized) denomination for the new geological era, the text analyzes a diversified selection of art pieces belonging to different border contexts. Two main concepts emerge from the latter: the idea of ‘trace” and the one of “movement”. They correspond to the main contribution that Border Art provides to grasp the anthropocenic dynamics. The first one represents a symbol of the modern and colonial thought, while the second one expresses the needs for a deeper attention towards the idea of movement and, by doing so, it sustains the thesis on kinopolitics and Kinocene proposed by Thomas Nail.

 

 

1. Introduzione, obiettivi e metodi

 

From up here the Earth is beautiful,

without borders or boundaries.

Jurij Gagarin 

 

Per via di un radicale allontanamento del punto di osservazione sulla Terra,[1] la celebre frase di Jurij Gagarin sull’impossibilità di vedere i confini territoriali dallo spazio ha fin da subito generato una collettiva, e non priva di invidia, fascinazione per quell'inedito belvedere e per l’illusione, da esso suscitata, di un mondo senza frontiere. Nonostante questa prima testimonianza, si è comunque diffusa nel tempo la diceria secondo la quale da una tale distanza sarebbe comunque ancora possibile osservare a occhio nudo la Grande Muraglia Cinese. Nel 2003, è intervenuto l’astronauta cinese Yang Liwei a sostenere[2], pur non senza persistenti difficoltà, l’irrealtà di tale radicata credenza, a sua volta confutata da spiegazioni sul funzionamento dell’occhio umano.[3] Nonostante ciò, la persistenza di questa leggenda pare suggerire un’ossessione del genere umano per i confini, se non addirittura l’incapacità stessa di immaginare il suolo terrestre completamente privo di demarcazioni territoriali. Oggi, sempre più artisti e studiosi, muovendo figurativamente dallo stesso punto di vista di Gagarin e Liwei, ci invitano a «re-imparare ad atterrare sulla Terra»[4] come reazione a un epocale disorientamento politico-sociale, di portata simile a quello post-copernicano e kepleriano. Si tratta dello sconvolgimento suscitato dalla consapevolezza di essere, ormai da tempo, dentro l’Antropocene.

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Per mezzo di quali metafore visuali è possibile comprendere la logica culturale del Capitalocene all’interno del sistema dell’arte contemporanea? Possiamo intendere l’estrattivismo come rappresentazione simbolica di tale ‘nuova’ era geologica? Intento di questo paper è fornire una risposta a tali domande considerando vari casi studio legati all’arte contemporanea utili a stabilire una traiettoria narrativa che insista sul rapporto tra paesaggio, cambiamenti ambientali e infrastrutture tecnologiche. Dal punto di vista strutturale, dopo una breve riflessione sul termine Capitalocene e sulle sue specifiche occorrenze nella critica artistica contemporanea, l’articolo si compone di due sezioni tematiche finalizzate a tracciare un parallelismo concettuale tra i vecchi metodi di estrazione mineraria – e più in generale di risorse naturali – e le attuali pratiche legate al mining contemporaneo – attività, al pari della precedente, estremamente impattante sul piano ambientale e foriera di alcune contraddizioni etico-politiche sul piano della produzione artistica contemporanea.

Which metaphors can be used to understand the agency of the cultural logic of the Capitalocene within contemporary art? Can we consider the extractivism as a symbolic representation of this new kind of geological era? The aim of this paper is to answer these questions by tackling several contemporary art case studies useful to define a trajectory that focuses on the interplay between the landscape, environmental disasters and technological infrastructures. After a short introduction on the term Capitalocene and its success within contemporary art criticism, the article is made up by two thematic chapters devoted to establish a dialectic between the old minerary extractive methods and the current practices linked to the contemporary mining.

 

1. Presupposti terminologici: Antropocene versus Capitalocene

La frase riportata nel titolo è tratta da una dichiarazione di uno speaker della conferenza Ways Beyond Internet organizzata all’interno del Digital Life Design Festival del 2012, una delle rassegne più importanti al mondo dedicata al tema della creatività futura e all’impiego di nuove strategie commerciali per le grandi aziende e multinazionali. In quella cornice, durante una tavola rotonda moderata da Hans Ulrich Obrist – con vari artisti tra cui Rafaël Rozendaal, Oliver Laric, Cory Arcangel – Daniel Keller, fondatore del duo artistico AIDS-3D, ha preso la parola e, prima di intavolare un discorso sulla post-internet art, ha annunciato, con un misto di ironia e sarcasmo, che, per quanto possa essere sostenibile ed environmental-friendly, l’arte contemporanea – e più in generale la produzione culturale della contemporaneità – grava su un ineludibile paradosso; le GIF animate, le opere di net-art, per quanto sperimentali e all’avanguardia siano, esistono unicamente grazie a combustibili fossili e i computer, con cui in genere queste opere sono realizzate, sono stati assemblati da lavoratori schiavizzati dall’attuale sistema economico.[1] In altri termini: la produzione artistica contemporanea legata ai nuovi media e alle tecnologie, che talvolta fa affidamento alle criptovalute e ai processi di mining, benché spesso animata da un forte sostegno alla salvaguardia e alla tutela dell’ambiente, ha, e avrà sempre, un impatto non trascurabile in termini di etica, ecologia e coerenza produttiva.

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Si può rimanere spiazzati, a una prima lettura, incontrando accostati i nomi di Henry Matisse e Philippe Parreno: due artisti che a prima vista, e sotto molti aspetti, non sembrano avere nulla a che spartire, e che potrebbero far pensare a un’abbinata stravagante di taglio ‘curatoriale’, giocata magari su un facile sillogismo. Invece, scrive Giorgio Bacci nelle prime pagine del suo libro, a partire da questo confronto è possibile una precisazione di metodo tutt’altro che peregrina. Come in molti altri esempi portati nel corso della trattazione, infatti, questa strana coppia fa emergere delle consonanze sotterranee, dei tratti comuni nel modo di rapportarsi al passato: entrambi, nello specifico, in uno dei momenti più alti delle rispettive ricerche hanno fatto riferimento a un verso o a un passo di Charles Baudelaire, cercando nella sua poesia le stesse cose, o approdandovi rispondendo alle medesime esigenze. Al di là degli esiti formali, non confrontabili, c’è dunque un filo rosso più saldo che lega esperienze così diverse, una comune tensione di ricerca che passa attraverso le stesse fonti culturali: la ricerca di un altrove, magari di un paradiso perduto come Calma, lusso e voluttà del 1904, o Anywhere Out of the World del 2013, che cita un verso di Thomas Hood attraverso la menzione che ne faceva Baudelaire nel suo Viaggio a Citera.

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Questo numero monografico di Arabeschi inizia un confronto fra arte e teatro nel decennio Sessanta in Italia, un periodo caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), rinnova il rapporto con lo spazio e contemporaneamente inaugura una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore). Si afferma la dimensione della ‘presenza’ in chiave anti-rappresentativa. 

This monographic issue of Arabeschi begins a comparison between art and theatre in the 1960s in Italy, a period characterised by the intensification of cross-fertilisation between artistic languages. Research, both in the figurative arts and in the theatre, converged in those years in the common interest in the contamination of languages (visual, theatrical, musical) and codes (visual, gestural, musical, sound, verbal), renewing the relationship with space and, at the same time, inaugurating a new dimension of relationship (of the author with the work, of the spectator with the work and of the author with the spectator). The dimension of ‘presence’ is affirmed in an anti-representational key.

 

 

Questo numero monografico di Arabeschi nasce da un’idea comune delle due curatrici: avviare un confronto fra discipline su un territorio della ricerca nel contemporaneo, il decennio Sessanta in Italia, caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti ed erosioni dei confini fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), per un rinnovato rapporto con lo spazio e una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore), e per l’affermazione della dimensione della ‘presenza’, in chiave anti-rappresentativa.

È allora che le arti visive sviluppano una declinazione particolare del gesto, della materia, del corpo, dell’azione, dell’esperienza, mentre il teatro inizia a infrangere il suo legame con il testo e con il quadro scenico, mettendo in discussione l’intera gerarchia dei codici linguistici. In entrambi i campi della ricerca si reinventano le forme, gli spazi, i vocabolari. Si evidenzia ad esempio, tanto nell’ambito delle arti visive quanto nel teatro, una vicinanza alla realtà (quella delle cose, del quotidiano ma anche quella della politica e dei temi sociali), lo sviluppo di nuove forme espressive come l’happening, capace di soddisfare la fuoriuscita dal quadro (opera e scena), l’aspirazione ad aprirsi alla comunità (invitando il pubblico a una partecipazione attiva), l’esperienza di nuovi luoghi e spazi di incontro tra opera e pubblico. Tutto con, sullo sfondo, un decennio complesso, proveniente contemporaneamente dalle ceneri del dopoguerra e dal nuovo volto moderno del Paese.

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Il contributo prende in esame l’attività poliedrica di Giovanna Brogna/Sonnino proponendo un confronto tra le differenti aree di ricerca (fotografia, cinema, arti visive) esplorate dall’artista che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro. L’analisi del libro d’artista Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019), raccolta di lettere battute a macchina indirizzate allo psicanalista di Brogna Sonnino e accompagnate da materiale eterogeneo (cartoline, fotografie, collage, fotocopie), offre l’occasione per ripercorrerne gli esordi da cineasta e l’approdo alle arti visive e di individuare alcune consonanze importanti fra i suoi diversi campi di ricerca: l’archivio come pratica artistica, la contaminazione tra verbale e visuale e il connubio tra arte e terapia. Dal suo linguaggio originale, apprezzato in occasione di mostre e rassegne promosse in Italia e all’estero, scaturiscono opere di grande interesse in cui si riscontra il ricorso a un’efficace strategia fototestuale che guarda alla forma atlante e all’autobiografia come forme espressive privilegiate.

The essay analyzes several areas (Photography, Cinema, Visual Arts) of Giovanna Brogna Sonnino’s research with a focus on the hybrid nature of Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019). This artbook is an unconventional way of narration that combines a collection of letters to her psychoanalyst with an heterogeneous variety of visual content ranging from postcards to collages. Lettere al Dott. B. 1979-1987 represents the ultimate essence of Brogna/Sonnino’s work: the archive as an artistic message, the contamination between verbal and visual, and the merge between art and therapy. Relying on different media, techniques and strategies including also fototexts and atlas, the artist composes a very personal and original autobiography.

 

 

 

1. Autobiografia e (auto)terapia

 

Giovanna Brogna/Sonnino è un’autrice versatile e dall’ampio orizzonte culturale che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro.[1] Alla fine degli anni Settanta, dopo la formazione storico-artistica tra Firenze e Catania, Brogna/Sonnino si trasferisce a Roma, dove si interessa al mondo del cinema e della televisione grazie alla specializzazione come cineoperatrice.[2] Negli stessi anni si dedica alla fotografia ma la sua prima mostra è del 1986. All’attività lavorativa per la RAI si affianca quella altrettanto prolifica di autrice e produttrice indipendente che mai abbandona l’imprinting del cinema dato dall’insieme di narrazione e ritmo. Con Mathelika e Drifting Pictures Brogna/Sonnino realizza film, docufilm e documentari e parallelamente si cimenta nella sceneggiatura, attività emblematica di un immaginario conteso tra gli ambiti della visualità e della scrittura.[3] Bruno Di Marino coglie precocemente l’importanza di questo nesso nel video Parliamone (1998):

 

 

Con questi linguaggi espressivi Brogna/Sonnino sperimenta un originale intreccio iconotestuale che si basa sul rapporto simbiotico tra arte, vita e terapia ed è riconducibile alla pratica dell’accumulazione terapeutica di oggetti d’affezione attraverso l’archivio. Lo sguardo sull’archivio è infatti presente nei suoi diversi (e forse complementari) progetti, accomunati dalla logica dell’atlante e dal prelievo di immagini preesistenti, che consentono all’artista di pervenire alla definizione della propria identità.[5]

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Nella ricerca di Tomaso Binga la centralità del corpo, declinata sia nella dimensione performativa sia in quella fotografica, si coniuga sin dagli esordi con una operazione di desemantizzazione della scrittura che rimanda, essa stessa, ad una espressività primaria, incarnata proprio nel linguaggio del corpo. Gli esiti della sua operazione sull’espressività si traducono in una radicale messa in discussione della cultura, che va letta anche in chiave femminista.   

In Tomaso Binga's research the centrality of the body, declined both in the performative and in the photographic dimension, is conjugated from the beginning with an operation of desemantization of writing that refers, itself, to a primary expressiveness, embodied precisely in the language of the body. The results of her operation on expressiveness translate into a radical questioning of culture, which must also be read in a feminist key.

 

 

La centralità del corpo è certamente uno degli elementi cardine nella ricerca di Tomaso Binga, un aspetto attorno al quale si dipana il pensiero che sorregge molta parte della produzione dell’artista e che quindi resta fondante anche nelle espressioni più recenti del suo fare. La testimonianza più evidente della propensione di Binga ad intendere il corpo in guisa di strumento espressivo, è sicuramente il fatto che l’artista sia ricorsa, costantemente nell’arco della sua ormai lunga carriera artistica, alla performance[1] o comunque a operazioni che restano di marca accentuatamente performativa anche quando ricondotte all’interno di diverse dimensioni linguistiche, dal video alla fotografia, a forme composite di espressione visiva, capaci di ‘mantenere’[2] viva tutta la tensione dell’accadimento. Come nel caso di Vista Zero uno dei primi interventi performativi di Binga, proposto ad Acireale il 24 settembre 1972, in occasione della VI Rassegna d’Arte Contemporanea – Circuito Chiuso/Aperto, il cui ‘esito’ fotografico, una sequenza di fotogrammi dell’azione, ha assunto la forza dell’opera in sé autonoma.

La riflessione sul corpo, e il suo uso secondo varie declinazioni come segno espressivo, certamente ha a che fare con il coinvolgimento di Binga con le tematiche che il femminismo della differenza andava proponendo proprio in quei primi anni Settanta, delle quali è interprete sottile e raffinata: senza toni rivendicativi o aggressivi, l’artista si pone in modo comunque chiaro e diretto rispetto alle questioni legate alla condizione femminile, in senso sociale e personale. Iconica, in questo senso, è Bianca Menna e Tomaso Binga oggi spose, installazione e performance tenutesi alla Galleria Campo D. a Roma, il 15 giugno 1977, per le quali è interessante leggere quanto scrive l’anno successivo Alberta De Flora:

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L’articolo analizza le performance e le video azioni realizzate da Tomaso Binga agli esordi del suo percorso, attraverso lo studio incrociato di fonti fotografiche, scritte e orali, spesso inedite, al fine di rileggere un capitolo importante nel suo lavoro e di allargare lo sguardo ai nessi tra pratiche performative, linguaggi verbo-visivi e pensiero femminista nello specifico contesto storico-artistico e culturale dell’Italia degli anni Settanta. Le performance di Binga, riesaminate alla luce dei nuovi documenti rintracciati, vengono poste a confronto con le sue coeve opere verbo-visive e con il panorama più generale delle esperienze performative e comportamentali diffuse nell’orbita della poesia visiva e tra le artiste italiane della sua generazione che con lei condividono l’urgenza di lavorare sulle relazioni tra arte, azione e identità di genere.

This paper analyzes the performances and video performances made by Tomaso Binga at the beginning of her career, through the study of photographic, written and oral sources, often unpublished, in order to reread an important chapter in her work and to widen the view to the connections between performative practices, verbo-visual languages and feminist thought in the specific historical, artistic and cultural context of Italy in the seventies. Binga’s performances, re-examined in the light of the new documents found, are compared with her verbo-visual works and with the panorama of performative experiences diffused in the orbit of visual poetry and among the Italian women artists of her generation who shared the urgency of working on the relationships between art, action and gender identity.

 

 

 

Tramite la collega Irma Blank[1] nell’ottobre del 1976 Tomaso Binga, nom de plume di Bianca Pucciarelli, propone una mostra dei suoi ultimi lavori all’allora direttore della Biblioteca dell’Università di Amburgo, Rolf Burmeister. L’artista si dice pronta a realizzare «qualcosa di simile»[2] all’ambiente presentato alcuni mesi prima nella mostra Carte da parato, inaugurata il 17 maggio a Roma presso l’abitazione privata Casa Malangone.[3] In quell’occasione Binga aveva tappezzato per intero i muri della casa con rotoli di carta da parati a motivi floreali, sulla quale era intervenuta tracciando i segni grafici della sua scrittura ‘desemantizzata’, comparsa per la prima volta nel 1972 in alcune sculture appartenenti alla serie dei Polistirolo. In una lettera inedita spedita il 4 ottobre 1976 a Burmeister, Binga fa una breve ma efficace descrizione dell’opera:

 

 

La scelta di Binga di definire l’opera con il termine performance, a questa data, può apparire singolare: a Casa Malangone, infatti, l’artista non aveva ancora animato l’ambiente con l’azione Io sono una carta, come avrebbe fatto invece nelle successive riproposizioni dell’opera nel luglio del 1977 nell’ambito dell’esposizione Distratti dall’ambiente alla Prima Biennale d’Arte Contemporanea di Riolo Terme o nel 1978 nella seconda tappa della rassegna al Museo Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Più che riferirsi all’azione, concepita in un secondo momento, l’uso della parola performance si spiega quindi con il carattere contingente e transitorio dell’intervento stesso, progettato per uno spazio domestico destinato a essere vissuto e modificato, e con le componenti gestuali e corporee legate alla sua realizzazione. Data la natura effimera dell’opera, Binga avverte la necessità di documentarne anche il processo esecutivo, facendosi ritrarre al lavoro in una serie di fotografie scattate dall’architetto e fotografo Antonio Niego, confluite nel libro d’artista …& non uscire di casa[5] pubblicato a causa di ritardi editoriali soltanto nel 1977, ma già in cantiere nel 1976 grazie al supporto del poeta visivo Magdalo Mussio,[6] direttore artistico della casa editrice La Nuovo Foglio di Giorgio Cegna. Il volume, spesso trascurato dagli studi, fornisce chiavi di lettura utili per comprendere l’intervento a Casa Malangone e soprattutto per chiarire il perché Binga lo considerasse al pari di una performance. Definite da Binga come «un’analisi interpretativa dell’architetto Antonio Niego»,[7] le fotografie restituiscono infatti le componenti performative che caratterizzano l’opera. L’artista è colta in un incalzante corpo a corpo con lo spazio domestico: mentre traccia i segni della sua ‘scrittura silenziosa’ sui lunghi rotoli di tappezzeria distesi sul pavimento; in piedi su una scala mentre stende la colla sulle pareti; quando infine applica sui muri, rotolo per rotolo, la carta da parati. L’installazione, nella sua impermanenza, sopravvive attraverso la ripresa fotografica che, oltre a generare una nuova dimensione esperienziale e conoscitiva dell’opera, è anche un mezzo indispensabile per la sua storicizzazione. Da questo punto di vista l’ambiente a Casa Malangone pone dunque questioni interpretative non dissimili da quelle sollevate dalle numerose performance realizzate da Binga sin dagli esordi del suo percorso. Benché manchi a tutt’oggi una mappatura sistematica e a largo raggio sul contributo delle artiste italiane nel campo della performance, è indubbio che nella scena artistica degli anni Settanta Binga spicchi per la continuità e l’originalità con cui ha operato in questo ambito, nel segno di un’aperta adesione alle istanze del neofemminismo. La critica è concorde nell’assegnare un’importanza cruciale a questa fase del suo percorso,[8] ma alcuni episodi restano da chiarire. Anzitutto in che rapporto stiano le prime azioni video realizzate da Binga nel 1973 in occasione della mostra personale allo Studio Pierelli con le sue opere verbo-visive e con le più conosciute performance svolte nella seconda metà del decennio. Un interrogativo ancora aperto riguarda inoltre la direzione intrapresa dall’artista rispetto al panorama più generale delle esperienze performative e comportamentali diffuse nell’orbita della poesia visiva e tra le artiste italiane della sua generazione che, al pari di lei, operano sulle relazioni tra arte, azione e identità di genere. Condurre una ricognizione sulle prime performance di Binga attraverso lo studio incrociato di fonti fotografiche, fonti orali e scritte, tra cui molte lettere inedite, consente dunque di rileggere e approfondire una vicenda importante nel suo lavoro e di allargare lo sguardo ai nessi tra pratiche performative, linguaggi verbo-visivi e pensiero femminista nello specifico contesto artistico e culturale dell’Italia degli anni Settanta.

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